Si scrive Abu Mazen, ma si legge ancora Arafat 28/05/2006
Autore: Angelo Pezzana

Sui nostri giornaloni non è azzardato dire che sul discorso del premier israeliano Ehud Olmert davanti al Congresso americano è calato il silenzio. Eppure alla stesura di quello che è stato definito uno degli interventi più alti degli ultimi anni aveva partecipato anche  Elie Wiesel.,ma il suo nome non è stato sufficiente. Titoli e colonne si sono sprecati invece su quello che è stato definito “ l’ultimatum di Abu Mazen ad Hamas”. Abbiamo cercato fra le righe il perché di tanti applausi al presidente palestinese, stupiti  ma anche contenti, finalmente  Abu Mazen, abbiamo pensato, ha trovato il coraggio di cantarle chiare e forti ad Hamas. O riconosci Israele, così riportavano i giornali, o faccio un referendum e raggiungo ugualmente l’obiettivo di ricondurti alla ragione. E bravo Abu Mazen, ci siamo detti. Ma i titoli non sono mai stati così ingannevoli. Altro che referendum per tagliare le unghie ad Hamas ! Ecco cosa intende chiedere Abu Mazen nel suo eventuale referendum.

1)      Che Israele, nella prossima definizione dei suoi confini con i territori palestinesi, ritorni a quelli del 1967

2)      Che la capitale del futuro stato palestinese sia Gerusalemme Est

3)      Che venga concordato un piano per il ritorno dei profughi

Come dire una parte integrale del  programma grazie al quale Hamas è andato al potere. Anzi, Hamas mette sul piatto persino di più, quella ipocrita proposta di una tregua decennale, la famosa Hudna, grazie alla quale ogni decisione verrebbe congelata, guadagnandosi Hamas tutto il tempo che vuole per darsi i mezzi adeguati per una prossima guerra contro lo stato ebraico. Che Hamas considera definitiva, cioè con la distruzioni di Israele, grazie all’aiuto dell’Iran e dei vari gruppi terroristi che operano in tutto il mondo e che hanno in comune l’odio contro l’Occidente, Usa e Israele in testa. D’altronde l’Islam ha sempre considerato la Hudna come un mezzo per arrivare alla sconfitta del nemico nel momento più conveniente.  Queste non sono novità, l’ha dichiarato lo stesso Ismail Haniyeh nell’intervista concessa ad Haaretz martedì scorso, nella quale ha avuto la faccia tosta di ripetere le stesse bugie nella convinzione che in fondo le democrazie occidentali – e Israele è fra queste –  apprezzino i dittatori quando, pur di raggiungere i loro fine, non esitano a sparale grosse. Infatti, da quando Hamas ha stravinto le elezioni palestinesi, l’opinione pubblica internazionale è stata di fatto consolata dalla beghe e faide interne tra Fatah e Hamas, come se il contendersi i finanziamenti internazionali, che non attendono altro che il segnale di via libera per tornare a pioggia, e il controllo delle varie milizie armate fossero quasi delle specie di garanzie che nel mondo palestinese qualcosa si sta muovendo e nella direzione giusta. Certo, Hamas non può scrollarsi dalle spalle, come se fosse forfora fastidiosa, il certificato di movimento terrorista, quindi la sua strada è un po’ più in salita di quella di Abu Mazen. Che ripercorre invece, furbamente, il percorso del suo predecessore Arafat. Da un lato si richiama alla Road Map, ma non la mette in pratica, incontra il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni la settimana scorsa a Sharm El-Sheikh e mostra la parte dialogante del suo volto, dando l’impressione di essere il partner per ogni possibile soluzione concordata. Ma quando rientra a Ramallah, e rivela in concreto qual è il contenuto del referendum che dovrebbe far paura ad Hamas, torna ad essere la fotocopia di Arafat. Il risultato è che Israele non ha alternative, ancora una volta dal mondo arabo-palestinese non verrà alcuna proposta seria che permetta alle parti una vera via d’uscita. Dovrà fare da sé. E anche questa non è una novità.