Al Qaeda I testi presentati da Gilles Keppel 11/10/2006
Autore: Giorgia Greco

Al Qaeda I testi presentati da Gilles Keppel
Laterza


 La spada di Maometto scorre sul nostro collo pingue con la naturalezza dell’affermazione biologica. Con la spontaneità del batterio unicellulare che si moltiplica per farsi organismo complesso. Agli occhi dell’islam l’occidente è come l’aria che può gonfiare il petto di un corpo vigoroso. Puro spazio vitale. E gli occidentali sono il residuo gassoso di questa respirazione. Dettaglio esistenziale, scarti devitalizzati di una combustione necessaria. Prima degli attuali signori di al Qaida, il cisgiordano ‘Abdallah’ l’ha spiegato più volte nei suoi scritti e con un tono tanto chiaro e perfino fanciullesco: “Il movimento islamico sarà capace di costituire la società islamica solo grazie a un jihad popolare generale, di cui il movimento sarà il cuore pulsante e il cervello, come un piccolo detonatore che faccia esplodere una grande bomba, liberando le energie contenute nella umma, e le sorgenti di bene che sono trattenute al suo interno”. Al Qaida adora la metafora biologica, soprattutto quando inclina all’esplosione. E’ chiaro che se dai la parola al tuo carnefice lui ti spiegherà con la voce bassa perché non può fare a meno di estinguerti. Forse pensava questo, il politologo francese Gilles Kepel, forse voleva ricapitolare gli scritti qaedisti – stralci di libri, nastri, lettere e documenti appena pubblicati da Laterza con il titolo “Al-Qaeda. I testi”– come un atto notarile algido e dovuto. La sua è una ricognizione del terrore affidata ai terroristi. Un’ispezione disincarnata. La carne ce la mette direttamente l’islam sanguinario mentre declama la virtù del mattatoio. Ne è venuto fuori un formidabile certificato di morte indirizzato all’occidente e ritmato in quasi trecento pagine dai campioni dell’ideologia jhadista, Osama bin Laden, Abdallah Azzam (1941-1989), Ayman al-Zawahiri, Abu Mus’ab al Zarqawi (1966-2006). Un canto di conquista ronzante come la giaculatoria monocorde del muezzin che sveglia i sudditi di Allah dal balcone di un qualsiasi minareto. Loro parlano una lingua chiara perché non hanno più bisogno di fingere. Se non troviamo ragioni passabili per preferire il rischio della morte alla certezza della colonizzazione, possiamo pure accomodarci: saranno loro a dirci cosa fare. Se immaginarci come sudditi convertiti, oppure se è giunta l’ora di slacciare la cravatta, allungare il collo e offrirlo come un’acquasantiera all’immersione delle loro mani armate di scimitarre. Loro, lo sceicco saudita, il defunto teologo palestinese, il medico egiziano e lo sgozzatore giordano da poco ammazzato in Iraq, quasi tutti accomunati dal temperamento sensibile dovuto a un’infanzia dolce e pia, non rappresentano l’eresia di una religione impazzita. Loro sono la faccia onesta dell’islam, l’abisso che guarda negli occhi senza bisogno di ulteriori mediazioni. Loro hanno letto il Corano e interpretano secondo coerenza il volere di Allah: “Combatteteli dunque finché non vi sia più scandalo e il culto tutto sia reso solo a Dio”. “Se non vi lancerete in battaglia, Iddio vi castigherà di castigo crudele, vi sostituirà con un altro popolo”. Questa è la dottrina maomettana prediletta da ‘Azzam, il teorico dell’Internazionale islamica perfezionata da bin Laden. E’ riprodotta nel suo secondo capolavoro intitolato “Raggiungi la carovana!”, non è interpretabile in un modo o nell’altro. Ogni musulmano deve semplicemente leggerla da destra verso sinistra e quindi applicarla. La prima parte del libro giustifica il jihad attraverso la ragion pura coranica. La seconda spiega come realizzarlo. Ogni riferimento teologico muove verso di noi: “Chiamare gli infedeli alla vera religione e combatterli se non accettano”. L’islam ha questo pregio altissimo che è la semplicità: ciò che per noi è il rasoio di Occam, il fare economia di proposizioni astratte, per Maometto si traduce nel dovere di assomigliare carnalmente al proprio Dio lontanissimo che assalta per convertire e uccide quando la conversione non riesce. Scrive: “O Dio, tutto è semplice per Te, Tu puoi rendere semplice anche la tristezza!”