Si torna a demonizzare Sharon
sul primo quotidiano italiano
Testata: Corriere della Sera
Data: 09/01/2006
Pagina: 5
Autore: Marco Immariso - la redazione
Titolo: Se è lui l'uomo della pace, speriamo che si salvi - Dovevo ucciderlo, mi sfuggì per un soffio

" L'ordine di Sharon fu di entrare nel villaggio e fare più vittime possibile" lo ha scritto lo storico israeliano di estrema sinistra Avi Shlaim nel libro "Il muro di ferro". Un'affermazione priva di riscontri storici:  Sharon e  i suoi soldati pensavano che le case fossero state abbandonate dagli abitanti e l'azione era diretta contro i terroristi che dalla Cisgiordania colpivano sistematicamente Israele. La circostanza è ignorata da Marco Imarisio che, nel suo articolo "Se è l'uomo della pace, speriamo che si salvi" nel quale raccoglie le opinioni degli attuali abitanti di Qibya, si basa esclusivamente sul resoconto di Shlaim. Cita piuttosto, a "giustificazione" di Sharon queste parole storicamente del tutto false che gettano la colpa dell'intenzione omicida sullo stato di Israele in quanto tale: "faceva  quello che Israele chiedeva a un suo guerriero: ammazzarci tutti".

Di seguito, riportiamo l'articolo:

   QIBYA (Cisgiordania) — Tra i ruderi delle case ci sono carcasse di auto, rifiuti, vecchi mobili abbandonati. Il luogo del massacro è diventato una discarica.
Le pietre squadrate di tufo bianco lasciano ancora intuire il perimetro delle abitazioni che 52 anni fa vennero distrutte dalle cariche di dinamite, con dentro gli inquilini. Prima far esplodere tutto, i commandos dell'Unità 101 guidata da un ufficiale che poi sarebbe diventato famoso avevano impedito alla gente di uscire, scaricando raffiche di mitra sulle porte.
Appena sopra questi resti, in cima al villaggio, c'è la nuova moschea di Qibya. Davanti all'ingresso c'è un leggio di pietra con la base in marmo rosa. Sopra c'è incisa a caratteri scuri una frase del Corano: «Gli innocenti che sono stati uccisi per difendere la loro religione e le loro case sono ancora vivi, sono diventati martiri». E poi: «In ricordo delle 76 persone uccise qui il 14 ottobre 1953».
Da Il muro di ferro dello storico Avi Shlaim: «L'Unità 101, creata per le missioni speciali, era comandata da un giovane maggiore, aggressivo e ambizioso, che si chiamava Ariel "Arik" Sharon. L'ordine di Sharon fu di entrare nel villaggio, distruggere le case e fare più vittime possibile tra gli abitanti. Il successo ottenuto da quell'ordine superò ogni aspettativa». Quarantacinque edifici vennero distrutti, la maggior parte dei 76 civili uccisi erano donne e bambini. L'azione fu la rappresaglia per l'uccisione di una donna israeliana e dei suoi due figli da parte di terroristi che avevano varcato il confine passando da Qibya, allora territorio giordano.
«E' accaduto, e non si può tornare indietro». Sul volto pieno di rughe di Arifi Mahmud Othman appare un sorriso stanco. Ogni tanto interrompe i suoi ricordi per gonfiare un palloncino all'ultimo arrivato dei suoi 50 nipoti. E' una nonna di 73 anni, vestita con una tunica blu decorata con strisce di stoffa color arcobaleno.
«Sharon era un guerriero, lo è sempre stato. In quegli anni faceva quello che Israele chiedeva a un suo guerriero: ammazzarci tutti». Quella sera Arifi stava rientrando al villaggio con sua madre. Quando sentì le prime esplosioni, si nascose. Tornò dopo due giorni e cominciò a scavare tra le macerie di casa sua. Ne estrasse i corpi senza vita di suo padre, di 5 fratelli e 4 sorelle.
Qibya fu la prima delle tante macchie nel passato di Sharon, uno dei tanti villaggi sui quali s'abbatté la sua mano pesantissima. «La Sabra e Chatila della Cisgiordania», dice Abdellah, il figlio di Arifi che da settembre è diventato sindaco del paese. I sentimenti di Arifi verso Sharon sono contrastanti. Seduta nella stessa casa di quella notte, ricostruita dopo l'eccidio, spiega: «Ho vissuto odiandolo, ma spero che non muoia. Se c'è una sola possibilità che quell'uomo porti la pace, che sopravviva allora. Io ogni notte mi addormento pregando che i miei nipoti non debbano soffrire come abbiamo fatto noi. E se lui è l'uomo che può fare questo, non gli auguro la morte».
Qibya non deve essere cambiata molto da allora. E' un posto di 5.200 abitanti, a due chilometri dal confine israeliano, dove la povertà si respira a ogni angolo. Le strade sono sconnesse e piene di buche, le abitazioni fatiscenti, quasi tutte con le facciate di nuda pietra, teli di nylon al posto dei vetri alle finestre. Il villaggio è imbevuto del suo passato, di quella strage tramandata come una leggenda feroce. Alle ultime elezioni municipali Hamas si è aggiudicata otto seggi su undici. L'insegnante Abdellah è diventato sindaco grazie a un programma che al primo punto prevede un ricorso alla Corte Internazionale di Giustizia per ottenere un risarcimento per le famiglie delle vittime.
Abdellah apre la porta di un'altra abitazione. E' uno stanzone spoglio, il pavimento è di cemento grezzo. Al centro, su una sedia, c'è Ibrahim Mohammad Hamad, un vecchio secco come un ramo, un altro sopravvissuto. Si salvò perché nel crollo della sua casa un pilastro caduto di traverso lo riparò dagli altri detriti. «Quando andavo a lavorare in Israele, la gente mi chiedeva scusa per ciò che era accaduto. Persino i soldati che mi controllavano i documenti». Lui odia ancora: «Diceva di volerla finire con l'occupazione, ma era un trucco. Qual è la sua pace? Questa? Un villaggio dove non c'è lavoro e da cui è impossibile uscire? Ci ha ucciso ieri, ci avrebbe ucciso domani». Ibrahim vive solo, non ha più nessuno a cui pensare. I ragazzi che lo ascoltano applaudono alle sue parole. Arifi invece è rimasta a giocare con i suoi nipoti. Per farli vivere in un mondo diverso da questo dice che sarebbe disposta a tutto, persino «a pregare per l'assassino di mio padre e dei miei fratelli».

