Vuoto di leadership non di idee
l'analisi di Emanuele Ottolenghi
Testata:
Data: 06/01/2006
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: Vuoto di leadership non di idee

Sul RIFORMISTA di oggi, 6.1.2006, Emanuele Ottolenghi analizza gli aspetti del cosiddetto "vuoto di potere", che in realtà non esiste, essendo Israele una democrazia che funziona, a differenza dei regimi che la circondano.

Ecco l'articolo:

 La storia non ha aspettato Ariel leader che più di ogni altro ha fatto  e ancora potrebbe fare per cambiare degli eventi nel conflitto israelo- stato tradito dal suo corpo, in una corsa contro  il tempo dove la biologia ha beffato Ora impegnato in un’ultima battaglia la morte, sembra ormai certo che pagina di storia che Sharon ha iniziato sarà completata da altri. Nell’autunno della vita, è stata combinazione di coincidenze, tragedie e opportunità a portare Sharon - un politico ritenuto da tutti inaffidabile, pericoloso e ineleggibile fino a pochi anni fa - non solo al potere ma anche a trasformarsi, nei cinque anni trascorsi alla guida del paese da politico inviso a statista popolare. Eletto primo ministro a 73 anni il 6 febbraio 2001, Sharon sconfisse il premier uscente Ehud Barak in un clima politico caratterizzato principalmente dall’astensionismo: fronte alla scelta tra i due candidati screditato e l’altro in eleggibile - più percento degli elettori disertò l’urna. Da l’elettorato non si aspettava di cambiare storia, ma solo di impedire che Israele sconfitto nell’Intifadah scatenata palestinesi pochi mesi prima. Sharon, la cui sul Monte del Tempio a fine settembre aveva offerto la scusa per l’inizio appariva a molti come il male minore, certamente non una soluzione di lungo Assurto al potere Sharon dimostrò invece di essere ben lungi dal politico che tutti ricordavano dai tempi della guerra del Libano. Per cinque anni anzi Sharon ha condotto guerra e diplomazia guidato da due principi appresi dagli sbagli fatti in passato. Il premier infatti, in tutte le fasi del conflitto coi palestinesi, non ha mai perso di vista la necessità di mantenere intatta l’alleanza con gli americani (che nella guerra del Libano aveva invece messo in forse) e il consenso pubblico e politico a sostegno delle politiche governative. Proprio per questo Sharon ha preferito la formula del governo d’unità nazionale e ha cercato di coordinare ogni sua mossa con Washington, riuscendo a dare a tutte le sue decisioni maggior legittimità - e quindi più efficacia. Ma qualcos’altro di più profondo è accaduto al vecchio leader nei cinque anni passati al potere: Sharon ha capito che Israele non poteva più continuare a occupare i territori conquistati nel 1967 senza metterne a rischio l’esistenza come stato-nazione e democrazia e che dolorose concessioni politiche sarebbero state necessarie nel lungo periodo. Pur rifiutando la logica del processo di Oslo - da lui osteggiato negli anni novanta - Sharon ha compreso che il sogno della Grande Israele condiviso dai suoi alleati politici e ideologici era ugualmente una chimera. Ha capito che il tempo, nel contesto bellico ereditato da Barak, lavorava a sfavore d’Israele, e che attendere una nuova opportunità di pace, vista la situazione geopolitica regionale e la lenta discesa nell’anarchia della società palestinese, era futile. E ha preso atto che solo una visione politica che coniugasse una versione territoriale riveduta e corretta dell’Israele prima del 1967 ma priva del sentimentalismo ingenuo e illusorio dell’ottimismo di Oslo, secondo cui Israele e palestinesi potevano replicare il progetto europeo in Medio Oriente, avrebbe servito gli interessi del paese. In questo, Sharon ha interpretato meglio d’ogni altro il nuovo consenso creatosi in Israele negli ultimi cinque anni sotto la pressione del terrorismo palestinese. La speranza di una pace vera è svanita sotto i colpi degli attentati suicidi, ma l’illusione di una permanenza  israeliana a Gaza e Cisgiordania è stata anch’essa abbandonata dai più, anche a destra, dopo il collasso di Oslo. I confini di Sharon - quei confini che il premier avrebbe probabilmente tracciato dopo le elezioni di marzo - sono un compromesso dunque, non tra i palestinesi e gli israeliani, ma tra le due visioni della sinistra e della destra israeliane che per decenni si sono contrapposte e solo recentemente, sotto la leadership di Sharon, si sono in parte riconciliate. Il consenso da lui espresso quindi non si ferma all’uomo, con le sue qualità e le sue zone d’ombra, ma va oltre: Kadima, il partito da lui fondato per offrire al premier lo strumento politico per attuare la sua visione, esprime non solo la fiducia popolare in Sharon come statista ma anche il sostegno di un’idea e di un progetto politico che da ragione alla sinistra israeliana sulla necessità di ritirarsi da parte dei territori per il bene d’Israele e alla destra israeliana sull’inaffidabilità del partner palestinese a raggiungere un genuino e durevole accordo di pace. Sharon ha intuito non solo quale costo occorreva pagare per salvaguardare il futuro d’Israele, ma ha riconosciuto la presa di coscienza della nazione a questo riguardo Il vuoto che lascia è di leadership dunque, ma non d’idee e di visione politica, che, come eredità, trascendono il leader che le ha per primo formulate e in parte attuate. Esiste oggi un consenso in Israele, che sopravvivrà Sharon. Quel consenso si riflette nel successo della sua strategia politica recente, fondata sulla doppia filosofia del ritiro unilaterale (attuato solo a Gaza) dietro a confini politicamente, oltre che militarmente difendibili. Per questo per il suo nuovo partito Kadima non tutto è perduto. Se il suo successo nei sondaggi - mercoledì nonostante le accuse di corruzione mosse alla famiglia Sharon il partito volava oltre il 40 percento - era in parte dovuto al fatto che Sharon ispirava fiducia come l’uomo più capace a difendere gl’interessi del paese, Kadima può ancora godere di ampio sostegno popolare perché esprime quel consenso che Sharon ha interpretato meglio di ogni altro ma che da lui prescinde. Offrire una nuova leadership in grado di continuare nel solco tracciato da Sharon è la sfida che successori del premier dovranno affrontare. E’ troppo presto per far qualsiasi pronostico naturalmente. Nessuno, anche se Kadima non si sciogliesse come neve al sole, travolta da lotte intestine per la successione, potrà facilmente riempire il vuoto lasciato da Sharon. E passato il momento di crisi e la concomitante atmosfera d’unità nazionale, sia laburisti che Likud cercheranno di sfruttare la situazione per riappropriarsi del maltolto, invitando l’elettorato a ritornare ai vecchi partiti e offrendo un ramoscello d’ulivo ai transfughi di Kadima per indurli a tornare. Kadima potrebbe dunque nascer morto come partito e tutto tornerebbe come prima. Ma anche questo scenario non farebbe altro che ritardare un processo che, una volta attraversato il Rubicone del ritiro da Gaza l’estate scorsa, difficilmente può oraessere arrestato.

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