Al mio arrivo, Betlemme era solo un paese che per rispetto al re Davide e a Gesù che vi erano nati chiamavamo “cittadina”. Forse anche perché era più grande del villaggio di Beit Jala che sorgeva a nord ovest sulla montagna, e di Beit Sahur costruito a est nella valle abitati dalle stesse famiglie cristiane, diventati per gli abitanti di Betlemme mishmish (albicocche) quelli di nord, khiar (cetrioli) quelli di est. O perché qui ogni giorno convergevano al mercato i beduini che pascolavano i loro greggi nel vicino deserto. In realtà La Città per gli abitanti di Betlemme e degli altri due villaggi era la vicina Gerusalemme di cui si sentivano un quartiere un po’ periferico. Per ogni bisogno che usciva dalla normalità più comune, si prendeva il taxi o il bus parcheggiati nella Piazza della Natività e si saliva in città, anche se, passata la Tomba di Rachele, si era obbligati, una volta giunti alle prime case di Gerusalemme, a fare una lunga deviazione che, costeggiando la montagna con i contours sottolineati dal percorso dell’acquedotto romano bizantino, saliva fino al villaggio di Sur Bahir per poi scendere nella valle del Cedron, e via Siloam raggiungere il Getsemani nella valle di Giosafat e Porta Damasco dove c’era la stazione.
Una deviazione resasi necessaria dopo l’armistizio del 1949, con l’esercito israeliano che aveva occupato il quartiere della Baqa che si era sviluppato a sud sulla strada di Betlemme fuori delle mura della Città Vecchia. Una deviazione più breve di quella alla quale si era stati obbligati durante la guerra del 1948 e negli anni a ridosso, quando per giungere a Gerusalemme bisognava puntare verso il deserto fino alle rovine del protocenobio di San Teodosio, scendere con pericolosi tornanti nel Wadi al-Nar (la Valle del Fuoco, come viene chiamata la continuazione del Cedron nel deserto), risalirne le ripide sponde fino al villaggio di Abu Dis, a sud di al-Azariyah/Betania, sulle pendici del Monte degli Olivi, e da lì rientrare nella valle di Giosafat e a Gerusalemme.
Un sacrificio necessario al quale ci si piegava di buon grado senza farsi troppe domande, anche se i chilometri da 10 diventavano 20 o 30, con una rassegnazione che sapeva di fatalismo…per uno straniero da poco arrivato come me che non riusciva a capire quella perdita di tempo inutile imposta con la forza delle armi ad una popolazione pacifica e indifesa.
Una deviazione resasi necessaria dopo l’armistizio del 1949, con l’esercito israeliano che aveva occupato il quartiere della Baqa che si era sviluppato a sud sulla strada di Betlemme fuori delle mura della Città Vecchia. Una deviazione più breve di quella alla quale si era stati obbligati durante la guerra del 1948 e negli anni a ridosso, quando per giungere a Gerusalemme bisognava puntare verso il deserto fino alle rovine del protocenobio di San Teodosio, scendere con pericolosi tornanti nel Wadi al-Nar (la Valle del Fuoco, come viene chiamata la continuazione del Cedron nel deserto), risalirne le ripide sponde fino al villaggio di Abu Dis, a sud di al-Azariyah/Betania, sulle pendici del Monte degli Olivi, e da lì rientrare nella valle di Giosafat e a Gerusalemme.
Un sacrificio necessario al quale ci si piegava di buon grado senza farsi troppe domande, anche se i chilometri da 10 diventavano 20 o 30, con una rassegnazione che sapeva di fatalismo…per uno straniero da poco arrivato come me che non riusciva a capire quella perdita di tempo inutile imposta con la forza delle armi ad una popolazione pacifica e indifesa.