. Aggiunge idealmente bin Laden, dalle trincee afgane, rivolgendosi a noi: “Morire sulla via di Dio è un onore auspicato da coloro della mia comunità che lottano. Noi amiamo la morte sulla via di Dio quanto voi amate la vita, non temiamo niente, anzi speriamo una morte simile”. L’occidente cosa spera invece? Azzam lo ha capito benissimo: lì dove tramonta il sole si eleva l’idolatria democratica: “La democrazia è una nuova religione, perché se nell’islam la legislazione viene fatta da Dio (che sia esaltato!), in democrazia essa spetta al popolo. Si tratta di una nuova religione che consiste nella deificazione del popolo, a cui conferisce il diritto di Dio, così come i Suoi attributi. Ciò riporta ad associare degli idoli a Dio e cadere nell’empietà”. Impeccabili esegeti della verità coranica, i qaedisti considerano come una provocazione la semplice esistenza d’un figlio dell’occidente. Sia egli laico – “Pagano!”, statuiscono loro – oppure giudaico o cristiano; ovvero americano, sintesi completa dell’empietà vista dal deserto. Bin Laden, intellettualmente rozzo, dentro questa architettura si muove in modo prosaico. Guarda alla concretezza del risultato (“il califfato ben guidato”). Accetta la menzogna (“Vi consiglio di fare ricorso alla dissimulazione, soprattutto per le azioni del jihad”) ma così facendo illumina a giorno il profilo dell’islam moderato. Ne utilizza addirittura certe parole recriminatorie, mentre raffina l’industria del martirio esplosivo: “Dio è testimone che non avremmo pensato mai di distruggere le Torri se non avessimo assistito a tanta ingiustizia e oppressione da parte dell’alleanza americano- israeliana contro i nostri in Palestina e nel Libano, al punto che, quando la misura è stata colma, ci abbiamo pensato”. Bin Laden ha studiato nel continente di Machiavelli. I suoi amici e seguaci hanno assottigliato il grado di finzione fino a dissolverlo. Hanno un programma scritto nel sole divorante del deserto, devono piantarlo nella terra all’ombra del Corano, come recita il titolo del commentario scritto dal maestro di Zarqawi, Sayyid Qutb. L’obiettivo è elementare: “Non restino che musulmani o persone concilianti”. La strategia dice di “attaccare gli infedeli nel loro paese” (jihad offensivo) e “espellere gli infedeli dai nostri paesi” (Azzam). La tattica suggerisce di “spostare il combattimento nel campo del nemico” e “concentrarsi sulle operazioni suicide, che sono più adatte a infliggere perdite al nemico e sono meno costose per i mujahiddin” (Zawahiri). Il vantaggio sul nemico è garantito dalla sua “codardia e mancanza di spirito combattivo” (bin Laden). Le anime contrastate dell’occidente, tutti coloro che amano il gusto morbido di pervertire uno stato di guerra in questione filosofica, forse un giorno troveranno conforto nella caratteristica misericordia di Maometto (“Non uccidere i vecchi decrepiti né i bambini piccoli”) e in quella dei giuristi maomettani: “La nostra conclusione, ma Dio ne sa di più, è la seguente: quello che può essere utile agli infedeli o ad altri, deve essere ucciso, si tratti di un vecchio, di un prete o di un invalido. Ma i vecchi cadenti, i monaci isolati e i malati sofferenti che non possono essere utili agli infedeli e non cagionano male alcuno ai musulmani, è meglio lasciarli in vita”.

Alessandro Giuli dal Foglio dell'11 ottobre 2006