Nati in Italia, combattono Hezbollah nell'esercito israeliano 06/08/2006
Autore: Angelo Pezzana
Ci sono dei giovani italiani che hanno indossato la divisa militare e sono partiti per la guerra. Non verso  l’Afganisthan o  l’Iraq, nessuna missione di pace, qui si tratta di guerra vera, di imbracciare un fucile, sparare e, se si deve, anche uccidere per difendere il proprio paese. Contro di loro non possono intervenire nè imprecare i verdi-rossi-pacifisti di casa nostra. Questi giovani sono sì italiani, ma oggi sono anche figli d’Israele, il paese nel quale hanno scelto di costruire la loro vita futura e per il quale sono pronti ad affrontare ogni sacrificio. Se fossero rimasti in Italia, una società dove la realtà del fondamentalismo islamico è ancora largamente ignorata, sarebbero in vacanza come tutti. Ma in Israele, sotto attacco dei missili di Hezbollah, la milizia armata e finanziata da Siria e Iran,  non è tempo di vacanza.  Michel Nizza, 18 anni e mezzo, ha fatto il liceo a Milano e due anni fa è emigrato in terra d’Israele, ha fatto l’alià, la salita, come si dice in ebraico per chi diventa israeliano. Ha preso qui la maturità e poi si è arruolato, prima di fare l’università, che si frequenta solo dopo la Zavà, il servizio militare che dura quasi tre anni. Michel si è arruolato a fine 2005. Non volevo essere un combattente, ci dice, pensavo ad un compito dietro le linee, mi sarebbe piaciuto entrare in qualche servizio segreto, ma la mia valutazione psicologica mi ha definito combattente, adesso sono in Charuv, una unità di fanteria di preparazione. Se fossi rimasto a Milano mi sarei iscritto a ingegneria, agli inizi mi chiedevo ma che ci faccio qui, lontano dai miei amici, ma dopo l’attacco di Hezbollah so che sto facendo quello che devo fare. Sento un po’ la  mancanza della mia famiglia che vive a Gerusalemme, ma sto imparando che questa esperienza di soldato non solo non mi toglie nulla ma  mi ha insegnato i valori che stanno guidando la mia vita. Adesso sono ancora per qualche giorno al confine con la Giordania, poi andrò a Nablus, una delle zone più calde del terrorismo palestinese. Jeremy Vitale è invece in Miluim,  un riservista che ha ricevuto la Tzav 8, la chiamata d’urgenza. Essendo un riservista – ogni israeliano fino ai 50 anni di età rientra per un mese ogni anno a fare il militare – quest’anno vive un’esperienza diversa dalle altre. Ha già trent’anni, anche lui di origine milanese, è venuto in Israele nel 93, lavora nei servizi informatici e tre anni fa si è sposato con Malka, una ragazza anche lei di origine italiana. Nel ’97, quando le forze di difesa israeliane erano ancora nel sud del  Libano, Jeremy era arruolato in una forza di salvataggio. Ricorda ancora con emozione quando dopo uno scontro a fuoco con Hezbollah era corso a recuperare i compagni feriti. Mi ritrovai in mano un fucile coperto di sangue, ci dice, senza sapere se chi l’aveva usato era ancora in vita. Solo più tardi seppi che se l’era cavata. In quel momento ho avuto paura. Ma portare questa divisa mi ha aiutato ad affrontare i problemi seri della vita, la responsabilità verso il prossimo, il rapporto di amicizia con il tuo compagno di battaglione, vivi con altri ragazzi israeliani  e ho imparato a sentirmi uguale a loro. Se succederà qualcosa con la Siria, andremo al confine. Mi sento orgoglioso perchè difendo il mio paese.
Anche Alon Nissim, 29 anni, è un richiamato Miluim come Jeremy. E’ arrivato dieci anni fa da Roma, studia biologia all’università e abita a Gerusalemme. Entrare nell’esercito, ci dice, mi ha fatto sentire maturo, era il momento che aspettavo da tanti anni, volevo difendere la mia patria. Quando sono arrivato pensavo che non ci sarebbero più state guerre, ma oggi è indispensabile sconfiggere il terrorismo di Hezbollah nel sud del Libano, nel 2000 siamo venuti via, ed era cosa giusta da fare, ma loro capiscono solo la forza e non la giustizia,e hanno giudicato la nostra uscita come un gesto di debolezza. Adesso non deve più succedere. Certo, è una  guerra, e questo fa paura, ma in fondo Israele una vera pace non l’ha mai vissuta, per noi è una questione di sopravvivenza. Mi emoziona l’affetto della gente, ci fermano per strada, ci regalano dei dolci, ci fanno capire che sono vicini al nostro cuore. Ruben Cesana ha invece “solo” 21 anni, romano, è religioso, prima dell’ esercito ha frequentato un anno di Yeshivà,l’accademia talmudica. Tra quattro mesi, ci dice, sarò ufficiale, poi la mia ferma sarà di cinque anni perchè voglio diventare comandante. Ho iniziato il corso al confine col Libano nel battaglione paracadutisti n°202, quello della battaglia di Rajar nell’ottobre scorso, dove, prima di rapire i nostri compagni, quatto Hezbollah sono morti. Oggi sono sergente e ho la responsabilità di quattordici soldati, questo mi rende orgoglioso e vorrei dire anche felice. So che i miei amici in Italia fanno una vita migliore della mia, ma questa è la mia scelta. Avevo ricevuto una borsa di studio da una università americana ma ho deciso che non potevo lasciare il mio paese. Non sono un guerrafondaio, tutt’altro, ma avevo degli amici fra i caduti di questi giorni e la sofferenza è molto forte. In Italia non vi rendete conto di quello che succederà, questa è una guerra contro il terrorismo internazionale e Israele è l’avamposto dell’Occidente. Quando torno in Italia provo un po’ di nostalgia, amo l’Italia, ho seguito i campionati mondiali e sul balcone di casa ho messo la bandiera tricolore. Ma questa è una guerra per difendere le nostre città, Israele è un popolo unito, oggi destra o sinistra hanno poco significato.
Michel,Jeremy,Alon,Ruben, sono le ultime generazioni degli israeliani di orgine italiana, sin dalle prime emigrazioni degli anni ’20. Vogliono la pace, combattono per conquistarla.

da Libero del 6 agosto 2006