Ariel Sharon è stato operato d'urgenza nella notte e le sue condizioni sono gravi. Riportiamo le analisi di Fiamma Nirenstien sulla STAMPA e di Antonio Ferrari sul CORRIERE della SERA. Le cronache sono di Aldo Baquis (STAMPA),Umberto De Giovannageli (UNITA').Solo alcuni quotidiani sono riusciti preparare in tempo cronache e analisi. La maggior parte ha chiuso il giornale prima che le notizie arrivassero nelle redazioni.
Aspettiamo con ansia e grande preoccupazione i bollettini medici. La probabile uscita fuori dalla scena politica di Ariel Sharon, sempre che riesca a sopravvivere, avviene in un momento difficile e delicato. La politica israeliana rischia di precipitare in una pericolosa confusione, nella quale perdono immagine e significato tutti i partiti, Kadima soprattutto, che si troverà senza il suo leader e fondatore. E quindi con prospettive molto incerte. Sul versante palestinese, la scomparsa dell'interlocutore Sharon potrà avvantaggiare Hamas e i gruppi fondamentalisti . E' in momenti come questi che riappare la parola "miracolo", della quale sembra sentirsi il bisogno. Noi preferiamo augurarci che prevalgano il senso dello Stato, l'interesse comune e che i partiti e i politici mettano da parte i loro interessi particolari. Se questo accadrà, allora anche la parola miracolo avrà un significato.
Ecco l'analisi di Fiamma Nirenstein sulla STAMPA
ARIEL Sharon, Arik è tra la vita e la morte mentre il Medio Oriente, e il mondo intero, roteano intorno alla sua imponente figura. Nessuno è stato più vituperato nel corso della lunghissima carriera militare e politica, ma a causa di nessuno il mondo, Paesi Arabi compresi, vivrebbe una così drammatica, intensa attesa di fronte alla sua malattia. L’ombra della sua assenza apre scenari paurosi, si vela di nero il grande palcoscenico su cui è protagonista dal 6 febbraio 2001, quando venne eletto Primo Ministro: non più le truppe israeliane alla difesa del Paese, ma un grande, faticoso, contrastato e quindi tanto più mirabile spettacolo di pace.Per sua decisione nell’agosto del 2005 una torma di 8000 cittadini israeliani residente nella Striscia di Gaza, coloni, hanno compiuto quell’esodo biblico simile a una tragedia greca dalle case e dalle serre, un esodo che prometteva altre audacissime mosse, senza parole, senza carte, ben più di una firma su un pezzo di carta sotto l’impegno di Israele a convivere con i suoi vicini. Come solo Arik sapeva fare, diritto e ironico, senza guardare a destra né a sinistra. Per l’influsso unitario della sua personalità forte ma fortemente paterna tutti abbiamo assistito non solo alle scene di disperata contrapposizione da parte degli uomini degli insediamenti, ma anche alle incredibili manifestazioni di affetto, all’abbraccio che alla fine ogni democrazia autentica richiede ai suoi cittadini, fra i giovani soldati addetti allo sgombero e i settler strappati dalle loro abitazioni.
Israele è disperata adesso, il suo presente e il suo futuro sono di nuovo completamente in gioco. Il sentimento fra la gente di qui, quello degli spettatori dal mondo, e anche quello del cronista che ha già dovuto raccontare la fine dell’altro grande Primo Ministro deciso a percorrere la strada della pace, Yitzhak Rabin, è quello di un senso di perdita senza rimedio, di un fato oscuro e sibillino sul popolo ebraico. Il nuovo partito di Sharon, Kadima, che aveva creato una rivoluzione tale da vedere uniti sotto la stessa bandiera Arik e Shimon Peres, teneva diritto il timone in un momento di svolta senza precedenti, quella in cui, sia pure fra mille contraddizioni, il tema della democrazia e della lotta al terrorismo si proponeva ai palestinesi come al resto del Medio Oriente; oggi rischia la vita con il suo fondatore. Lo scenario mostra un’ulteriore prova per affrontare la quale lo Stato ebraico deve fare appello a tutta la sua forza.