Il Corriere sceglie di presentare la figura di Sharon anche attraverso i ricordi di un militare egiziano incaricato di ucciderlo durante la guerra del Kippur.Nonostante questo "testimone" confessi un crimine di guerra ("Agami rivela che la sua rabbia fu così violenta da decidere di uccidere a pugnalate un soldato israeliano incontrato poco dopo, anziché farlo prigioniero come aveva inizialmente pensato di fare" scrive impassibile il cronista) la veridicità delle sue affermazioni non viene minimamente messa in discussione. Sharon torna così ad essere il "macellaio" di Sabra e Chatila e della "strage" di Jenin. Menzogne che non finiranno mai di essere ripetute? Ecco l'articolo:

 «Sharon vivo o morto»: era questa la missione top secret affidata dal presidente egiziano Anwar Al Sadat al suo generale Yehya Agami, nel lontano 1973. Missione platealmente fallita, racconta oggi lo stesso Agami a
Le Monde, senza nascondere la rabbia e la delusione che ancora prova. «Era il 21 ottobre 1973, sedicesimo giorno della guerra del Kippur — ricorda il generale, oggi di stanza a Sharm Al Sheikh con un incarico nella polizia —. A capo di un'unità d'élite composta da 5 ufficiali e 53 uomini ho attaccato la base sulla riva occidentale del Canale di Suez dove, secondo le nostre informazioni, si trovava Sharon... Ma con grande sorpresa prima vedemmo salire dalla base alcuni elicotteri, poi, quando entrammo, la trovammo vuota. Sharon era fuggito all'ultimo momento per una soffiata. Lui s'era salvato, la mia missione era fallita».
Agami rivela che la sua rabbia fu così violenta da decidere di uccidere a pugnalate un soldato israeliano incontrato poco dopo, anziché farlo prigioniero come aveva inizialmente pensato di fare. «E questo solo mezz'ora prima del cessate il fuoco», dice, aggiungendo che da oltre trent'anni quel fallimento lo perseguita.
«A ogni nuova catastrofe — dice —, penso che se quella notte Sharon non fosse fuggito e io l'avessi ucciso, la storia degli arabi sarebbe stata diversa. Non ci sarebbero stati l'invasione del Libano, il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila, l'Intifada, la strage di Jenin. Tutti crimini che oggi Dio gli sta facendo pagare». E «se come musulmano non gioisco della malattia o della morte di un altro essere umano — conclude Agami —, ricordo però che un detto arabo recita: "Gusterete il sapore dei vostri atti"».

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