La guerra del 48 fu combattuta da Israele per la propria sopravvivenza e fu una guerra civile, durante la quale i nemici si nascondevano all'interno della "popolazione pacifica e indifesa". Lo straniero che "non capiva", semplicemente, non voleva capire
A ricordare la guerra con i suoi postumi di tensione restavano i campi dei rifugiati che dai loro villaggi nella pianura occupata dagli Ebrei
La pianura non fu "occupata dagli Ebrei". Questi si erano insediati pacificamente in terra di Israele (e in parte non avevano mai cessato di esservi presenti). Furono gli arabi a cercare di cacciare gli ebrei, non il contrario
avevano cercato rifugio alle porte di Betlemme nei tre campi di Dheisheh, di al-Azzeh e di Aydah. Rifugiati in gran parte di religione musulmana che progressivamente avrebbero alterato il carattere cristiano della cittadina in maggioranza cristiana, che oggi conta 35.000 abitanti di cui solo 12.000 cristiani.
La guerra del 1967 significò la riapertura della strada normale che, dopo la Tomba di Rachele, costeggiava il monastero greco-ortodosso di Mar Liyas (Sant’Elia) situato nel punto più alto del percorso sul margine di quella che era stata la no man’s land, la terra di nessuno prevista dall’armistizio del 1949, e entrava nel quartiere della Baqa diventato ebraico per l’abbandono delle case da parte della popolazione araba.
Paradossalmente, riprendeva la vita di una volta.
La guerra del 1967 significò la riapertura della strada normale che, dopo la Tomba di Rachele, costeggiava il monastero greco-ortodosso di Mar Liyas (Sant’Elia) situato nel punto più alto del percorso sul margine di quella che era stata la no man’s land, la terra di nessuno prevista dall’armistizio del 1949, e entrava nel quartiere della Baqa diventato ebraico per l’abbandono delle case da parte della popolazione araba.
Paradossalmente, riprendeva la vita di una volta.
Nient'affatto paradossalmente: la sovranità israeliana garantiva e garantisce la libertà religiosa.
Come prima del 1949 e per lunghi secoli addietro, Betlemme era di nuovo il quartiere periferico di Gerusalemme, il villaggio fuori porta al quale ci si recava anche a piedi per una passeggiata salutare ripercorrendo i pochi chilometri percorsi nei secoli dai pellegrini che, dopo aver visitato il Santo Sepolcro e i santuari della città, si recavano alla Basilica della Natività e al santuario dei Pastori nel villaggio di Beit Sahur. La notte di Natale, in particolare, le comunità religiose di Gerusalemme, avevano ripreso la consuetudine di recarsi a notte fonda in processione a pregare nella Grotta dove li avevano preceduti i pellegrini venuti da lontano che avevano voluto assistere la mattina della vigilia all’ingresso solenne del Patriarca Latino di Gerusalemme ricevuto nella Piazza della Natività dalla comunità francescana a guardia del santuario. Un ingresso che prima della guerra era reso particolarmente festoso e variopinto dai soldati della legione araba a cavallo che scortavano il Patriarca dalla Tomba di Rachele, ingresso ufficiale di Betlemme, alla Piazza del Presepio, dove veniva accolto al suono delle cornamuse dei giovani in gonnellino scozzese, eredità questo e quelle dei fucilieri di Sua Maestà Britannica che avevano governato la Terra Santa dopo la Prima Guerra Mondiale.
Per gli abitanti di Betlemme, trascorso un primo periodo di paura per familiarizzarsi con i nuovi arrivati giunti con i carriarmati e con minacciosi inviti ad andarsene gridati nella notte con altoparlanti a tutto volume piazzati sulle jeep,
Per gli abitanti di Betlemme, trascorso un primo periodo di paura per familiarizzarsi con i nuovi arrivati giunti con i carriarmati e con minacciosi inviti ad andarsene gridati nella notte con altoparlanti a tutto volume piazzati sulle jeep,
Afefrmazioni indimostrate, quando sarebbero avvenuti gli episodi raccontati da Piccirillo?
riprendeva la vita di una volta facilitata da un certo benessere portato dalla riapertura della strada che li collegava direttamente a Gerusalemme. Con i pellegrini venuti da fuori per i quali riprese nuovo sviluppo l’artigianato sacro in legno di olivo e madreperla, da secoli la vera ricchezza di Betlemme, si aggiunsero gli israeliani che preferivano venire a fare i loro acquisti nel mercato della cittadina dove trovavano un ambiente più umano e beni a prezzi migliori. Israeliani di religione ebraica che la notte di Natale si univano ai pellegrini e ai cristiani di Betlemme per assistere alle cerimonie nella Basilica della Natività.
