Hannah Arendt Antologia a cura di Paolo Costa 05/10/2006
Autore: Giorgia Greco
 Antologia            Hannah Arendt
a cura di Paolo Costa
Casa Editrice:             Feltrinelli

In un mondo sfigurato dal totalitarismo e dall’Olocausto non separò mai
critica e comprensione: oggi, a un secolo dalla nascita, un’antologia di
scritti, un carteggio con Broch e numerosi saggi ne misurano virtù e
contraddizioni

Anche e soprattutto le contraddizioni rendono grande la figura di Hannah
Arendt. Nata ad Hannover il 14 ottobre 1906, cresciuta intellettualmente
con Husserl, Jaspers e Heidegger, emigrò prima in Francia e poi
definitivamente negli Stati Uniti: quest’anno compirebbe cent’anni. Tale
distanza mette in moto quel metronomo che segna la Storia con la maiuscola,
impone un confronto con la sua esperienza. Non che sia una comoda soluzione
per risolvere i problemi dell’oggi, questo confronto: è piuttosto una
lezione complessa, su cui riflettere senza lesinare le energie spirituali
apportate dal futuro che lei non ha fatto in tempo a conoscere.
Cominciando proprio da quelle specie di contraddizioni – o forse sono
“soltanto” arditi accostamenti – che la contraddistinguono.
Hannah Arendt scrisse molto – testi, saggi, critiche d’occasione – ma con
un sorriso ironico spiega a Gunter Gaus che “se avessi avuto in dono una
memoria così prodigiosa da conservare davvero tutto ciò che penso, dubito
fortemente che avrei scritto alcunché – conosco la mia pigrizia”.
Il suo è un pensiero essenzialmente politico, nel senso originario e alto
della parola: si occupa della polis, cioè del vivere insieme. Della natura
sociale dell’uomo, con il potenziale catastrofico che essa implica. Eppure,
quasi tutta la produzione intellettuale di Hannah Arendt dettata dalla sua
esperienza individuale, da ciò che ha vissuto in prima persona:  “Per
esempio da bambina sapevo di avere delle fattezze ebraiche, di essere
diversa dagli altri bambini. E ne ero pienamente consapevole,ma non nel
senso che mi sentissi inferiore: semplicemente le cose stavano così”.
Anche addentrandosi nel suo pensiero spicca la coabitazione di “richiami”
molto diversi, che sono proprio la chiave della sua originalità. Hannah
Arendt è stata la grande esploratrice del fenomeno totalitarismo. La sua
indagine nell’oggetto uomo ruota intorno al mistero politico e sociale
della sopraffazione. E’, per l’appunto, un’indagine radicalmente politica:
dove però insieme al “comprendere” c’è sempre una misura di stupore. Di
sbigottimento. E’ permeata, questa ricerca, da una combinazione di
“responsabilità e passione, di lucidità e partecipazione”.
“Biograficamente, l’Olocausto, le notizie sulla soluzione finale e sui
campi di concentramento nazista rappresentarono un vero e proprio trauma
emotivo e cognitivo per Hannah Arendt, “qualcosa con cui era impossibile
venire a patti”. Questo fatto può aiutarci a comprendere il pathos
“essenzialista” che caratterizza l’interpretazione arendtiana del
totalitarismo, l’insistenza, cioè, sul carattere di novità assoluta e
unicità del fenomeno totalitario”, scrive Paolo Costa in prefazione
all’”Antologia” che Feltrinelli manda in libreria in questi tempi di
anniversario (mentre Bruno Mondatori ripropone il saggio di Simona Forti
“Hannah Arendt tra filosofia e politica” e Fazi annuncia gli scritti di
Paolo Flores d’Arcais “Hannah Arendt, Esistenza e libertà, autenticità e
politica).
Proprio all’indomani della guerra in Europa,mentre le notizie sulla
catastrofe da vaghe ombre si tramutavano in certezze inequivocabili, risale
la conoscenza fra Hannah Arendt e Hermann Broch: siamo nel 1946. Lui è uno
scrittore affermato nonché formidabile tombeur de femmes, lei ha vent’anni
esatti meno di lui. Ma non era ammissibile che la loro relazione restasse
entro i confini dei ruoli tradizionali: diventò invece un sodalizio segnato
da cauta, ironica distanza – usarono sempre il “lei” per dialogare. Ne è
testimone un nutrito carteggio lungo cinque anni- fino al 1951, appena
prima della morte di lui – che l’editore Marietti pubblica ora in
traduzione italiana (con vari materiali in appendice), a cura di Roberto
Rizzo.
Iniziando il carteggio, Hannah Arendt sapeva “benissimo a cosa andava
incontro”: entrava nella zona di seduzione di Broch, mera propedeutica
all’abbraccio. Eppure queste lettere sono sempre prova di un magistrale
equilibrio che non esclude affatto una reciproca confidenza ai limiti della
complicità. Arendt giudica i libri di Broch, in particolare “La morte di
Virgilio”, ne suscita reazioni e considerazioni, il tutto sospeso in uno
spazio autonomo che  sembra escludere ogni altro membro della loro vivace
comunità sociale.
Il senso di appartenenza – al mondo ebraico, alla comunità degli esuli,
alle menti pensanti – è sempre mitigato, se non negato, da Arendt. “Non ho
mai cercato appartenenza, nemmeno in Germania”. E questa è la chiave per
leggere i saggi raccolti da La Giuntina sotto il titolo “Hannah Arendt.
Percorsi di ricerca tra passato e futuro. 1975-2005.
Con una eccezione di cui la pensatrice parla spesso e volentieri a dispetto
del carico di sofferenza che comporta: il suo rapporto con la lingua
tedesca. Mai rinnegata, come comprensibilmente fecero molti esuli. Anzi:
“Mi sono sempre deliberatamente rifiutata di perdere la mia lingua madre.
Ho sempre mantenuto una certa distanza rispetto al francese, che un tempo
parlavo molto bene, come pure rispetto all’inglese, la lingua in cui scrivo
oggi….In tedesco mi permetto delle cose che non oserei mai fare in
inglese…..la lingua tedesca è la cosa essenziale che è rimasta e che ho
sempre volutamente conservato”, racconta a Gaus nella bella intervista che
apre l’antologia di Feltrinelli.
Il suo rapporto con la lingua madre risente presumibilmente dei tre cardini
“metodologici”  del suo pensiero: comprendere, perdonare, criticare. Queste
tre azioni intese nel senso filosofico di atteggiamento mentale,
rappresentano il suo approccio alla storia. Alla storia che si fa
collettiva per eccellenza, o meglio per infimità, quando diventa sterminio
di massa ad opera del totalitarismo nazista, e di quella personale
irrimediabilmente intrecciata con essa.
In questo senso “L’umanità in tempi bui”, scritto in occasione del
conferimento del premio Lessing (1959) è una sintesi completa del percorso
arendtiano. Ora è disponibile nella traduzione di Laura Boella sia entro
l’antologia di Feltrinelli sia in volume a parte, pubblicato da Raffaello
Cortina.
Qui,verso la fine, Hannah Arendt spiega quale misura di attinenza alla
realtà s’abbia da tenere presente in un mondo sfigurato, divenuto inumano:
spiega cioè la ragione di quella istanza a comprendere che tiene insieme
tutto il suo pensiero. Giustifica il perché, alla domanda “chi sei?”, la
sola risposta adeguata  - in quegli anni, prima di “emigrazione interiore”
in una Germania sempre più nazificata e poi di fuga per la sopravvivenza -,
l’unica risposta possibile (malgrado il ribadito rifiuto d’ogni
appartenenza) fosse: “un’ebrea.
Perché “solo questa risposta teneva conto della realtà della persecuzione”
e qualunque altra risposta sarebbe risultata come una grottesca e rischiosa
fuga dalla realtà.


Elena Loewenthal
La Stampa