Del fatto che il soldato, il generale e il politico ha speso la sua vita per la difesa del proprio paese ovviamente, tra tante escalamazioni, non c’è traccia. Quel tipo di personaggio, per Il Mattino, evidentemente rispondeva al nome di Yasser Arafat.
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L’AGONIA
Da generale a premier una carriera da intransigente prima di accettare la realtà
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Dalle stragi in Libano al ritiro forzato da Gaza
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La svolta incompiuta del falco che ha scoperto la pace
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VITTORIO DELL’UVA
Il destino ha fermato, alla soglia dei 78 anni, Ariel Sharon proprio quando, dopo avere costruito durante la sua vita più «muri», aveva deciso che spettasse proprio a lui, il «bulldozer», aprire il varco per una coesistenza con i palestinesi cui andavano riconosciuti gran parte dei diritti a lungo negati. Ha amato la forza fino a farne ragione di vita. In battaglia come sul terreno politico. Persino per avviare un cammino di pace, per quanto incerto nei tempi e vago sul piano territoriale, non ha rinunciato a ricorrere al colpo di mano su uno scenario che, per la sua determinazione e influenza, si era fatto in Israele frammentato e politicamente piatto. Non gli è stato consentito, all’ultimo atto, di cambiare davvero la scena finale della sua vita. Bush aveva appena intravisto in lui un «uomo di pace». Gli sarebbe piaciuto che anche il resto del mondo fosse pronto a emendargli molte colpe accumulate negli anni. L’ultimo Sharon, collocatosi a una distanza stellare dall’uomo che per decenni ha odiato a morte i palestinesi, è quello che spiega alla Knesset che i destini di un popolo non possono essere decisi «soltanto dalla spada» e che sente di dover dire che «bisogna avere pietà per i deboli». Ma è anche il leader che non si attesta sulla soglia della metamorfosi di pura natura dialettica quando si spinge ad affermare che la «pace può comportare pesanti sacrifici». L’ultimo anno di Ariel è in qualche misura rivoluzionario, per l’ordine ai coloni di abbandonare la striscia di Gaza e la contrapposizione frontale agli ambienti ebraici radicali. Con le vecchie posizioni sioniste in dissolvenza poco conta che i rabbini oltranzisti passino dal sostegno alla maledizione e che il Likud, il partito che aveva contribuito a fondare all’inizio degli anni Settanta venga ridotto a una litigiosa congrega. Sharon si inventa una nuova formazione politica, Kadima, per virare al centro occhieggiando alla sinistra moderata che si ritrova intorno a Shimon Peres, uno dei grandi vecchi di Israele. Mani vengono tese verso la nuova leadership palestinese che, riempiendo il vuoto lasciato da Yasser Arafat, si è lasciata alle spalle lo spirito «combattente» e le molte ambiguità della passata gestione per essere chiamata al braccio di ferro quotidiano con le troppe milizie e con gruppi che reclamano ruoli politici attivi dopo avere conquistato consenso con una capillare azione di sostegno sociale a quanti hanno pagato il prezzo più alto per l’occupazione israeliana. L’azione politica, che ha come obiettivo finalmente accettato la nascita di uno Stato palestinese, è di tale portata da offuscare anche gli schemi etici che dovrebbero regolare la vita politica quotidiana. Ha impatto relativo l’ultimo recentissimo scandalo che tocca Sharon che si dice sia stato beneficiario di tre milioni di dollari arrivati dai gestori austriaci del casinò di Gerico. Restano in qualche misura in secondo piano i progetti più o meno segreti tendenti a ridisegnare i territori palestinesi con qualche nuova annessione e la realizzazione di una «fascia di sicurezza» intorno a Gerusalemme Est. L’ictus ferma un leader fatalmente avviato sulla strada del nuovo trionfo previsto con le prossime elezioni anticipate di marzo. È in lui che Israele ancora si identifica nonostante le radicali inversioni di rotta e peccati non sempre veniali. Nei fatti Ariel Sharon è stato sempre un buon interprete di una ampia e scalpitante fascia del Paese, quali che siano state le parentesi