Furono anni di relativa calma e sicurezza economica finché i coloni ebrei, con l’appoggio del governo, destra o sinistra in questo caso non ha importanza, semplici giochi di parole, non iniziarono le loro impiantazioni nei così detti Territori Occupati durante la guerra del 1967 per gli Arabi e il mondo civile, Giudea-Samaria per gli Ebrei.
Furono anni di relativa calma e sicurezza economica finché i coloni ebrei, con l’appoggio del governo, destra o sinistra in questo caso non ha importanza, semplici giochi di parole, non iniziarono le loro impiantazioni nei così detti Territori Occupati durante la guerra del 1967 per gli Arabi e il mondo civile, Giudea-Samaria per gli Ebrei.
Giudea e Samaria sono i nomi biblici e storici di quelle terre, la negazione del rapporto tra esse e gli ebrei è una manipolazione ideologica della realtà. Ancora più grave la contrapposizione tra gli "Ebrei" e un "mondo civile" al quale evidententemente essi, per Piccirillo, non appartengono.
Coloni che, spalleggiati dall’esercito inviato dai governi in carica prima di destra poi di sinistra, alternativamente, diventavano sempre più aggressivi con l’esproprio forzato delle terre degli Arabi in gran parte cristiani intorno a Betlemme, a Beit Sahur e a Beit Jala, dove negli oliveti sradicati dalle ruspe sorsero i nuovi quartieri della cintura esterna della nuova Gerusalemme ebraica con i quartieri di Gilo a nord di Beit Jala, prima, e quello di Har Homa a nord est di Betlemme dove sulla collina una volta alberata di Abu Ghunneim sorgono i nuovi vuoti palazzi vero affronto alla logica di pace e della convivenza, cuneo nel cuore del territorio di Betlemme.
Gli insediamenti sono in realtà costruiti su terreni che appartenevano al governo giordano, non dunque, ricordano i coloni, su terre private
Espropri e costruzioni che fomentarono l’odio mai sopito per ingiustizie già subite in precedenza, che provocarono la resistenza armata di pietre e sangue versato di innocenti. Odio e sangue che non hanno risparmiato gli abitanti di Betlemme e degli altri due villaggi i quali alla fine hanno pagato pesantemente una posizione di confine.
Le vicende politiche di un mondo impazzito, ma non dall’11 settembre del 2001!, sono riuscite a dividere Betlemme dalla città di Gerusalemme per una autonomia che le sta stretta e che i tragici avvenimenti dell’occupazione e dell’assedio della Basilica della Natività nel maggio del 2002 hanno evidenziato in modo drammatico. Un taglio innaturale e forzato da cui la cittadina, forse è (e vorrei che fosse) una mia impressione, ha solo sofferto, anche e soprattutto grazie al nuovo interesse dimostrato negli ultimi anni dai samaritani di turno che vi hanno convogliato grosse somme di denaro che sono andate ad opere di pubblica utilità, ma che sono anche all’origine di una elefantiasi costruttiva inarrestabile che ha stravolto la Betlemme che io conoscevo.
Le vicende politiche di un mondo impazzito, ma non dall’11 settembre del 2001!, sono riuscite a dividere Betlemme dalla città di Gerusalemme per una autonomia che le sta stretta e che i tragici avvenimenti dell’occupazione e dell’assedio della Basilica della Natività nel maggio del 2002 hanno evidenziato in modo drammatico. Un taglio innaturale e forzato da cui la cittadina, forse è (e vorrei che fosse) una mia impressione, ha solo sofferto, anche e soprattutto grazie al nuovo interesse dimostrato negli ultimi anni dai samaritani di turno che vi hanno convogliato grosse somme di denaro che sono andate ad opere di pubblica utilità, ma che sono anche all’origine di una elefantiasi costruttiva inarrestabile che ha stravolto la Betlemme che io conoscevo.
