Jacob Wassermann - Il mio cammino di tedesco e di ebreo e altri saggi 29706/2006
Autore: Giorgia Greco
Il mio cammino di tedesco e di ebreo e altri saggi – Jacob Wassermann
Casa Editrice: La Giuntina


La recente visita di papa Benedetto XVI ad Auschwitz ha suscitato diverse
reazioni. Alcune di ordine storico, altre più legate al suo ruolo
“politico” (nel senso ampio che il termine contiene originariamente). Il
suo lungo discorso sopra quel terreno di morte ha portato con sé una scia
di commenti.
Molti hanno trovato discutibile, se non tout court criticabile, la sua
interpretazione del nazismo come una tirannia politica e morale da parte di
una esigua minoranza sopra una maggioranza di tedeschi. Non complici né
indifferenti spettatori, dunque, bensì vittime senza volto. Quasi come i
numeri dello sterminio, perché come si fa a immaginare sei milioni di facce
sparite nelle camere a gas, nelle fucilazioni di massa, nell’inferno dei
ghetti?
Al di là di questo arduo giudizio storico di Papa Ratzinger, un altro
aspetto del suo discorso è passato più in sordina,ma risulta di un grande
interesse sul piano etico e teologico. Fa di più, disturba profondamente
gli animi in una paradossale sintonia fra due fedi – quella ebraica e
quella cristiana – che nel dolore e più che mai nel dolore di Auschwitz
sono lontane.
Il tema del silenzio di Dio, laggiù, Un silenzio che l’ebraismo ha gridato,
in Auschwitz  e dopo di allora, per sempre. Il bimbo impiccato alla fune
grida il tacersi di Dio ad Auschwitz secondo Elie Wiesel. Hans Jonas ci
impone di ripensarlo. Dio, dopo di Auschwitz: qualcosa di Lui si dev’essere
perduto, laggiù.
Per riflettere su queste tormentose questioni, la Giuntina manda in
libreria in questi tempi un testo di grande interesse. Si tratta de “Il
cammino di tedesco e di ebreo” di Jakob Wasserman, per la cura di Lorella
Bosco.
Questo autore nato nel 1873 morì in tempo per non vedere Auschwitz, nel
1934. In vita fu considerato uno scrittore di “rango internazionale”: il
suo romanzo più famoso resta Caspar Hauser, uscito nel 1908.
Autore forse poco raffinato, non privo di una certa vena Kitsch, viene però
considerato da Jean Amery un romanziere di vaglio. Questo giudizio è
condiviso da Marcel Reich Ranicki, che nel 2005 ha riproposto per la
prestigiosa Suhrkample pagine che ora vedono la luce in traduzione
italiana.
Scritto nel 1921, il saggio che dà il titolo a questa raccolta è una specie
di autobiografia. Siamo durante la Repubblica di Weimar, in quella che
venne considerata la stagione d’oro delle relazioni fra ebrei e tedeschi.
All’apice, insomma, di una simbiosi illusoria. Presto tradita. Queste
pagine, nella loro pacatezza, sono il chiaro presagio di un tradimento che
non tarderà.
Wasserman parte con la volontà di “dare conto a me stesso della parte più
problematica della mia vita, quella che riguarda il mio ebraismo e la mia
esistenza di ebreo, non di ebreo in generale, ma di ebreo tedesco”: una
condizione di “disarmonia” che trova i suoi confini nel lungo colloquio con
un presunto “amico” e con tutte le sue riserve nei confronti degli ebrei,
anche se emancipati e “civili” come quello che ha di fronte.
La conclusione di questo amico è che gli ebrei, per quanto integrati, sono
fatti di una “sostanza morale” diversa. Le parole di Wasserman danno voce
alla sofferta consapevolezza di questo ripudio. A una folla di brutti
presagi: “Ero stato convinto in tutta buona fede non solo di appartenere
alla vita tedesca, all’umanità tedesca, ma di esservi nato. Respiro nella
lingua….è il materiale da cui ho tratto, se non la forza, l’impulso
immediato alla costruzione di un mondo spirituale”.

Elena Loewenthal
La Stampa