governative laburiste, che hanno compresso le posizioni dei «falchi» al cui partito si era iscritto fin dagli anni della adolescenza. È «in nome e per conto della difesa di Israele» che ha fatto scelte che spesso hanno avuto il carattere della sfida se non dell’azzardo. I genitori Samuil e Vera, di origine russa, lo avevano educato al culto del sionismo. A 15 anni lo aveva arruolato l’Haganà, la formazione clandestina che si batteva contro i britannici. Da comandante della «Unità 101» fu tra i responsabili della strage del villaggio di Qibya, raso al suolo nel 1953 per una azione punitiva in cui persero la vita, sessanta palestinesi. Durante la crisi di Suez del 1956 perse la fiducia del generale Dayan per avere cercato la gloria mandando a morte i paracadutisti sotto il suo comando. Paradossalmente a un altro atto di insubordinazione si deve il suo riscatto durante la guerra del Kippur. A lui rispondevano le truppe che per prime cominciarono ad avanzare nel deserto in direzione del Cairo. La marcia diventa, da allora, militare e politica. Sharon, ormai generale, è consigliere per la sicurezza del premier laburista Ytzac Rabin, poi approda con il Likud al ministero dell’Agricoltura, caratterizzando il suo mandato con l’incremento degli insediamenti in Cisgiordania. Quando la crisi con i palestinesi insediati in Libano porta nel 1982 all’operazione «Pace in Galilea», che porta gli israeliani fino alla porte di Beirut, la «strategia della vittoria » è affidata a lui che ricopre il ruolo il ministro della Difesa. Lo fermano se manifesta il desiderio di uccidere Arafat. Chiude gli occhi quando i falangisti compiono i massacri di Sabra e Chatila di cui verrà ritenuto indirettamente responsabile. Ariel Sharon fa sentire la sua voce contraria agli accordi di Oslo, trova spazio al fianco del leader del Likud, Netanyhau, che anni più tardi diventerà suo nemico. Nel 1998 è ministro degli Esteri. Si apre il periodo delle ennesime sfide mentre Israele vive gli anni dell’intifada. Il 27 settembre del 2002 innesca la miccia della seconda insurrezione palestinese con la provocatoria passeggiata sulla spianata dell moschee. La stagione dei kamikaze che successivamente si apre immerge Israele nella paura. Sharon non troppo fatica a proporsi come l’uomo forte che sa dare le risposte che l’opinione pubblica si aspetta. L’elezione a primo ministro nel 2001, scontata e trionfale, consente di agire senza troppi lacci e lacciuoli. Arafat è costretto a una semiprigionia nella sua Ramallah. Balena l’idea del muro di separazione che verrà poi realizzato tagliando la Cisgiordania per decine di chilometri. Pochi ritengono che il bulldozer possa fermarsi proprio quando i palestinesi sono più piegati che mai. Ma forse è la condizione che Sharon aspetta per una riconversione politica dal forte impatto congeniale al suo stile. È soltanto alle condizioni che detta con scelte unilaterali, che si avvia a concedere il diritto dello Stato palestinese a esistere.
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L'editoriale di Stefano Cingolani descrive Sharon come un ex ideologo [“…ha saputo mettere in discussione anche le verità e i principi ai quali aveva sempre ispirato la propria condotta militare e politica (il sogno del Grande Israele)”] e lo definisce complice dei falangisti maroniti nella strage di Sabra e Chatila, il che implica un ruolo attivo che Sharon invece non ebbe. Anche Cingolani, quando accenna agli avvenimenti libanesi, trascura di menzionare le attività terroristiche dei palestinesi contro Israele.
Il titolo dell’articolo dedicato alle reazioni del mondo arabo annacqua l’indifferenza e la gioia di molti arabi dovute all’odio antiisraeliano e antisemita adducendo, invece, la motivazione che Sharon “è un uomo di guerra”. Vero! Sharon ha combattuto le guerre scatenate proprio dagli arabi per distruggere Israele e il suo popolo.
Il sottotitolo riporta correttamente le parole del dittatore iraniano.
L’indifferenza del mondo arabo: è un uomo di guerra
Questo è il livello bassissimo dell’informazione divulgata dal quotidiano napoletano.
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