La regione ebraica in Russia. Birobidzhan.
La Prima Israele Alessandro Vitale
Giampiero Casagrande Editore, Lugano-Milano 2005
Una terra promessa ma nel punto sbagliato della carta geografica. Anziché
il paesaggio assolato del Vicino oriente, i lunghi inverni dell’estrema
Asia sovietica, e uno spazio da condividere non con gli arabi ma con tribù
siberiane e con sospettosi cosacchi.
La regione del Birobidzhan si estende per centinaia di chilometri lungo il
corso dell’Amur, al confine con la Manciuria: pochi sanno che proprio qui
Stalin volle costruire, negli anni venti, una “Sion Rossa”, un’alternativa
comunista all’utopia borghese del ritorno degli ebrei in Palestina.
Quando il progetto prese l’avvio, nel 1928, il problema ebraico tormentava
il partito comunista. Sebbene gli ebrei avessero aderito in buon numero
alla rivoluzione, il gruppo rappresentava nell’insieme una minoranza
tenace, formata per lo più da piccoli commercianti. Già nei primi anni del
potere socialista, si era cercato di sottrarli al settore “parassitario”
del commercio per trasformarli in produttori. Bisognava innanzitutto
spostarli dalle città verso le campagne, affinché divenissero agricoltori e
perdessero quelle loro pericolose caratteristiche d’instabile ceto urbano.
I primi tentativi d’insediamento in Crimea diedero risultati modesti,
soprattutto perché rinfocolarono l’antisemitismo latente tra le popolazioni
della regione. Fu così che le terre inospitali verso la frontiera con la
Cina parvero la soluzione migliore. A lungo termine, questo pezzo d’Asia
sarebbe dovuto diventare un’unità nazionale ebraica, espressione di una
nuova forma di giudaismo socialista e ateo, con l’yiddish come lingua
ufficiale.
In questo modo Stalin avrebbe raggiunto il doppio scopo di “presidiare” con
gli ebrei un confine strategico contro l’espansionismo cinese e giapponese,
e di mostrare, a tutto il mondo, che l’Unione Sovietica era in grado di
risolvere la millenaria questione ebraica. Grazie all’autonomia
amministrativa e ad alcune facilitazioni economiche, tra la fine degli anni
Venti e la metà degli anni Trenta, migliaia di ebrei si trasferirono
volontariamente nel Birobidzhan.
Tuttavia, tra il 1936 e il 1938, la prima ondata di purghe staliniane
decapitò la dirigenza giudaica del Birobidzhan e causò il brusco declino
del progetto. Speranze di ripresa si riaccesero tra il 1946 e il 1948, dopo
gli orrori della Shoah, ma fu una fiammata breve, spenta dalle nuove
persecuzioni antigiudaiche che culminarono nella cosiddetta “congiura dei
medici” del 1952-1953.
Alessandro Vitale, che ripercorre in un saggio le vicende di questa
sperduta regione autonoma ebraica, è certo troppo ottimista nel
considerarla come un’alternativa fallita, ma pur possibile, allo Stato
d’Israele. Né sembra corretto definire l’antisemitismo di Stalin
“pragmatico piuttosto che ideologico”. Alla fine della sua vita, Stalin si
rivelò lugubre persecutore degli ebrei in quanto tali: se non invocò
apertamente una dottrina razzista, mescolò tuttavia antichi pregiudizi
antigiudaici a un “anticosmopolitismo” e a un antisionismo fortemente
ideologizzati.
Dopo la caduta del comunismo, la maggior parte degli ebrei del Birobidzhan
è emigrata in Israele, così che oggi, dell’ambizioso sionismo staliniano,
non restano che pochi relitti.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore