Cronaca dei bombardamenti di Hezbollah 08/08/2006
Autore: Angelo Pezzana
Doveva essere un giorno come gli altri, il ventiquattresimo da quando era cominciata la guerra al nord. Invece è stata una domenica maledetta. Sono partito da Gerusalemme con il primo autobus per Haifa, dove mi aspettava Doron Menchel al quale avevo chiesto di raccontarmi come si vive in una città colpita quasi ogni giorno dai  missili di Hezbollah. Sua figlia Danielle aveva 22 anni nel 2002 quando venne uccisa nella strage del ristorante Maza, ma per Doron è come se fosse ancora viva. Ho tre figli, mi dice, Danielle che avrebbe ventisei anni, Assaf di 19, adesso è sotto le armi in marina, e Roni, di 12, che invece di essere in vacanza da qualche parte, si chiede quando torneremo a vivere normalmente. Haifa è un obiettivo importante per Hezbollah. Nella zona del porto ci sono i depositi petroliferi del paese e accanto la Silicon Valley israeliana. La Intel americana ha qui il suo più importante centro di ricerca mondiale. A pochi metri il nuovissimo grattacielo della Compagnia elettrica nazionale, dove lavorano ogni giorno duemila persone. Adesso è vuoto, è un bersaglio troppo in vista per rischiare anche noi un 11 settembre. Il primo luogo che Doron mi fa vedere è il cimitero dove è sepolta Danielle. C'è una sezione appena entrati con le tombe dei morti in attentati. Per noi famigliari è stata una cosa molto importante per superare e comprendere il dolore che ci aveva colpito. Si è creato un gruppo di auto-aiuto, l'abbiamo chiamato " le 5 madri di Maza ", dal nome del ristorante, ci incontriamo, condividiamo la sofferenza. A noi si sono aggiunti alcuni genitori di caduti in guerra, è come avere allargato la nostra famiglia. Giriamo per Haifa dove in genere la domenica mattina (un giorno lavorativo in Israele, dove si festeggia il sabato) il traffico è molto intenso, ma nelle strade si circola velocemente, i parcheggi sono semivuoti, come i bar. Doron mi spiega che almeno la metà della popolazione è andata a vivere da amici o famigliari al centro del paese, e che la gente che è rimasta preferisce stare in casa per essere più vicina al rifugio nel caso suoni la sirena.  Lascio Haifa dalla stazione degli autobus di Lev Hamifraz,  cuore della baia in ebraico, per prendere il bus n° 500 per Kiriat Schmonà, non penso alle Katiushot (in Israele si chiamao così, al plurale)  ma di lì a poco mi colpisce il suono ripetuto due volte della sirena che avvisa che un missile è in arrivo. Non mi ero chiesto prima come mi sarei comportato nel caso fosse successo a me, ma la reazione ordinata della gente che si è messa in fila per entrare nell'hangar mi ha fatto sentire tranquillo,  ho persino pensato che per gli israeliani è ormai purtroppo un'abitudine. Mi avvio anch'io verso il rifugio, una costruzione bassa rettangolare in ferro colorata di azzurro e grigio ma poi decido di non entrarci, seguendo l'esempio dei soldati che hanno continuato, chiacchierando e telefonando, ad attendere l'autobus che li avrebbe portati fra qualche ora alla loro base al confine col Libano. Kiriat Schmonà è a 85 km da Haifa, sull'autobus ci sono praticamente solo soldati, l'atmosfera è preoccupata ma anche eccitata, quando a metà strada arriva la notizia della strage di un gruppo riservisti dell'artigleria a Kfar Giladi, un kibbutz vicinissimo a Kiriat Schmonà. Un solo razzo Katiusha li ha colpiti in pieno uccidendone dodici. Erano appena arrivati con le loro macchine, e pur avendo sentito la sirena forse non avrebbero nemmeno avuto il tempo riparare in un rifugio. Intanto incomincio a sentire sempre più vicino il rumore delle esplosioni, e mi chiedo cosa mi aspetta a Kiriat Schmonà dove arriverò fra qualche istante. Trovo una cittadina di montagna che ricordavo accogliente e colorata un po' come certi paesi svizzeri, case in legno, viali alberati, deserta, una città fantasma come l'hanno descritta i giornali. Per le strade non c'è quasi nessuno, la gente se n'è andata, i pochi rimasti vivono praticamente nei rifugi. Ne parlo con Yaniv, fa l'autista alla compagnia Egged degli autobus, che si mette a parlare volentieri. Ho quarant'anni, mi dice, e vivo a Neot Mordechai, un kibbutz qui vicino, ma ho portato la mia famiglia vicino a Tel Aviv dai parenti di mia moglie, qui non erano più al sicuro. Lui non ha lasciato la casa, e, come tutti i suoi colleghi alla stazione degli autobus, ha un'aria tranquilla. Sì, le sirene suonano in continuazione, ma se dovesse arrivare un Katiusha proprio qui, abbiamo il rifugio nel sotterraneo, non sono preoccupato più di tanto. La mia famiglia è qui da cinque generazioni, tutti hanno combattuto in guerra, anch'io, e da riservista so che posso essere richiamato da un momento all'altro. Vorrei andare al kibbutz Sasa, a una trentina di km,  ma non c'è più nessun collegamento e la notte sta per scendere.Rientro a Gerusalemme, in autobus la radio trasmette le ultime notizie di questa domenica, sono caduti 150 Katiusciot nella zona di Kiriat Schmonà con 12 soldati uccisi.  Haifa, mentre sono sulla strada del ritorno, viene colpita da una ventina di razzi, tre morti e più di quaranta feriti.