Per raccontare bisogna conoscere i fatti
Marco Imarisio sembra non conoscerli
Testata: Corriere della Sera
Data:
Pagina: 6
Autore: Marco Imarisio
Titolo: I ragazzi davanti ai telegiornali arabi "vergogna,la diretta per un crominale"

Per fare buon giornalismo non basta scrivere bene, avere il gusto di andare acercare la notizia. Occorre anche sapere la storia e conoscere i fatti che vengono raccontati. Se sono dei falsi, non conoscerli significa prenderli per buoni. Come fa Marco Imarisio quando gli raccontano  del" bambino ucciso da un proiettile israeliano". La verità è un'altra. Quella storia fu occasioni di indagine accurate, che arrivarono ad escludere che il bambino possa essere stato colpiti dai soldati israeliani stante la sua posizione in mezzo al fuoco incrociato. Molto più probabile che sia stato colpito dal fuoco palestinese mentre ra chino accanto al padre. Anche il nome riportato non è preciso. Si dice che una bugia a furia di essere riportata diventa una verità. Niente di più esatto.

E' quel che capita d'altronde anche ad un esperto come R.A.Segre che sul GIORNALE di oggi inizia il suo pezzo su Sharon, definendolo come l'uomo che con la sua passeggiata sulla spianata delle moschee ha dato inizio alla seconda intifada.

Ecco l'articolo di Imarisio:

GERUSALEMME — Il ragazzo improvvisa un passo di danza e poi canta: «Vecchio cane rognoso, spero soltanto che tu soffra in modo atroce prima di morire».
A richiesta, offre la traduzione dall'arabo in inglese. Si chiama Mehran, ha 15 anni, è uno studente palestinese che veste all'occidentale con un girocollo e jeans neri.
Sui marciapiedi stretti e affollati di Saladin street non c'è posto neppure per la pietà. Alle otto di sera la strada commerciale di Gerusalemme Est, la fetta araba della città santa, ribolle di musica e del rumore delle serrande che si abbassano. E' una giornata come le altre, soltanto più allegra. Il tassista Mahmud è soddisfatto per il gran lavoro di oggi, e non solo per quello. «E' un uomo che ha fatto troppo male per meritare la nostra compassione».
Il passato non si dimentica, è più forte di qualunque presente e di un possibile futuro. Anche qui, tra i palestinesi più integrati, tra queste case di mattoni bianchi povere ma dignitose, costellate di negozietti di abbigliamento e alimentari, così lontane nella loro normalità dallo squallore e dalla rabbia di Gaza. Mahmud apre la porta del suo ufficetto e indica il poster appeso alla parete bianca. E' una foto famosa, un bambino con la frangetta sulla fronte piange appoggiato a un muro, mentre suo padre, disperato, cerca di proteggerlo. Poco dopo quello scatto il bambino morirà ucciso da un proiettile israeliano. La didascalia ne riporta il nome, Mohammed Rami, l'età, 12 anni, la data, sabato 30 settembre 2000, il luogo Gaza. La sua morte in diretta è una delle immagini simbolo della seconda Intifada. «Per lui piangiamo ancora oggi, perché invece dovremmo dispiacerci se muore l'uomo che l'ha ucciso?», si chiede Mahmud.
Il silenzio della Gerusalemme israeliana dista non più di cinquecento metri in linea d'aria. Ma qui la musica esce dagli amplificatori del negozio «Master music», i ragazzi che spingono sulla strada carretti pieni di patate si voltano e fanno grandi sorrisi.
«C'è da capirli. Sharon sarà anche cambiato, ma vallo a spiegare ai giovani, che hanno visto tutti quei morti. Per loro Sharon era e rimarrà un mostro assetato di sangue». Imad Munha è uno dei saggi del quartiere. La sua piccola cartoleria è un luogo di incontro, di chiacchiera, sempre politica, perché lui è dai tempi dell'università che se ne occupa. «Quando arriverà la conferma della morte di Sharon qui ci sarà un'altra festa, come avvenne per l'undici settembre».
Per spiegare, quest'uomo alto e pacato si indica l'ombelico. «E' qualcosa che viene dal profondo, una gioia vera. Come per voi italiani quando avete vinto il mondiale di calcio».
Imad ascolta una radio che gli riporta i commenti dei media arabi. La scorsa notte
Al Jazira ha fatto una lunga diretta dall'ospedale Hadassah, inframmezzata dal confronto tra il ministro palestinese Nabil Shaat e un rappresentante di Hamas che alle cautele del funzionario governativo («Da oggi avremo molti più problemi»), dopo la solita premessa in cui non augurava la morte di nessuno, opponeva la gioia sfrenata per una dipartita che si augurava «velocissima, in modo da far scomparire il bubbone Sharon dal mondo». I ragazzi assiepati nel negozietto e sul marciapiede sono tutti con lui. Si meravigliano che le notizie sull'agonia Sharon abbiano aperto i telegiornali della più grande emittente araba e di Al Arabiya, sostituite soltanto nel pomeriggio dall'ennesima macelleria irachena. «E' una vergogna tanta preoccupazione per l'uomo di Sabra e Chatila», sibila Mohammed Abu Garbieh, che in quel 1982 non era ancora nato. «I miei due bambini — dice — vivranno sempre qui, in un ghetto, cittadini di serie B senza diritto di voto. La pace di Sharon era un modo di proseguire la guerra contro di noi».
Sabra e Chatila, il manifesto di Mohammed Rami, le cinque madri del quartiere che oggi giravano recitando i nomi dei figli morti durante la seconda Intifada, c'è solo questo nei giudizi dei palestinesi di Gerusalemme. Se il quotidiano libanese Al Safir
parla di Sharon in punto di morte e quindi di «Israele sull'orlo del caos politico», e il suo concorrente An Nahar riferisce di un coma «che rimescola tutte le carte nella regione», i ragazzi ne traggono un elemento di auspicio e non di preoccupazione. Tutto quello che Sharon era diventato e simboleggiava non è rilevante. Conta il passato, anche qui, tra i giovani studenti palestinesi che si mischiano agli «altri» nei vicoli della città vecchia, che respirano la loro stessa aria.
Musbah Sandukah, un architetto che ha vissuto a Milano per undici anni, e adesso gestisce un negozio di scarpe, spiega così l'indifferenza di Saladin street a questa agonia e alle sue conseguenze: «I giovani hanno sempre diffidato di Sharon. In fondo preferiscono che tutto rimanga com'è. Dopo di lui troveranno qualcun altro verso cui convogliare il loro odio». Nella cartoleria di Imad intanto è entrato Feysed, un ragazzone con la barba folta e le mani nei capelli. «Sono tanto triste, era davvero un grand'uomo». Gli altri ragazzi lo guardano, e poi ridono. Era uno scherzo.

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