La cittadina sta crescendo, estendendosi verso Beit Jala, sulla strada di Hebron verso sud, e verso Beit Sahur e le valli circostanti (perché verso Gerusalemme ci hanno già pensato gli Israeliani a riempire i vuoti con i loro quartieri bunker!), senza un piano regolatore, nell’anarchia più assoluta con palazzi, hotel o centri commerciali non importa, sproporzionatamente alti rispetto alla conformazione del suolo naturalmente terrazzato che stanno anche per assediare la Basilica della Natività. Una architettura innaturale sottolineata, se ce ne fosse stato bisogno, dalla gigantesca X ribassata formata dalle bande di risalita e di discesa di un immenso parcheggio in cemento armato che chiude la valle centrale.
Senza più rispetto per nulla, né per la vista verso est dove gli oliveti degradavano dolcemente verso il deserto, né per il centro storico dove svettavano poco sopra le terrazze delle case i campanili delle chiese e il minareto della moschea nella piazza, che erano l’unico elemento emergente. Cominciando dalla Tomba di Rachele, cambiata in fortilizio di cemento armato dai genieri dell’esercito israeliano (chiamarli ingegneri o architetti potrebbe essere offensivo della categoria!), la strada si incunea in un tunnell da slalom chiuso sui lati da palazzi che non danno respiro agli occhi fino alla Piazza della Natività.
E’ in questo tunnel di pietra che spesso si sono avventurati i carriarmati israeliani seminando distruzione al loro passaggio in una dimostrazione di forza contro la popolazione di Betlemme che come quella di Beit Sahur e di Beit Jala ha pagato a caro prezzo l’essere dall’altra parte di un confine inesistente facile rifugio per gli uni che provocano volutamente la ritorsione sparando da case non loro, visibile e indifeso bersaglio per chi risponde con la furia della potenza armata che non ha interesse a fare delle distinzioni che giustizia vorrebbe necessarie.
Senza più rispetto per nulla, né per la vista verso est dove gli oliveti degradavano dolcemente verso il deserto, né per il centro storico dove svettavano poco sopra le terrazze delle case i campanili delle chiese e il minareto della moschea nella piazza, che erano l’unico elemento emergente. Cominciando dalla Tomba di Rachele, cambiata in fortilizio di cemento armato dai genieri dell’esercito israeliano (chiamarli ingegneri o architetti potrebbe essere offensivo della categoria!), la strada si incunea in un tunnell da slalom chiuso sui lati da palazzi che non danno respiro agli occhi fino alla Piazza della Natività.
E’ in questo tunnel di pietra che spesso si sono avventurati i carriarmati israeliani seminando distruzione al loro passaggio in una dimostrazione di forza contro la popolazione di Betlemme che come quella di Beit Sahur e di Beit Jala ha pagato a caro prezzo l’essere dall’altra parte di un confine inesistente facile rifugio per gli uni che provocano volutamente la ritorsione sparando da case non loro, visibile e indifeso bersaglio per chi risponde con la furia della potenza armata che non ha interesse a fare delle distinzioni che giustizia vorrebbe necessarie.
Israele queste distinzioni le ha operate, cercando di non colpire i civili.
Nei mosaici che decorano gli archi trionfali delle chiese di Roma, gli artisti dell’antichità cristiana per indicare la Ecclesia sparsa per il mondo composta dai Gentili pagani e dagli Ebrei, rappresentarono insieme le due vignette di Betlemme e di Gerusalemme come simbolo della Chiesa dei pagani e della chiesa della Circoncisione. Una unità che la politica è intenzionata a scindere, separando famiglie e una storia secolare che non si cancella troppo facilmente.
Il risultato di questa follia? Per chi vuole recarsi a Gerusalemme si è tornati al 1949. Bisogna prendere la strada del deserto, del Wadi al-Nar, di Abu Dis dove bisogna cambiare auto per passare il controllo israeliano e entrare a Gerusalemme.
