Josef Burg - La canzone dimenticata. Racconti yiddish 22/08/2006
Autore: Giorgia Greco
La canzone dimenticata. Racconti yiddish - Josef Burg
Casa Editrice: Giuntina


Una lingua rimasta senza lettori e un mondo che si è dissolto, svuotato dal
male incurabile della storia. I racconti di Josef Burg, uno degli ultimi
maestri della letteratura yiddish, potrebbero essere grevi di nostalgia,
invece la prosa procede con ritmo irregolare, in attesa quasi spasmodica di
un nuovo inizio. Questo autore intemperante, che sa scegliere le parole con
una ruvida raffinatezza e che sconta a volte la propria irruenza
espressiva, è testimone di un tempo lontano. Nato nel 1912 a Wishnitz, in
Bucovina, ha studiato a Vienna, è scampato alla Shoah e alle purghe
staliniane per trovare infine, nella vecchiaia, una nuova stagione creativa
a Czernowitz, nell’Ucraina post-sovietica.
Se la letteratura serve a contraddire il reale, certo i racconti di Burg
meritano un posto di primo piano. Le sue vicende di kleine mentschle,
“persone semplici” sembrano immerse in una quotidianità rassicurante, ma
nulla è quello che appare e basta un avverbio,o un aggettivo che si metta
di traverso nella frase, per scendere lungo il piano scosceso
dell’irrealtà.
La cornice è quella di un’Europa orientale popolata di minuscole comunità
ebraiche, tra mesti paesaggi di betulle e fiumi solenni. La cronologia è
meno certa, poiché la scrittura fa la spola tra un idillio anteguerra e gli
anni dell’annientamento. Di tanto in tanto compare il lungo sogno/incubo
del comunismo, assieme a qualche scheggia di contemporaneità. I personaggi
di Burg fanno mestieri insoliti per gli ebrei: sono battellieri che
viaggiano su larghe chiatte o boscaioli su montagne sperdute, e anche quei
pochi che s’affaticano nel lavoro intellettuale sembrano consumati da
un’energia febbricitante. In queste novelle si raccoglie così una galleria
di vittime ignare di esserlo, come il manovale, che gioca alle carte la
propria giovane moglie, o l’ebreo di Vilna, che si vergogna delle proprie
origini e fugge per pochi minuti dal ghetto, ma resta poi profugo per tutta
la vita.
Qua e là i toni sono forse un po’ enfatici, come si addice a sentimenti
passati di moda. I momenti migliori sono quelli in cui il pathos si riversa
nel paesaggio, così che anche la natura riesce a partecipare al destino
degli ebrei, e persino “le stelle si spengono dentro le nuvole come candele
consumate”. Burg percorre le campagne della sua giovinezza e i vicoli degli
shtetlach scomparsi come se stesse “sfogliando un vecchio libro ebraico”.
Con il rispetto che si deve a una saggezza perduta, ma anche con
l’impazienza di chi non ha ancora smesso d’imparare.


Giulio Busi
Il Sole 24 Ore