L'Iraq non è il Vietnam Un articolo di Leonardo Tirabassi 19/06/2006
Autore:

E così ci siamo. La coalizione di sinistra centro che governa il paese vuole ritirarsi dall’Iraq dando un segnale forte di discontinuità dal governo Berlusconi. A pochi giorni dalla splendida azione che ha permesso la neutralizzazione del terrorista Al Zarqawi, Prodi vuol ritirare le truppe italiane da una guerra giudicata “sbagliata” non si capisce su quale criterio, se morale o militare. Il risultato, l’effetto politico, comunque è lo stesso: “via dall’Iraq, via dall’alleanza con gli Stati Uniti, lasciamo il governo irakeno a combattere il terrorismo, l’Iraq non è affare nostro”. La decisione ha dell’incredibile specialmente dopo, finalmente, i successi militari degli alleati. E allora perché?

Uno degli argomenti più abusati dalla propaganda massimalista è che l’Iraq è il nuovo Vietnam. Pietro Sansonetti, assieme a Chomsky, afferma da anni (ad esempio su Liberazione dell’ 11 novembre 2004 a proposito della battaglia di Fallujia), fin dall’inizio della guerra, che i soldati americani si stanno impantanando in un conflitto senza speranza come avevano già fatto in Estremo Oriente. “Gli americani dicono che Falluja è la battaglia decisiva, che se prendono Falluja poi vincono la guerra. Non è vero, lo sanno benissimo che non è vero. Nelle guerre di guerriglia nessuna battaglia è decisiva: quando ti sembra di avere conquistato una postazione te la portano via. Se lo ricorda McNamara, il mitico segretario di Stato di Kennedy e di Johnson, si ricorda l'offensiva del Tet, nel '68, e le controffensive dei marines che sembravano tutte vittoriose, portavano alla conquista di città, villaggi, posizioni militari. Ma dopo ventiquattro ore, chissà da dove, spuntavano altri vietcong e riprendevano la città, poi sparivano di nuovo, poi tornavano in armi e annientavano una guarnigione. E' così: Vietnam”.

La conclusione è ovvia: l’imperialismo americano non solo è arrogante ma anche stupido.

L’equazione sembra perfetta. Ma c’è un primo, piccolo “ma”. Che cosa c’è di simile tra i due conflitti? Il dato che da una parte ci sono dei soldati USA e dall’altra dei rivoluzionari, ribelli, insorgenti (chiamiamoli come ci pare, non è un problema semantico)? Mi sembra sinceramente un po’ poco, vediamo le differenze, provando a fare, per così dire, un’analisi fenomenologia, partendo dall’analisi degli elementi più esterni, strutturali per poi arrivare al centro della questione strategica.

Il primissimo dato, quasi inutile da citare, è che se esistono due paesi diversi per geografia, questi soni il deserto dell’Iraq e la giungla del Vietnam! Con tutto quello che ne consegue nel campo delle strategie, tattiche ecc.

Il secondo dato, difficile da negare, è che la guerra del Vietnam si svolgeva durante la guerra fredda e che il Vietnam del Nord aveva dietro di sé come alleati due potenze, la Cina e l’Unione Sovietica, che lo sostenevano in modo massiccio e continuo.

Il terzo elemento, uno dei più importanti, è che i combattenti vietnamiti si rifacevano a due ideologie che godevano dell’appoggio internazionale come l’anti colonialismo e il comunismo e dove non arrivava l’uno, c’era l’altro. Questo consenso era così forte e popolare da erodere il patriottismo del “nemico americano”, degli alleati europei, dei paesi in via di sviluppo, i così detti “non allineati”. E’ così per l’Iraq? Al Zarqawi è il nuovo Giap? Al Qaida come i Vietcong? Gli ayatollah hanno lo stesso richiamo dei monaci buddisti? Ci sono cortei di centinaia di migliaia di persone che da New York a Roma a Berlino a Parigi urlano “Viva Osama Bin Laden?”. Il wahabatismo e la rivoluzione khomenista modelli politico-culturali da esportazione, capaci di dettare mode, di fare tendenza nei salotti radicali?

Quarto elemento di totale differenza. Il Vietnam del Sud, da sempre ma sicuramente dal presidente Ngo Dinh Diem, fatto eliminare da Kennedy nel 1963 perché completamente inaffidabile, corrotto e impopolare, fu retto da regimi talmente privi di consenso da cadere nell’ illegittimità. E anche questo non è il caso dell’Iraq. Quando gli americani deposero Saddam, furono accolti come liberatori dalla maggioranza della popolazione, sicuramente dalle comunità sciite e kurde. In seguito, con le elezioni del 30 gennaio 2005, anche se boicottate dalla comunità sunnita –fattore di non poco conto -, non si può dire certo che i vertici siano illegittimi. Oggi con la formazione del nuovo governo, anche i sunniti sono entrati a pieno titolo nella direzione del paese.

Quinto punto. Dietro i gli irregolari vietnamiti del sud, i vietcong, c’era un esercito vero e proprio di un altro paese, il Vietnam del Nord che combatteva secondo i canoni classici, che addestrava e riforniva i guerriglieri del sud. Sia l’offensiva del Tet del 1968 – che al contrario di quanto afferma Sansonetti, fu una vittoria americana - che l’ultima grande battaglia che portò alla disfatta del demotivato esercito vietnamita del sud furono combattute principalmente dalle truppe del nord. Per tutta la durata della guerra, gli americani non seppero chi dovevano combattere, chi era il nemico principale: se i vietcong o i soldati di Giap. Indecisione che si risolse tragicamente: mai fu presa in considerazione seriamente l’ipotesi di attaccare il Vietnam del Nord.

E oggi, chi c’è dietro i ribelli irakeni, dove sono i mig siriani o iraniani, dove i carri armati, dove il sentiero di Ho chi minh?

Altra considerazione. Mentre i vietnamiti, tutti, venivano da anni di guerre vittoriose, i soldati iracheni arrivano da sconfitte cocenti, da due guerre perse in poche settimane.

Tutti questi fattori fanno sì che a combattere in Iraq contro i soldati americani siano alcune migliaia di guerriglieri, senza precisi skill militari, che utilizzano tecniche di guerra più vicine al terrorismo che alla guerriglia con uno lo scopo ben preciso, unica loro speranza, di scatenare la guerra civile tra sciiti e sunniti, e questo spiega il numero altissimo di vittime civili irakene, ben superiore a quello dei soldati americani. Non è forse un caso che le uniche battaglie combattute in campo aperto, come a Fallujia, si siano risolte in una totale sconfitta per i terroristi irakeni. La ricerca inoltre della guerra civile condotta da Al Zarqawi non attira certo dalla propria parte il consenso popolare, come mostrano gli esempi dell’ Irlanda e dei paesi Baschi.

Quello che si può dire, è che in Iraq non c’è una guerriglia ma un terrorismo feroce ad opera di qualche migliaio di insorgenti che prova a far saltare l’equilibrio tra etnie, a scatenare la guerra civile, grazie anche alle vigliaccate zapateriste del governo Prodi. Quello che rimane della coalizione dei volenterosi può certo perdere questo scontro, perché una guerra si può sempre perdere, ma di certo l’Iraq non è il Vietnam.

Ma se l’Iraq non è il Vietnam e oggi non è in corso nessuna guerra di liberazione, perché ritirarsi, perché abbandonare il martoriato popolo irakeno, perché isolare gli Stati Uniti? Dove è oggi una strategia alternativa?

Leonardo Tirabassi