Per i più fortunati, che vogliono continuare ad usare la strada riaperta nel 1967, i dieci minuti o il quarto d’ora di macchina che univano Gerusalemme a Betlemme possono anche diventare delle ore in una guerra logorante di nervi e di pazienza ad un doppio mahsum o punto di passaggio controllato da soldati capricciosamente comprensivi o dispettosi, gentili o ammusoniti, probabilmente non per umore personale ma per ordini che ricevono da menti pervertite che li comandano in una logica che ha solo del maniacale. Uno dei mahsum è posizionato nei pressi della Tomba di Rachele. L’altro sul punto più alto di Beit Jala dopo aver attraversato il tunnel che unisce il quartiere di Gilo all’entroterra palestinese. Tra gli autisti ci si passa la voce giorno per giorno e si decide dove tentare l’attraversamento. Più facile scendere dall’auto privata, mostrare un documento e attraversare a piedi per prendere un taxi.
Il risultato di questa follia? Per chi vuole recarsi a Gerusalemme si è tornati al 1949. Bisogna prendere la strada del deserto, del Wadi al-Nar, di Abu Dis dove bisogna cambiare auto per passare il controllo israeliano e entrare a Gerusalemme.
Per i più fortunati, che vogliono continuare ad usare la strada riaperta nel 1967, i dieci minuti o il quarto d’ora di macchina che univano Gerusalemme a Betlemme possono anche diventare delle ore in una guerra logorante di nervi e di pazienza ad un doppio mahsum o punto di passaggio controllato da soldati capricciosamente comprensivi o dispettosi, gentili o ammusoniti, probabilmente non per umore personale ma per ordini che ricevono da menti pervertite che li comandano in una logica che ha solo del maniacale. Uno dei mahsum è posizionato nei pressi della Tomba di Rachele. L’altro sul punto più alto di Beit Jala dopo aver attraversato il tunnel che unisce il quartiere di Gilo all’entroterra palestinese. Tra gli autisti ci si passa la voce giorno per giorno e si decide dove tentare l’attraversamento. Più facile scendere dall’auto privata, mostrare un documento e attraversare a piedi per prendere un taxi.
Ultimamente la situazione si è complicata ulteriormente con l’erezione del Muro della Vergogna sbandierato come una geniale decisione dello stratega Sharon, prima generale impulsivo e geniale (chi non lo è da queste parti?), poi deferito ad una commissione ad hoc che lo ha giudicato indegno di occupare posti di responsabilità pubblica, ora da anni capo di governo democraticamente scelto, Uomo di pace, Messia di una pacificazione da tutti sognata (ma sarà anche riconciliazione di popoli premessa di una pace duratura?). A giudicare dal Muro, bisogna rispondere di No!
Il "muro" serve a salvare vite umane, a garantire la sicurezza di Israele e quindi anche ad avvicinare la pace
A Betlemme, come intorno a Gerusalemme, il Muro prosegue un po’ capricciosamente, come l’umore dei soldati al mahsum. Sale montagne, fin sulla vetta (monumento/invenzione geniale di un artista eccentrico!), scende nelle valli attraversando uliveti e campi sventrati dai bulldozer, per bruscamente interrompersi per un buon tratto e poi proseguire, sempre secondo una logica impossibile da decifrare, cambiandosi in un reticolato opportunamente provvisto di sensori elettrici. L’impatto visivo è decisamente migliore, il risultato non credo che cambi molto.