Sharon è Israele: lo è fin dalla sua nascita da due appassionati sionisti immigrati russi Samuil e Vera nel Moshav, la cooperativa agricola, di Kfar Malal nel 1928 giunti nella terra che sarebbe divenuta Israele venti anni dopo non solo per reclamare una patria per gli ebrei ma per costruire una società socialista modello. «I miei genitori - ha scritto Sharon - erano sicuri che ebrei e arabi avrebbero potuto essere cittadini l’uno al fianco dell’altro». «Fra un attacco armato e l’altro sognavo - aggiunge Arik - da bambino che anche se i nemici fossero giunti alle porte del Moshav, il villaggio sarebbe stato invulnerabile (...) e nei primi terribili sei mesi della guerra di indipendenza nel ‘48 avevo lo stesso sogno (...) e nel ’67 quando ero comandante di una divisione, avevo la stessa convinzione basilare: quando la terra è la tua terra, quando conosci ogni collina e ogni valle e ogni coltivazione, quando la tua famiglia è là (...) la forza, quella spirituale, non solo quella fisica, ti viene dalla terra».
Sharon è vissuto in questo ideale di un Paese degli ebrei sicuro e in pace tutta la vita, e lo ha fatto nell’unico modo in cui un Paese sempre in guerra poteva cercare di perseguire il suo sogno: da soldato, oltre che da politico. Ferito due volte, sempre in testa ai suoi soldati in battaglia, salvatore del Paese nel 1973 durante la guerra del Kippur con l’operazione in cui portò i suoi con un pontone sulla riva occidentale del Canale di Suez, la sua determinazione a combattere in una guerra senza compromessi e senza quartiere lo ha portato tante volte sul banco degli accusati dell’opinione pubblica internazionale: come fondatore dell’Unità antiterrorista 101; poi, soprattutto nel 1982, quando nell’ambito della guerra del Libano volta all’espulsione delle grandi basi terroristiche dell’Olp (che Sharon nel suo ruolo di ministro della Difesa volle prolungare nonostante il parere contrario del primo ministro Menahem Begin) ebbe luogo la tragedia di Sabra e Chatila. Fu una strage di profughi palestinesi compiuta dalle milizie cristiane maronite, ma gli israeliani non intervennero per impedirla; e come propugnatore dal ’73 in avanti di una politica di insediamenti che avrebbe stabilito, secondo Sharon, una cintura di sicurezza contro l’aggressività del terrore.
Sharon è l’uomo che la stampa più di tutti ha amato odiato, e la gente si è dunque figurata in modo così distorto da renderlo un’icona travestita nelle vignette e nei cartelloni delle manifestazioni pacifiste da nazista, da mostro assettato di sangue. Tanto che a lui, e alla sua passeggiata nell’ottobre del 2000 sulla spianata delle moschee e non al terrorismo che esplodeva già dopo il rifiuto di Arafat a Camp David fu attribuita la responsabilità dell’Intifada di questi anni. Così pervasiva è stata questa immagine da obnubilare del tutto il fatto che Sharon fosse stratega e amico personale intimo di Rabin, da nascondere la sua profonda amicizia con il re Hussein e il suo contributo a quella pace, da nascondere il semplice fatto che Sharon, anche se dopo la guerra del ‘67 aveva ritenuto come tanti altri, a destra e a sinistra, che Israele avesse bisogno di migliorare territorialmente la sua difesa per la patente aggressività dei suoi vicini, era un personaggio che sempre di più sentiva, come tutti i soldati, il desiderio di pace. E che la proclamava continuamente, dandone però una definizione diversa da quella corrente: la sua idea è stata sempre quella di una pace accompagnata dal riconoscimento del diritto degli ebrei al loro Stato nella sicurezza per generazioni, lontano quindi dall’idea che anche col terrorismo e il rifiuto arabo fosse possibile convivere, ma che si dovesse collaborare col partner solo secondo il dettato della Road Map: senza terrorismo.
Il suo carisma e la sua capacità sono legati alla capacità di guidare verso la pace e combattere il terrorismo al contempo, fino allo sgombero da una parte, fino alla determinazione a ricercare, perseguire, uccidere i terroristi quando il rischio per Israele sia troppo grande. In Israele chi è nato nel Paese viene detto sabre, fico d’India, perché è dolce di dentro e spinoso di fuori. Sharon era proprio questo: un sabre di cui il mondo ha visto soltanto le spine finché la sostanza benefica della sua natura non è venuta in piena luce e non ha gettato i suoi semi. Preghiamo che almeno ne nasca una pianta.
La cronaca di Aldo Baquis sulla STAMPA
Ariel Aharon (78 anni) ieri sera è stato colpito da un grave ictus - il secondo in pochi giorni - e da un’emorragia cerebrale. Il premier è stato ricoverato d'urgenza nell'ospedale «Haddash Ein Karem» di Gerusalemme, dove è stato immediatamente sottosposto ad anestesia, a una risonanza magnetica e collegato agli apparecchiature per la respirazione artificiale. Ma i sanitari avvisano che l’uomo politico potrebbe non farcela. A quanto è trapelato, il paziente è stato colpito anche da una paralisi parziale agli arti inferiori. Subito dopo il ricovero è inizio l’intervento chirurgico, che si è protratto nella notte, in casi come questo indispensabile per tentare di fermare l’emorragia. Il segretario di Gabinetto, Yisrael Maimon ha comunicato che i poteri sono stati trasferiti ad interim, per un periodo massimo di cento giorni, al vice premier Ehur Olmert. Questi ha convocato per la mattinata di oggi una riunione di emergenza del gabinetto israeliano.
Israele sta vivendo dunque ore drammatiche e di ansia con continue edizioni straordinarie e aggiornamenti televisivi e radiofonici. Il primo ministro doveva sottoporsi oggi a un intervento di angioplastica, dopo che due settimane fa un piccolo foro nelle pareti interne del cuore era stato scoperto in seguito ad un primo ictus cerebrale. Secondo i piani prestabiliti il foro doveva essere otturato oggi.
Ma qualcosa di imprevisto è avvenuto ieri mentre Sharon riposava nel proprio ranch nel Neghev. Verso le ore 22 il premier ha avvertito un malore - più precisamente si è lamentato perché sentiva pressione o dolore al petto - che ha molto allarmato i familiari. Al punto che subito è stato organizzato per lui un convoglio e nel giro di un'ora è giunto all'ospedale «Hadassah Ein Karem», dove alcuni testimoni lo hanno visto trasportato in barella. Con il suo medico personale al fianco. Il premier - che è decisamente in sovrappeso - è arrivato accompagnato dai figli Omri e Ghilad, e dalla sposa di quest'ultimo Inbal. Un altro ospedale, il «Soroka a Beersheba», sarebbe stato molto più vicino al ranch e questo in un primo momento aveva fatto dire agli organi di informazione israeliani che le condizioni del primo ministro probabilmente non erano così gravi. Un ottimismo che si è rivelato ingiustificato.
Nelle ore precedenti, Sharon si era concesso una mezza giornata di riposo. Ma quella di ieri non era stata per lui una giornata serena in quanto la stampa locale aveva discusso con dovizia di particolari dei nuovi sospetti di corruzione che gravavano sulla sua persona. In particolare della possibilità che la famiglia Sharon avesse ricevuto tre milioni di dollari dagli uomini d'affari austriaci Martin e James Schlaff, proprietari di una catena di casinò, tra i quali quello di Gerico, gestito con i palestinesi e chiuso nel 2000 in seguito all’Intifada.
Per tutta la giornata le stazioni radio avevano disquisito sulla vicenda, facendo a gare nel fornire nuovi dettagli sulle intricate transazioni finanziarie. Sharon non era apparso ieri in pubblico, ma attraverso i propri collaboratori aveva smentito ogni addebito.
Gia due settimane fa Sharon era stato ricoverato d'urgenza nell'ospedale «Hadassah Ein Karem». Era arrivato - si sarebbe saputo dopo - in stato confusionale. Nei primi momenti non riusciva a comprenedere dove si trovasse, né riusciva a rispondere a tono alle domande più semplici. Secondo i medici, per circa 24 ore «non era stato di fatto in grado di prendere decisioni». Ma aveva superato bene l'ictus cerebrale che, secondo i medici, «non aveva lasciato traccia». In seguito alle analisi cliniche era stata scoperta una fessura del diametro di circa un millimetro tra i due atri cardiaci, una deformazione congenita presente in circa il 20 per cento delle persone e probabile sito di formazione dell'embolo. L'operazione avrebbe dovuto sigillare la fessura eliminando il rischio di formazione di coaguli.
Dopo solo due giorni di riposo nella propria residenza di Gerusalemme, Sharon aveva dunque ripreso le proprie attività, sia pure a ritmo allentato. Fra l'altro aveva presideuto due sedute del consiglio dei ministri, nella seconda delle quali aveva anche decretato un’ambiziosa «lotta al crimine» dilagante. Sharon aveva dedicato inoltre grandi energie per organizzare il proprio partita centrista «Kadima» che ancora oggi sembra lanciato a una vittoria di portata storica. Secondo gli ultimi sondaggi, Kadima potrebbe ricevere 42 seggi sui 120 della Knesset.
Negli ultimi giorni Sharon ha incontrato diversi candidati potenziali e ha esaminato le ripercussioni del probabile forfait di quattro ministri del Likud, che dovrebbero lasciare il governo domenica. In particolare Sharon doveva trovare una soluzione per il ministro degli esteri Silvan Shalom: in caso di dimissioni, potrebbe essere rimpiazzato da Shimon Peres.
e quella di Umberto De Giovannangeli sull' UNITA'
ISRAELE TRATTIENE IL FIATO e prega per la salute del suo primo ministro. Per la seconda volta in due settimane, Ariel Sharon è stato colpito, ieri sera, da un ictus cerebrale. La notizia si propaga in un attimo: Tv e radio interrompono le normali programma-
zioni per dare l’annuncio che scuote il Paese: “Arik” sta male. Molto male. A bordo di un’ambulanza Sharon giunge all'ospedale Hadassah di Gerusalemme. Il premier è accompagnato dai figli Omri e Ghilad, e dalla sposa del secondo Inbal. «Il primo ministro è pienamente cosciente», afferma una fonte ospedaliera. Ma Israele trema. I sintomi accusati dall’anziano statista - a quanto riferisce la radio di stato israeliana - assomigliano molto a quelli per i quali fu ricoverato il 18 dicembre scorso, con un lieve ictus cerebrale. Il malore, manifestatosi con forti dolori al petto, ha colto Sharon nella sua tenuta agricola nel Negev. La zona attorno all’ospedale Hadassah è immediatamente isolata da un impenetrabile cordone di sicurezza. «Le condizioni del primo ministro sono stazionarie», afferma una fonte vicina alla famiglia Sharon. Alle 23:12 locali (le 22:12 in Italia) il professor Birenbaum, portavoce dell’ospedale Hadassah, comunica in diretta tv che Sharon è sottoposto «a diversi esami di valutazione». Dai primi accertamenti, conferma il medico, «si evince che il primo ministro è stato colpito da un lieve attacco cerebrale». Al capezzale del premier giungono i suoi più stretti collaboratori. C’è chi non trattiene le lacrime. Per pochi secondo riusciamo a raggiungere telefonicamente Ranaan Gissin, consigliere e amico personale di Sharon. La sua voce tradisce la tensione di questi momenti drammatici: «Arik è presente a se stesso, e ciò fa ben sperare», ci dice Gissin.
Questa mattina il settantottenne premier israeliano doveva essere sottoposto a un lieve intervento al cuore per la chiusura di un foro rilevato dai medi in un atrio. «Stiamo valutando se anticipare l’intervento», dichiara in nottata il professor Birenbaum. Ore 23:30 locali. Si decide di accelerare i tempi dell’intervento. Ariel Sharon è sottoposto ad anestesia. I poteri vengono trasferiti temporaneamente al vice premier Ehud Olmert. Secondo i medici “Arik” ha avvertito un ictus cerebrale «significativo». I cordoni dei servizi di sicurezza fanno fatica a trattenere la folla di cronisti, reporter e cineoperatori che stringono d’assedio l’ospedale Hadassah. Le notizie incoraggianti della prima ora vengono contraddette col passare del tempo. Sharon sta male. Forse è in fin di vita. I poteri temporanei di Olmert vengono prorogati per almeno 100 giorni. È il segno che la situazione sta precipitando. La prima diagnosi medica ufficiale sulle condizioni di Sharon viene data dal professor Shmuel Mor Yossef. «La prima diagnosi - dice - è che sia avvenuto un ictus significativo. Il primo ministro - aggiunge - è stato sottoposto ad anestesia e collegato ad apparecchi di respirazione. Sharon si trova adesso nel reparto di risonanza magnetica per valutare con maggiore precisione la entità dell’evento e la sua ampiezza».
Ore 23:47: Ariel Sharon è condotto in sala operatoria. I medici che stanno intervenendo devono affrontare una emorragia cerebrale. Il mondo segue con apprensione l’ultima “battaglia” di Ariel Sharon. La Casa Bianca, dichiara il portavoce Scott McClellan, è in costante contatto con le autorità di Gerusalemme, e il premier israeliano «è al centro dei nostri pensieri e delle nostre preghiere». È stato il consigliere per la Sicurezza Nazionale Stephen Hadley ad informare il presidente Bush. Il rabbinato di Israele lancia un appello al popolo ebraico affinché si preghi per la vita del premier. Centinaia di persone si radunano nella spianata antistante il Muro del Pianto per una veglia di preghiera. «Stiamo cercando di bloccare una emorragia massiccia», comunica uno dei direttori dell’ospedale Hadassah, il professor Shapira. «Le condizioni del premier sono stabili», prova a rassicurare il suo fido consigliere, Ranaan Gissin. Ma i suoi occhi velati dalle lacrime raccontano di un’altra, drammatica, verità. «Solo un miracolo può salvare Arik», si lascia andare, piangendo suo figlio Omri. Israele assiste attonito all’ultima battaglia del suo generale sperando nel miracolo, ma apprestandosi a tributargli l’estremo saluto.
il commento di Antonio Ferrari sul CORRIERE
È l'ossimoro più estremo che si possa immaginare: la paura di Ariel Sharon. Sì, perché ieri sera alle 22 (le 21 in Italia) il premier israeliano, forse per la prima volta nella sua vita, ha scoperto e vissuto l'angoscia opprimente della paura.
Una fitta improvvisa e terribile al petto, a poche ore dal previsto ricovero all'ospedale, dall'appuntamento con l'anestesista, che stamane lo avrebbe dovuto addormentare, e con il chirurgo che sarebbe dovuto intervenire per restituire forza e dignità al cuore più importante di Israele.
Quella parola che non avrebbe mai voluto pronunciare, paura appunto, si è materializzata sul volto del primo ministro quando il suo medico personale ha consigliato di chiamare l'elicottero per anticipare immediatamente il ricovero.Sharon, dopo ventiquattro ore trascorse nel ranch del Negev a riflettere sulle proprie enormi responsabilità politiche, sulla sua salute diventata improvvisamente precaria e sullo scandalo delle tangenti che lo ha coinvolto assieme ai due figli, era pallido e pareva smarrito.
Adesso l'uomo al quale Israele ha affidato, ed è pronto a consegnare ancora una volta, la cambiale in bianco del suo immediato futuro, non è più l'indomabile generale che sui campi di battaglia sceglieva la prima linea, rifiutando i prudenti benefici del grado militare. È un uomo che si scopre fragile e che deve lottare con le proprie incertezze. Anzi, per la propria vita. Un segnale, quello del primo ictus, poteva essere ritenuto un banale incidente di percorso, dovuto allo stress e agli indubbi (e comprovati) eccessi alimentari.
Il secondo segnale, con un attacco ancora più forte, quasi micidiale, è assai preoccupante, perché rivela al premier e soprattutto a un Paese insicuro, la grande fragilità del suo condottiero, alla vigilia di un appuntamento elettorale davvero decisivo: le elezioni del 25 marzo, sulle quali aleggia ora un terribile incubo.
Quel che si diceva a metà dicembre, quando la crisi circolatoria si era manifestata per la prima volta, è poca cosa rispetto alle reazioni angosciate che si affollano attorno alla stanza d'ospedale, dove il premier lotta per la vita. Le notizie per ora sono pessime. Le indiscrezioni ancora peggiori. Parlano di una paralisi agli arti inferiori, di una massiccia emorragia durante il trasporto all'ospedale e di una serie di guai collaterali che in un Paese emotivo come Israele si sono tradotti in autentico dramma collettivo. Reazione comprensibile perché nessuno riesce ad immaginare, non soltanto un futuro politico senza Sharon, ma un domani con un premier dimezzato e incapace di impugnare saldamente il timone del potere.
Nei giorni scorsi era stata prospettata una campagna elettorale ridotta, con un numero di apparizioni limitatissimo del leader. Il quale, forse presagendo l'appuntamento con un destino che ormai intendeva sottrargli definitivamente il mito dell'invincibilità, aveva trascorso ore e ore, con i suoi collaboratori, disegnando un futuro senza di lui, forse nel disperato tentativo di inventarsi un successore che non c'è.
Oggi, infatti, c'è la concreta possibilità che il primo ministro non sia più in grado di guidare il suo nuovo partito centrista, l'Avanti, nato dopo la decisione di Sharon di abbandonare il Likud e di imboccare una nuova strada, per giungere alla pace con i palestinesi. Senza il premier, però, tutti gli equilibri rischiano di saltare, lasciando il Paese al buio.
Certo, saranno in tanti a gioire per le condizioni di salute del primo ministro. Di sicuro, non soffriranno i suoi ex compagni di partito dell'estrema destra (come l'ex capo del governo Benjamin Netanyahu), che hanno accusato Sharon di averli traditi con la decisione di ritirarsi da Gaza e di smantellare tutti gli insediamenti ebraici nella Striscia. Altrettanto sicuramente non potrà esultare il Partito laburista, che dopo aver scelto di liquidare gli anziani condottieri, come Shimon Peres, si è affidato al più giovane Amir Peretz nella speranza che quest'ultimo possa contribuire incisivamente al rilancio del negoziato di pace. Ma il vero dramma — e già se ne intuiscono le dimensioni — affiora proprio dal partito del leader malato, che privato del suo condottiero rischia di perdere la propria ragione di esistere, e di sfaldarsi con una pericolosa implosione.
Non possono gioire neppure i palestinesi, che si preparano, tra mille difficoltà, alle loro elezioni. Il presidente Mahmoud Abbas, che ha sempre avuto un rapporto franco con Sharon, nonostante le accuse reciproche, sa bene che senza il ruvido premier potrà offrire ben poco a un popolo sfiduciato, che per protesta (non certo per convinzioni religiose o ideologiche) è pronto a sostenere gli integralisti di Hamas, come rilevano quasi tutti i sondaggi.
Per tutte queste ragioni le gravi condizioni di Sharon possono avere conseguenze politiche non soltanto in Israele e in Palestina, ma in tutta la regione: turbata dal tormentato dopoguerra iracheno, dall'aggressività dell'Iran guidato dal presidente estremista Ahmadinejad, dalla grave crisi che sconvolge la Siria, accusata d'essere responsabile dell'assassinio dell'ex premier libanese Rafic Hariri.
Ecco perché il Medio Oriente ripiomba nella paura, proprio come la ex Jugoslavia durante la fatale malattia del presidente Tito, nel 1980. La stessa paura che, forse per la prima volta, è comparsa sul volto di un leader israeliano che ha sempre dimostrato di non sapere che cosa fosse e che ora è stato costretto a scoprirla e ad accettarla.
sempre dal CORRIERE (on line) un breve servizio sulle reazioni della comunità ebraica italiana
ROMA — «Ho una grande preoccupazione, ed è probabilmente la stessa di tanti ebrei romani. Cioè che l'improvvisa assenza di una guida forte in Israele possa provocare una terza Intifada. Mi auguro di sbagliarmi, ma la paura c'è». Riccardo Pacifici, vicepresidente e portavoce della comunità ebraica romana, questa mattina deciderà col rabbino capo Riccardo Di Segni (in Israele da due giorni per un convegno religioso) se aprire la sinagoga romana sul lungotevere per una preghiera speciale per la guarigione di Sharon. Nella notte romana, Pacifici lascia spazio ai ricordi: «Era il luglio 2003, Sharon era in visita a Roma e ci ricevette. Disse con molta chiarezza e semplicità a noi ebrei della diaspora: ci stiamo preparando a scelte dolorose, che forse molti di voi non condivideranno. Ma non ci sono altre strade per raggiungere la pace. Non aggiunse altro. Eravamo ancora lontani dalla morte di Arafat ma il suo piano era già pronto e ben preciso».
Chi è Sharon per gli ebrei romani? «Sicuramente una figura cara e paterna. La nostra comunità non potrà mai dimenticare che fu lui a salvare Israele prima nel 1967 e poi nel 1973, durante quella guerra del Kippur che poteva davvero distruggerla. La comunità romana non ha mai appoggiato questo o quel governo ma solo la democrazia israeliana. Ma non sbaglio se dico che in queste ore la salute di Sharon è nel cuore di tutti gli ebrei romani. Il suo esperimento politico stava catturando il favore di tutti i moderati di Israele. Un aspetto che non può lasciarci indifferenti».
Da Milano parla Yasha Reibman, portavoce della comunità milanese: «Siamo sconvolti. Per lo Sharon uomo e per lo statista. Ma per quanto riguarda Israele, sappiamo che si tratta di una grande democrazia che ha resistito a mille, dure prove. Anche nel caso peggiore tutte le procedure verranno rispettate e non ci saranno scossoni al sistema democratico. Ora tocca ad Abu Mazen imporre la propria autorità, disarmare il terrorismo. Direi in queste ore più che mai, se davvero si vuole la pace».
«Israele ha già resistito a mille prove. Anche nel caso peggiore, non ci saranno scossoni al sistema democratico»
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