Samuele Romanelli - Visioni d’Oriente 13/09/2006
Autore: Giorgia Greco
Visioni d’Oriente – Samuele Romanelli
Casa Editrice:       La Giuntina

L’estate: inconfondibile tempo di viaggi. L’era delle ferie mordi e fuggi
ha spazzato via l’interminabile villeggiatura e anche il viaggio come
cammino verso l’ignoto. Quale avventura potrà mai annidarsi, in fondo,
oltre le sale partenze degli aeroporti, le banchine delle navi da crociera,
le pullulanti stazioni ferroviarie? Questi luoghi raccontano ormai una
monotonia che ci fa sentire a casa in ogni scalo, ogni tappa per quanto
esotica.
La vacanza formato grandi distanze s’accompagna ormai alla comoda
consapevolezza che ogni luogo, anche il più lontano, ci riserva qualcosa di
familiare. Di già visto, magari fra le pagine di una rivista patinata,
magari in televisione. Se non altro, nell’album di foto di qualche amico
che c’è già stato prima di noi. Difficile partire armati soltanto di
stupore intatto.
Una volta, va da sé, non era così. E allora, se non altro per ritrovare il
senso di com’era una volta, viaggiare lontano, capitano a proposito le
“Visioni d’Oriente” di Samuele Romanelli. Il suo viaggio in Marocco ha
misure, oggi come oggi, davvero impensabili. Vi rimane infatti fra il 1786
e il 1790: quattro anni per farsi un’idea del Paese, degli usi e costumi.
Il suo “Viaggio in occidente” – così il titolo originale dell’opera ebraica
fu pubblicato già nel 1792, a Vienna. E da allora subì una fortunata serie
di ristampe piuttosto ravvicinate. Non si può dar torto agli editori del
tempo: è un testo divertente nel vero senso della parola. Attento agli
aspetti più curiosi che s’annidano dietro il folklore e i luoghi comuni.
Romanelli non risparmia il suo sarcasmo, soprattutto nei confronti delle
bizzarre comunità ebraiche che visita: “Fanno acrobazie per interpretare
letteralmente semplici formule retoriche adducendo a loro difesa che
nessuno si è ancora reso conto del loro significato ovvio e parimenti si
invischiano in letture esoteriche di versetti chiari come il sole”.
Da dongiovanni qual è, si mostra sempre attento alle presenze femminili che
incontra, seppure schermate da veli e palandrane. E mal cela con molta
fatica il suo rimpianto di essere nato in un mondo che ha respinto la
poligamia. Anche se dichiara (ma sarà vero?) di rifiutare svariati partiti
propostigli sul campo, dipinge con “troppo” gusto il ritratto di famiglia
di Elihau: “Qui si trovano riunite le sue tre mogli. Quella che superava le
altre per dignità, intelligenza e gioventù era originaria di Tangeri,
ragion per cui sapeva lo spagnolo ……Anche la più anziana gli aveva messo al
mondo figli maschi e femmine, ma quella che veniva da Meknes (grassa come
un bue) era sterile….Non c’era mandragora capace di farle tacere quando si
contendevano il diritto di passare la notte col marito e spesso Eliahu si
ritrovò a dormire da solo pur di non essere costretto a scegliere tra di
loro”.
Al di là di questo interessante viaggio, vale la pena un’occhiata
complessiva su questo avventuriero, intellettuale e poeta nato a Mantova
nel 1757 e vissuto a Londra, Amsterdam, Berlino, Vienna, Trieste e Nizza.
Passato con disinvoltura dal fronte asburgico a una entusiastica militanza
per Napoleone; autore di poesie, traduzioni (come il saggio di Pope
sull’uomo che portò dall’inglese all’ebraico), di una degna grammatica
ebraica. Fu una figura eclettica, insomma, originale e difficile da
incastonare nei canoni tradizionali. Merito soprattutto di quella sua
intelligente curiosità verso la vita.

Elena Loewenthal
La Stampa