Qualche giorno fa ne abbiamo fatto la prova. Fino a due anni fa, per visitare le rovine del monastero di epoca bizantina di Bir al-Qutt, ai piedi di Har Homa/ Abu Ghunneim, quella che per noi era la Collina di Santa Paola, si scendeva a Beit Sahur, e una volta superato il santuario del Campo dei Pastori, si prendeva il tratturo che raggiungeva Bir al-Qutt per poi ricongiungersi con la strada che saliva al vicino villaggio di Sur Baher. Il monastero costruito e abitato da monaci Georgiani nel V-VI secolo, come dimostrano le iscrizioni nei mosaici, era stato riportato alla luce dagli archeologi Francescani tra gli ulivi di un esteso uliveto premurosamente circondato da un muro di cinta provvisto di porta. Lascito generoso dei cristiani di Betlemme, le piante secolari producevano l’olio con il quale tenere accese le lampade che ardono nella Grotta della Natività.
Oggi, raggiungerlo è stata un’avventura. Giunti al Campo dei Pastori, il tratturo a noi noto cambiato in strada sommariamente asfaltata ad un certo punto cambiava direzione, inerpicandosi su una cima vicina e interrompendosi contro il Muro/Reticolato con sensori elettrici giù nella valle. L’uliveto di Bir el Qutt irrangiungibile restava isolato su in alto dominato alle spalle dalle case/bastioni del nuovo quartiere di Har Homa ancora in costruzione. Il Muro/Reticolato lo abbracciava a distanza isolandolo con una larga ansa che si incuneava nella valle. Bisognava tornare al mahsum di Betlemme, attraversare, e all’altezza del monastero di Mar Liyas prendere la strada Sur Baher-Gerusalemme del dopo armistizio del 1949, costeggiare i resti dell’acquedotto romano bizantino, come una volta…, con la sgradita sorpresa di trovarla interrotta questa volta non dal Muro/Reticolato, ma dai postumi dell’Intifada mai rimossi! Mucchi di sassi e di rifiuti con i quali gli strateghi dell’esercito israeliano avevano isolato tutti i villaggi palestinesi aggiungendo una nota di disprezzo ad una terra già desolata, stravolta e offesa dai bulldozer. Bisognava tornare indietro e prendere la nuova strada, appositamente aperta a nord del monastero di Mar Liyas sradicando altri ulivi e sventrando altre colline, che sbuca sulla strada principale subito dopo il monastero nei pressi delle rovine della chiesa della Madonna detta del Kathisma felicemente ritrovata proprio grazie a questi lavori! Siamo così riusciti a raggiungere Bir el-Qutt, ad attraversare il portone di ferro sfondato malo modo da un cingolato (resta intatto e chiuso il lucchetto!), e visitare le rovine fortunatamente in gran parte intatte tra gli ulivi.
Malgrado le difficoltà, c’è ancora chi sfida tutti i mahsum e gli umori neri o sereni dei soldati per recarsi alla Grotta della Natività che, solitaria, resta ancora l’unica vera ricchezza di Betlemme e dei suoi abitanti. Con la memoria del messaggio di pace che custodisce, quella Grotta resta l’unica vera risorsa di chi ancora spera un futuro più tranquillo in una terra da troppi anni dilaniata dall’odio che non sarà il Muro/Reticolato a cambiare in pace e serenità né per gli uni né per gli altri sui due lati di un confine assurdo che ricorda tanto la Cortina di Ferro tra le due Germanie per chi ha avuto il tempo di darvi un’occhiata.
Michele Piccirillo ofm
Non la ricorda affatto, se non a chi non conosce la storia. La cortina di ferro serviva a incarcerare popoli, la barriera difensiva a proteggere vite umane.
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Bibliografia
- B. Bagatti, Gli antichi edifici cristiani di Betlemme, in seguito agli scavi e restauri praticati dalla Custodia di Terra Santa (1948-51), Jerusalem 1952.
- R.W. Hamilton, The Church of the Nativity, Bethlehem. A Guide, Jerusalem 1947.
- W. Harvey, Structural Survey of the Church of the Nativity Bethlehem, Oxford 1935.
- L.H. Vincent - F.M. Abel, Bethléem, le Sanctuaire de la Nativité, Paris 1914.
- B. Amico, Trattato delle Piante et immagini de’ Sacri Edifizi di Terra Santa disegnate in Jerusalemme secondo le regole della prospettiva et vera misura della lor grandezza, Roma 1609, Firenze 1620.
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