La genesi spiegata da mia figlia Haim Baharier
Casa Editrice Garzanti
Un’invincibile pulsione a chiarire, che non ha ancora esaurito la propria
forza. Al centro la Bibbia, il Libro per eccellenza. E tutt’attorno un
intrico di commenti, cresciuti gli uni sugli altri sino a formare, nel
corso dei secoli, una vera foresta di glosse e di citazioni. La tradizione
esegetica del giudaismo evoca un senso di rigoglio, spesso addirittura di
eccesso.
A schiere, i rabbi sono tornati instancabilmente su uno stesso versetto,
ne hanno rivoltato ogni parola e ogni sillaba, hanno analizzato ogni
sfumatura
di significato, hanno commentato i commenti altrui. E ancor oggi, ogni
giorno, ebrei ortodossi e riformati, fedeli sostenitori del passato o
irrequieti araldi della modernità, aggiungono nuove pietre allo smisurato
edificio dell’interpretazione biblica, in un processo di crescita testuale
che esprime l’anima più profonda del giudaismo.
In un breve libro sulla Genesi, Haim Baharier si presenta come un leale
continuatore dell’antico mestiere di spiegare. Eppure sceglie di
continuare
innanzittutto con una rottura. Anziché aggiungere, infatti, toglie. Per
arrivare al significato profondo dei versetti della creazione, ne
assottiglia la materia, ne ripulisce le frasi, prova a sottrarre alcune
consonanti, a occultare qualche nesso sintattico. La si potrebbe definire
un’esegesi minimalista, basata su di una necessità interiore.
La spinta a questo esercizio di sottrazione viene del resto a Baharier
dalla propria vicenda personale, dall’enigma di una figlia amatissima e
menomata, a cui spiegare, e dalla quale farsi spiegare, il segreto del
proprio destino e della propria cultura. Dall’esperienza famigliare di un
“meno” conoscitivo sorge così un percorso di decantazione del testo, in
una
ricerca di semplicità interpretativa, che risale la corrente impetuosa
dell’ipertrofia critica dell’ebraismo.
Tuttavia anche questo esperimento di riduzione, per quanto saturo di
sensibilità postmoderna, è compatibile con la tradizione rabbinica, che
tutto contiene e che ammette dunque la negazione del proprio principio di
crescita. Già i maestri del Talmud avevano affermato: “Chi aggiunge
alcunché (alle parole del Signore), toglie qualcosa” (bSanhedrin 29°). Per
legge di compensazione è allora legittimo togliere, come fa Baharier, per
arrivare a una nuova aggiunta di senso, che chiarisca forse il Libro e,
con
quello, l’incompiutezza dell’esistere.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore