A pagina 15 il Corriere della Sera di venerdì 30 dicembre 2005 pubblica un'intervista di Lorenzo Cremonesi ad Hanan Ashrawi . Interessante quando descrive la situazione di anarchia nei Territori, non contrastata da Abu Mazen, l'intervista diventa propagandistica quando equipara il terrorismo a presunti abusi dei coloni (il taglio degli ulivi, che però vengono usati dai terroristi palestinesi per nascondersi quando sparano contro le colonie) e un avvelenamento di fonti denunciato, ma giudicato non avvenuto dalla giustizia israeliana e a scelte del governo israeliano (come la mancata apertura di un transito di uomini e merci tra Gaza e la e Cisgiordania) perfettamente spiegabili proprio con le esigenze di sicurezza di Israele.
Cremonesi non replica alle affermazioni della sua interlocutrice
Ecco il testo:
RAMALLAH (Cisgiordania) — «Ormai siamo nel caos. E non ce lo possiamo più nascondere. Specialmente nella striscia di Gaza, il governo di Abu Mazen ha totalmente fallito, non è stato in grado di imporre la legge e l'ordine». Parla senza peli sulla lingua Hanan Ashrawi. Qui, nella sua villetta posta di fronte al muro di cinta della Mukata, dove era costretto Arafat e oggi ha l'ufficio il suo più che debole successore, la «pasionaria» della causa palestinese, che per tanti anni è stato tra i volti più noti ai media, sta organizzando il suo nuovo partito in vista del voto del 25 gennaio. «L'abbiamo chiamato
Terza via, perché ci presentiamo come l'alternativa tra la corruzione del Fatah e l'integralismo islamico di Hamas», spiegava ieri sera ascoltando preoccupata le ultime cronache delle violenze.
A Gaza poliziotti palestinesi e gruppi armati si sparano contro. Ci sono anche morti e feriti. È guerra civile?
«Sono fatti gravissimi. E non è la prima volta. Purtroppo negli ultimi mesi abbiamo assistito al progressivo degenerare della violenza. Sembra che le cose possano ancora peggiorare con l'approssimarsi delle elezioni politiche tra ormai meno di un mese».
Colpa di Abu Mazen?
«Sì, direi di sì. Non ha avuto coraggio, non ha voluto adottare la forza per imporre la sua autorità, pur essendo consapevole già quest'estate che la situazione stava deteriorandosi.
Conosciamo i suoi punti di debolezza: un anno fa era partito con un'amministrazione allo sfascio, le forze di sicurezza divise, la mancanza di uomini e mezzi nella sua polizia. Però non ha fatto praticamente nulla per porvi rimedio. I corrotti e le mafie della vecchia amministrazione hanno continuato a prosperare, lui non ha saputo neppure riformare la polizia. Ora a Gaza imperano le grandi famiglie, le milizie private, manca qualsiasi parvenza di autorità centralizzata».
Si potrà votare egualmente?
«Sì, spero di sì. Non abbiamo alternativa » Come spiega la crescita di Hamas?
«In molti casi è un voto di protesta. La gente, anche l'elettorato tradizionalmente laico che è molto forte tra noi palestinesi, sceglie Hamas non perché si sia avvicinata improvvisamente all'Islam, ma piuttosto per condannare la corruzione imperante nel Fatah e tra i vecchi leader dell'Olp, rientrati nei territori occupati dal 1994. Ecco perché ha un senso il nostro nuovo partito: cerca di catturare i voti della protesta laica».
Il punto principale del vostro programma politico?
«L'onestà contro la corruzione. E un governo legittimo che non abbia paura di riformare la polizia per imporre finalmente l'ordine e la vera democrazia».
Ancora un kamikaze in Cisgiordania. E guerra di missili da Gaza che obbliga il governo Sharon a imporre una fascia di sicurezza. Li condanna?
«Sono contro la violenza e il terrorismo, certo. Ma attenzione, non mancano le responsabilità israeliane. Non va dimenticato che nelle ultime settimane i gruppi estremisti tra i coloni ebrei nella zona di Nablus hanno tagliato migliaia di ulivi dei villaggi palestinesi nell'assoluta impunità. Un fatto gravissimo, il massimo dell'ingiustizia nel disprezzo di queste antiche comunità contadine, denunciato anche da un paio di coraggiosi giornalisti israeliani. Ma per il resto del tutto ignorato dal governo Sharon e da larga parte della società israeliana. Solo qualche mese fa gli stessi coloni avevano avvelenato alcune fonti d'acqua usate dai pastori palestinesi. Nessuno è mai stato portato in tribunale. Così, Sharon parla di pace, ma intanto non mantiene gli accordi per il passaggio di beni e persone tra Cisgiordania e Gaza, strangola la nostra economia, trasforma larghe zone dei territori occupati in grandi prigioni. Parla di pace, ma intanto costruisce il muro sulle nostre terre, ci ruba la Gerusalemme araba, impone le punizioni collettive. Se si condanna tutto questo, si deve condannare anche la violenza palestinese».
Anche Mohammed Dahlan, intervistato da Umberto De Giovannangeli a pagina 12 dell'Unità si produce in accuse contro Israele volte a sminuire la responsabilità palestinese per il terrorismo, senza obiezioni da parte del giornalista.
Ecco il testo:
L'«uomo forte di Gaza» è divenuto il garante della ritrovata unità elettorale di Al-Fatah. È lui, Mohammed Dahlan, ministro per gli Affari civili dell'Anp ed ex responsabile dei sevizi di sicurezza palestinesi nella Striscia, ad aver prima operato lo strappo con la vecchia guardia del Fatah, presentando assieme a Marwan Barghuti - l'uomo-simbolo della seconda Intifada, da tre anni recluso in un carcere israeliano dove sconta l'ergastolo per reati di terrorismo - una lista alternativa a quella ufficiale di Al-Fatah; ed è stato ancora lui, il giovane e ambizioso Dahlan, a trattare, su posizioni di forza, con il presidente Abu Mazen la riunificazione delle liste di Al-Fatah. A nemmeno un mese dalle elezioni legislative, Mohammed Dahlan lancia una doppia sfida: alla vecchia nomenklatura dell'Anp, "ha fatto il suo tempo, il rinnovamento non può più attendere", e agli integralisti di Hamas: «Si comportano come se avessero la vittoria in tasca (alle elezioni legislative del 25 gennaio prossimo, ndr.) ma avranno un brusco risveglio».
Iniziamo dallo strappo. Quale era il significato politico della lista dei «giovani leoni» di Al-Fatah creata in alternativa a quella ufficiale che aveva ricevuto l'imprimatur di Abu Mazen? Si trattava di un atto di sfiducia nei riguardi del presidente dell'Anp?
«Nessuna sfiducia verso Abu Mazen. Lui era e resta il nostro presidente, per il quale ci siamo battuti e continueremo a batterci. Ma non potevamo chiudere gli occhi di fronte al tentativo in atto da tempo di bloccare il processo riformatore di cui Abu Mazen è espressione e garante. Vecchie logiche di potere hanno paralizzato la sua azione provocando una frattura tra la base di Al-Fahat, la popolazione palestinese e i vertici del movimento e dell'Anp. Questa paralisi rischiava di consegnare la vittoria elettorale ad Hamas. Occorreva dare un netto segnale di discontinuità rispetto al passato. Da questa esigenza vitale è nata la lista alternativa guidata da Marwan Barghuti».
Della quale lei era il numero due. Qualcuno ha parlato di una rivolta generazionale.
«Non è solo un fatto anagrafico. Avevamo presentato una lista alternativa per protestare contro quei fratelli che avevano imposto una lista chiusa di Al-Fatah. Ai nostri dirigenti abbiamo inteso ricordare che la nuova generazione ha pagato un prezzo altissimo per l'occupazione israeliana e di questo occorreva tener conto anche nella selezione delle candidature».
La lista unitaria di Al-Fatah sarà guidata da Marwan Barghuti. Per Israele è una provocazione.
«Marwan è il simbolo della resistenza palestinese, piaccia o no ai governanti israeliani. Il suo impegno non è venuto mai meno in questi anni di carcere. Per le nuove generazioni palestinesi Marwan Barghuti è sempre rimasto un punto di riferimento e lo sarà anche in questa decisiva prova elettorale. La sua, mi creda, non è una candidatura di bandiera. La liberazione di Marwan e dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è un punto qualificante, fondamentale, non solo del programma di Al-Fatah ma dell'azione di governo dello stesso Abu Mazen. Israele sbaglia a non rendersi conto che Barghuti è una risorsa e non un problema per raggiungere un compromesso tra le parti in conflitto».
La riunificazione delle liste di Al-Fatah può rappresentare la carta decisiva per contrastare Hamas nella sfida delle urne?
«La ritrovata unità, nel segno del rinnovamento, era la condizione indispensabile per ridare entusiasmo ai nostri militanti. Questo risultato è stato raggiunto. Ma l'entusiasmo da solo non può bastare. Al-Fatah deve saper interpretare le istanze che vengono dalla società palestinese e trasformarle in capacità di governo. Ciò vale sia nella lotta alla corruzione che nel delineare una nuova strategia negoziale con Israele; una strategia più aggressiva sul piano politico e che non sia subalterna all'unilateralismo di Ariel Sharon. La grande maggioranza dei palestinesi vuole una pace giusta con Israele, una pace tra pari. E vuole vivere in uno Stato indipendente, dai confini certi, con una piena sovranità su tutto il suo territorio nazionale. Uno Stato con Gerusalemme Est come capitale. La nostra lotta è per realizzare un nuovo Stato, quello palestinese, e non per distruggerne un altro, lo Stato d'Israele. Al-Fatah deve trasformare questa aspirazione in azione politica. Ne va molto più di qualche seggio nel nuovo Parlamento: in gioco è il futuro di un intero popolo».
Israele ha deciso di creare una "zona di interdizione" nel nord di Gaza. Cosa significa per i palestinesi?
«Si tratta di una rioccupazione militare in piena regola. Un atto arbitrario, pienamente in linea con la logica unilateralista che aveva guidato questa estate il "ritiro" dalla Striscia».
Lei parla di riforme, di rinnovamento, ma nei Territori regna il caos armato, con rapimenti, attentati suicidi come quello avvenuto ieri ad un posto di blocco nei pressi di Tulkarem, a cui si aggiunge la volontà reiterata di Hamas a non disarmare le proprie milizie.
«Costruire una democrazia in una situazione in cui Gaza resta una grande prigione a cielo aperto e la Cisgiordania è marchiata, divisa in mille ghetti, dal Muro dell'apartheid, è un'impresa improba. Ma è anche una sfida a cui non possiamo sottrarci. Ripristinare l'ordine e la sicurezza nei Territori deve essere una priorità assoluta per la nuova dirigenza palestinese. Tutti devono poter esprimere il proprio punto di vista ma nessuno deve poter esercitare il ricatto delle armi. La costruzione dello Stato di Palestina, di uno Stato democratico e indipendente, non ammette l'esistenza di un contropotere armato».
ha collaborato Osama Hamlan
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