La situazione israelo-palestinese
un dossier di Charta Minuta
Testata:
Data: 19/12/2005
Pagina: 1
Autore: Sergio Bianchi - Marco Zacchera
Titolo: da Charta Minuta
Da pagina 31 a pagina 39 il numero di dicembre della rivista CHARTA MINUTA diretta da Adolfo Urso pubblica l'articolo "La via araba allo Stato nazionale", dell'arabista Sergio Bianchi.

Lo riportiamo:

Le semplificazioni, per quanto eff i c a c i
sul piano della comunicazione, non aiutano
mai la comprensione delle dinamiche
politiche, specialmente di realtà così
difficili, variegate e complesse come
quella operanti nel mondo arabo-islamico.
Fra le semplificazioni che maggiormente
possono indurre in errore, vi
è l’idea che fra Occidente e mondo arabo,
o peggio ancora, fra cristianesimo
ed islam, sia in atto uno scontro di civiltà.
Se ci si fa carico della complessità
del mondo arabo-musulmano e delle
sue dinamiche interne, ci si rende conto
facilmente che le ragioni dell’attuale
confronto hanno radici differenti e sono
in larga parte interne ai processi di trasformazione
delle società
arabo-musulmane,
i cui effetti raggiungono
casa nostra solo in
virtù del sistema di interessi,
soprattutto economici,
tipico della globalizzazione.
Paradossalmente, vi è
una certa misura di etnocentrismo
masochista proprio nell’antimperialismo
della sinistra no-global,
che individua sempre nell’Occidente la
causa dei fattori di crisi, non vedendo la
realtà di un mondo arabo-musulmano in
crisi da almeno 500 anni, cioè da prima
che le potenze europee e gli americani
si trovassero invischiati nella palude
Medio-Orientale. Il medesimo ribaltamento
del rapporto causa-effetto emerg e
nelle tesi di quei neocon che, ipotizzando
uno scontro di civiltà, si allineano
paradossalmente alle tesi scritte nei documenti
di a l - Q a ’ i d a h, documenti che
all’orecchio degli arabisti suonano arcaici,
estranei, perfino linguisticamente
inadeguati al livello del dibattito politico
arabo attuale. La realtà è spesso più articolata
delle analisi: l’Occidente è ed è
stato certamente uno dei fattori del processo
di trasformazione di questa parte
del mondo ed in alcuni casi nella storia
ha favorito i processi di crescita civili ed
in altri, come nel caso del Mandato britannico
in Palestina, li ha decisamente
alterati e complicati. Ma resta solo uno
dei fattori di seconda battuta, la cui incidenza
varia in misura crescente con le
contraddizioni interne della società arab
o - m u s u l m a n a .
A guardarlo nell’insieme, quello del
mondo arabo-musulmano assomiglia
molto al processo storico che ha portato
l’Europa ad uscire
dalla logica imperiale
verso le singole nazioni
e poi da queste ai
raggruppamenti continentali,
come l’Unione
e u r o p e a .
Pur in condizioni economiche
e sociali
profondamente diff erenti,
dal crollo della ‘Sublime Porta’
turca ai giorni nostri, il mondo arabo
musulmano vive ancora la contraddizione
di Stati nazionali che non si sono
stabilizzati, non hanno trovato il proprio
baricentro ed il proprio equilibrio
relazionale, la propria leadership, la
propria legittimazione morale e culturale.
In qualche caso perfino la propria
legittimazione giuridica.
Già il termine nazione crea non pochi
problemi nella stessa lingua araba:
l’antico termine di d a w l a h rimanda a
concetti amministrativi che presuppongono
la comunità, la ‘ u m m a h ’, dietro
cui si cela il sogno imperiale della k h i -
l a f a h, il califfato, di cui solo i gihadisti
sognano la restaurazione, ed il più moderno
w a t a n non ha mai assunto la
stessa legittimità culturale di ‘n a z i o n e ’
in italiano. In arabo non c’è ancora un
termine vero, dotato della stessa carica
semantica che si associa all’italiano
‘n a z i o n e’. Forse perché non c’è mai
stata né una Caporetto, né un vero Ris
o rgimento, di cui la ‘n a h d a h’ araba di
inizio secolo è solo una pallida espressione
letteraria.
Ai suoi albori il nazionalismo arabo è
sostanzialmente un fenomeno culturale
estraneo alle masse arabe: i suoi ideologi
sono ‘Abd ar-Rahman al-Kawakibi
(1854 -1902), Rashid Rida (1865-
1935) e Najib Azuri (1873-1916)’. Nella
sua seconda fase, dopo la rivoluzione
dei ‘Giovani Tu r c h i ’ del luglio
1908, che ristabilì la costituzione del
1876 ed il processo di turchizzazione
dell’impero, il nazionalismo arabo diventa
antiturco e si radica nella società:
nascono i primi partiti politici, come il
‘Partito del Decentramento’ (1912) e
al-Futat, la ‘Società della Giovane Nazione
A r a b a ’ (fondata clandestinamente
a Parigi il 14 novembre 1909), che 6
anni dopo si unisce al gruppo al-‘Ahd,
costituito nel 1913 da ufficiali arabi
dell’esercito ottomano.
E ’ da questi movimenti transnazionali,
strutturati secondo il modello del partito
e delle società segrete, sull’esempio
del primo nazionalismo europeo, in
particolare la carboneria italiana, che
nascono i primi documenti politici indipendentisti,
come il ‘P rotocollo di
D a m a s c o’. Nel 1917-1918, dietro le
baionette del generale britannico A ll
e n b y, la cultura diventa storia nazionale,
con la caduta di Damasco e Beirut,
e la nascita della monarchia hashemita
di Siria, con Faysal, ed Iraq, con suo
fratello Abdallah, che poi, con l’accordo
Sykes-Picot del 1916, diverrà Re
della Transgiordania .
In Arabia Saudita, invece, il movimento
nazionale s’intreccia con l’ideologia
wahhabista di Ibn Sa’ud, che proclamava
il ritorno al puro islam (il cosiddetto
I s l a h) come mezzo per far ritornare
gli arabi al loro antico splendore;
mentre in Egitto, un paese che ha sempre
mantenuto un profilo autonomo
nelle scenario arabo-islamico (dalla nascita
dell’impero sciita fatimide fino al
pashalato indipendentista di Muhammad‘
Ali), il nazionalismo nasce con i
Fratelli Mussulmani e diventa radicalmente
panislamico.
In questo scorcio di storia emerge già
la prima aporia di questo percorso arabo
verso la nazione: da un lato vengono
poste le basi di Stati nazionali come
l’Arabia Saudita, l’Iraq, la Siria, il Libano,
la Giordania o l’Egitto. Dall’altro
però, paradossalmente, gli stessi movimenti
politici che contribuiscono alla
nascita dei vari Stati arabi, che da allora
sono rimasti più o meno nei medesimi
confini (se si tralascia la questione
sionista), li privano della necessaria legittimità
morale, storica e culturale. Lo
stesso partito a l - I s t i q l a l, fondato dagli
uomini di Re Faysal, che nel 1919 governava
ancora la Siria, continuarono a
d i ffondere nelle assemblee arabo-siriane
degli anni 20-30, piattaforme panarabiste,
basate sull’idea del Bilad ash-
S h a m, della Grande Siria, o della ‘U m -
mah A r a b i y y a h ’, la Grande Comunità
Araba. La Palestina allora era per i nazionalisti
palestinesi solo ‘Suriyyah Ja -
n u b i y y a h ’, la Siria meridionale.
Nel caso dell’Arabia Saudita, la monarchia
traeva la propria legittimità dalla
custodia dei Luoghi Santi dell’Islam,
perciò con un collegamento territoriale
e ffettivo, ma avendo però il proprio baricentro
ideale sempre nell’unità islamica.
Ibn Sa’ud, come i Fratelli Musulmani
poi, sognavano la restaurazione
di un Califfato sunnita dall’Iran a Costantinopoli
fino a Marrakesh, liberato
dalle eresie del Sultanato turco e dei
modernismi panarabi, giudicati corrotti
ed estranei alla cultura musulmana. La
rivoluzione di Khomeini in Iraq non è
che una variante shi’itizzata di questo
nazionalismo religioso, che pur trovando
basi territoriali (l’antica tradizione
mahdista dell’Iran duodecimano) ed
economiche (il santo petrolio, donato
da Allah ai giusti) non riesce a trovare
legittimazioni nazionali a fondamento
dello Stato. Paradossalmente la matrice
religiosa di queste entità statali, come
nell’Afghanistan dei Taliban, crea un
messianesimo politico che tende a trasformarsi
sempre in imperialismo e
viene abilmente sfruttato dai potenti di
turno, siano essi i pakistani, gli americani
o, qualche tempo fa, gli europei.
Anche la terza fase della ‘rivoluzione
araba’, la t h a w r a h, non è che una variante
del panarabismo tradizionale: è
quella contrassegnata negli anni ‘50
dall’espansione del socialismo e dall’influenza
sovietica in Medio-Oriente,
dietro i cui manifesti ideologici hanno
cercato di ancorarsi i regimi ba’athisti
e panarabi, dall’Iraq, alla Libia, all’Algeria.
Il panarabismo socialista, con i
suoi esperimenti di fusione nazionale e
le sue frustanti avventure militari, ha il
suo picco nell’Egitto di Nasir e la sua
conclusione nell’avventura di Saddam
Hussayn in Kuwait. Il socialismo terzomondista
arabo, per molti aspetti in
contrasto con i nazionalismi panislamici,
non è in realtà che una variante del
panarabismo storico, dove l’internazionalismo
socialista non riesce a fornire
legittimità statale mentre fornisce copiosamente
l’alibi culturale, nella sua
dimensione sopranazionale, per processi
espansivi e di occupazione che si
associano alle elites militari dominanti
ed alle pressioni delle potenze straniere:
è il caso degli Stati Uniti nella guerra
Iraq-Iran .
Confrontando la via araba alla nazione
con quella europea emergono alcune
d ifferenze significative, che ci danno
ragione delle attuali difficoltà del processo
storico arabo-musulmano e ci
aiutano a capire l’impasse in cui versano
le leaderships arabe: 1) Innanzitutto la formazione ed il consolidamento
degli Stati nazionali avviene
a seguito del lavoro politico di
ristrette elites. Manca cioè una vera e
propria dimensione popolare, soprattutto
manca la presenza di una borg h esia
imprenditoriale diffusa, raccolta attorno
ad istanze territoriali. Nessuna rivoluzione
araba è mai stata fatta dagli
studenti, dalla piazza, dai lavoratori. A l
posto di queste forze dal basso emergono
due forze sociali predominanti: i
ceti militari e la nobiltà territoriale, soprattutto
in forma di ‘A s h i r a h ’, la tradizionale
famiglia strutturata in clan.
Tutti i vari regimi arabi del ‘900 sono
emersi con colpi di Stato militari o con
accordi internazionali a favore delle
grandi famiglie reali.
Mancando la base popolare, la ‘n a h -
d a h’araba viene monopolizzata da minoranze,
come i cristiani in Libano, Siria
e Giordania, che furono l’anima del
movimento nazionale antiturco e panarabo.
Basti dire che l’alfabetizzazione
nella Palestina sotto protettorato inglese
era del 14% fra i musulmani, del
58% fra i cristiani e dell’87% fra gli
ebrei. Nel primo congresso arabo di
Parigi (1913), sui 23 delegati 11 erano
cristiani ed uno perfino ebreo. La maggior
parte dei quotidiani nazionalisti
arabi, fino al 1948, avevano fra i propri
animatori e finanziatori proprio i cris
t i a n i .
In altri casi minoranze religiose come
gli ‘alawiti’ di Siria si sono impossessati
del partito Ba’ath facendo perno
sulla propria base religiosa e sulla coesione
del gruppo, al pari dei drusi e degli
shi’iti in Libano. Una situazione
non differente caratterizza l’Iraq attuale,
dove due gruppi minoritari del
mondo arabo, i Curdi e gli Shi’iti, rappresentano
l’ossatura della neo-nata
Repubblica.
La logica della ‘ a s h i r a h ’, del notabilato
familiare locale, sta invece dietro
l’ascesa sia delle monarchie che delle
dittature militari, come quella irakena o libica: basandosi sulla forza di controllo
dei clan, le elites, soprattutto
quelle militari, hanno potuto mantenere
il potere senza disporre di reale appoggio
popolare.
Tutto ciò non è rimasto senza conseguenze,
poiché gli Stati arabi fino ad
oggi non hanno mai avuto una vera legittimità
popolare, né avuto a disposizione
una solida base morale su cui
fondare la prassi. La gestione del potere
si è sempre basata su sistemi antidemocratici,
che richiedevano fra l’altro
l’individuazione di nemici esterni per
ottenere quella legittimità che mancava
allo Stato. Israele e l’Occidente sono
stati perfetti, anche perché non hanno
mai mancato di fornire agli arabi valide
ragioni di contenzioso.
2) In secondo luogo gli Stati arabi non
hanno mai avuto una vera identificazione
fra territorio e nazione. I confini
nazionali, che sono comunque relativamente
recenti, continuano ad essere
vissuti come artificiali dalla popolazione
e vi sono gruppi, non solo beduini,
che si spostano con una certa facilità
da un paese all’altro o che posseggono
terre e beni in paesi diversi da quelli di
residenza in una misura assolutamente
sconosciuta in Europa. Inoltre, pur esistendo
lingue ‘nazionali’, come il palestinese,
l’egiziano, l’irakeno, il tunisino,
etc., che sono profondamente diff erenti
dall’arabo classico, esse non hanno
mai avuto un rango di lingua nazionale
neppure a livello locale, come invece
è avvenuto per l’h e b re w n e l l o
Stato di Israele. Anzi, nella stragrande
maggioranza dei casi non hanno neppure
grammatiche codificate e non sono
scrivibili. E’ paradossale constatare
come il fenomeno della diglossia linguistica
fra lingua araba f u s h a, classica,
che pochi utilizzano ma che resta la
lingua ufficiale nella forma di arabo
standard, ed ‘ a m m i y y a h ’, dialetto, che
tutti parlano, sia parallelo a quello della
diglossia politica, per cui si vive in
uno Stato nazionale reale delegittimato sentendosi però parte di un’entità politica
sopranazionale inesistente ma a
cui va la propria adesione.
Non solo lingua e suolo non sono divenuti
fattori di coesione nazionale, ma
anche la stessa popolazione degli Stati
nazionali si è ritrovata fra due polarità
aggreganti: da un lato il gruppo familiare,
vero fattore di coesione territoriale,
e dall’altro l’appartenenza tribale.
Pochi sanno che, per esempio, la Palestina
per quasi mille anni è stata teatro
di scontri violenti fra le tribù dei qaysiti
e degli yamaniti e che uno dei motivi
principali per il cui movimento nazionalista
palestinese è stato sconfitto negli
anni 30 e 40 dal nascente sionismo,
è stato lo scontro sotterraneo fra le
tribù palestinesi degli Husayni e dei
Nashashibi. Vi sono nella storia araba
interi movimenti politici che non hanno
senso al di fuori di questa cornice
tribale.
La nazione, come codice identitario, ha
nella cultura araba una capacità attrattiva
ancora bassa rispetto al clan, da un
lato, ed all’arabità (‘ u ru b i y y a h ’), dall’altro,
anche se movimenti chiaramente
nazionalisti come quelli cristianomaroniti
in Libano o al-Fatah in Palestina
stanno gradualmente modificando
il panorama.
3) Il terzo elemento è il rapporto distorto
fra Stato e religione: mentre infatti
le nazioni europee e gli Stati Uniti
nascono e si consolidano nella separazione
fra la sfera politica, civile, e
quella della Chiesa, religiosa, assumendo
pertanto una dimensione nazionale
inclusiva, che integra nella propria
sfera di legittimità statale tutti i cittadini,
nel mondo arabo le leadership statali
non sono quasi mai riusciti ad operare
una separazione fra s h a r i ’ a h e legge
dello Stato. Quasi tutti gli Stati arabi,
con pochissime eccezioni (ed anche
queste più formali che reali), applicano
norme della legge religiosa nell’ambito
dei diritti individuali e del diritto familiare
e ciò impedisce, per esempio, alle minoranze non musulmane, come gli
d h i m m i (ebrei e cristiani), di essere integrati
a pieno diritto in una società a
base musulmana. Questo, per continuare
l’esempio, è il dramma dei cristiani
di Terrasanta, che sono tendenzialmente
anti sionisti ma a cui la radicalizzazione
religiosa dello scontro impedisce
di schierarsi dalla parte dei palestinesi,
che li opprimono e discriminano,
fino a costringerli all’esilio (oggi
i cristiani in Palestina sono meno
dell’1% della popolazione). Analogo è
il caso degli arabi drusi, che sono apertamente
schierati dalla parte di Israele,
nelle cui file militari servono. L’unica eccezione in Medio Oriente
(se si esclude la fondazione dello Stato
di Israele) a questo processo storico
nell’ambito musulmano è la Tu r c h i a :
uno Stato che dopo la caduta dell’Impero
si è consolidato nel proprio territorio,
dove la propria etnia si era insediata
mille anni prima, con una propria lingua e, soprattutto, con una rigida divisione
fra legge positiva e legge religiosa
e dove il ceto militare ha saputo
integrarsi con una borghesia urbana
sempre in crescita, con l’uso del modello
politico democratico adattato alle
condizioni locali.
In una situazione di sostanziale delegittimazione
degli Stati arabi, di crisi del
panarabismo e delle ideologie su cui si
è via via sorretto; in un contesto di
spregiudicato uso strumentale del panislamismo
come mezzo di pressione e
destabilizzazione di alcuni regimi in
profonda crisi, ma che sta portando le
classi dirigenti arabe verso un vicolo
cieco, quello turco è un modello da seguire
con attenzione. E’ su questo processo
di crescita nazionale che occorre
puntare per stabilizzare il Medio
Oriente.
Forse anche per questo l’Europa deve
avere il coraggio di accelerare sull’all
a rgamento alla Turchia, superando dibattiti
che sono troppo pervasi dalla logica
strisciante dello scontro di civiltà.
Da pagina 28 a pagina 30 Marco Zacchera intervista Ilazhar Coen, consigliere all’Ambasciata israeliana a Roma sull'ipotesi di ingresso di Israele nell'Unione Europea.

Ecco l'articolo, "Israele non ha necessità di entrare nell’Ue":

Il ministro Ilazhar Coen, consigliere all’Ambasciata
israeliana a Roma, ha
una lunga esperienza europea ed è
quindi la persona più adatta per fotografare
come gli israeliani vivano oggi
i rapporti con l’Ue e se sia ipotizzabile,
in un prossimo futuro, che Israele aderisca
in qualche modo alla stessa Unione
europea.
M i n i s t ro, qual è il grado di conoscenza
che gli israeliani hanno della vita poli -
tica euro p e a ?
"Il pubblico israeliano conosce da vicino
l’Europa: molti cittadini israeliani
sono nati in Europa o rappresentano la
seconda o terza generazione di persone
nate in Europa, e la
breve distanza tra
Israele e il Ve c c h i o
Continente consente
dei contatti quotidiani
tra le società civili dei
due Paesi. Per la maggior
parte degli israeliani
l’Europa costituisce
la principale meta
turistica. Ma al di là di questo uomini
d ’ a ffari, ricercatori e accademici intrattengono
relazioni costanti con i loro
colleghi europei nell’ambito della loro
occupazione professionale. Un terzo
del commercio estero israeliano è svolto
con l’Europa e Israele partecipa pienamente
a tutti i vari programmi europei
di ricerca e sviluppo, prendendo
parte al processo di Partenariato Euro-
Mediterraneo.
Vi sono però anche molti che non partecipano
attivamente al dialogo e alla
cooperazione tra Israele e l’Europa. In
assenza di fonti di informazione dirette,
l’atteggiamento di gran parte dell’opinione
pubblica israeliana nei confronti
dell’Europa si forma così in base
alle nozioni di storia recente del popolo ebraico durante la Shoah, e in base alle
notizie, cui viene dato ampio rilievo
sulla stampa, di episodi di antisemitismo
nei confronti delle comunità ebraiche
europee.
La combinazione di questi due tipi di
atteggiamenti non giova molto, in parole
povere, all’immagine dell’Europa
agli occhi degli israeliani più estranei
alla politica estera.
L’opinione pubblica israeliana considera
e valuta poi i processi politici mediorientali
come qualcosa che tocca sul
vivo la stessa reale esistenza dello Stato
d’Israele, e per questo essa non mostra
molta simpatia nei confronti delle
posizioni europee riguardo al processo
di pace.
Molti sono convinti
che le posizioni dell’Europa
tendano a favore
dei palestinesi,
senza prendere in considerazione
le esigenze
di sicurezza della democrazia
israeliana.
Proprio negli giorni
scorsi è stata pubblicata la notizia, che
ha avuto un’enorme risonanza in Israele,
che l’Europa sta valutando la possibilità
di intraprendere un dialogo con il
braccio politico di Hamas, gruppo che
si trova già nella lista del terrorismo
dell’Ue. D’altronde, fino a oggi l’Europa
ha evitato di inserire nella propria lista
di organizzazioni terroristiche anche
gli Hezbollah, nonostante sia ormai
chiaro a tutti il ruolo negativo svolto da
questi ultimi nella ripresa del processo
di pace tra Israele e palestinesi, e nonostante
l’inspiegabile fatto che un partito
politico abbia a sua disposizione
12.000 missili! Su questi temi la distanza
tra le posizioni israeliane e quelle
europee è ancora grande, e questo
non contribuisce a formare l’immagine di un’Europa equidistante tra l’opinione
pubblica israeliana.
L’opinione prevalente in Israele è che
le motivazioni dell’Europa a tale riguardo
sono dettate da interessi economici,
in particolare per le fonti energ et
i c h e " .
Ma Israele è interessata ad una pro -
g ressiva integrazione con l’E u ro p a ?
"Siamo comunque molto interessati ad
ampliare e approfondire le nostre relazioni
con l’Europa: la vicinanza fisica,
la condivisione dei valori di democrazia,
libertà e di libero mercato sono solo
alcuni degli elementi che rendono
naturale il desiderio di vicinanza tra le
due parti. Da quando Israele firmò l’accordo
per la creazione di una zona di
commercio libera con il Mec (1975), la
cooperazione tra le due parti si è sempre
più estesa. Oggi esistono relazioni
commerciali e anche altri campi di
cooperazione: oltre al dialogo politico,
programmi scientifici, nel campo dei
trasporti e molti altri, nel contesto dell’accordo
di associazione firmato nel
1995.
Israele ha anche firmato con l’Ue un
Accordo Governativo di Procurement
(Gpa) e un accordo con cui diviene
parte del programma europeo di Ricerca
e Sviluppo.
Recentemente, nel 2004, Israele e la
Commissione europea hanno firmato
un piano d’azione per un ulteriore ampliamento
della cooperazione, nell’ambito
del programma europeo per le relazioni
con i nuovi vicini, in seguito all
’ a l l a rgamento europeo (Enp) che
comprende molti elementi e copre diversi
campi e settori: politico, economico,
industriale, doganale, scientifico,
tecnologico e turistico.
Per quanto riguarda l’adesione d’Israele
all’Unione europea, ritengo che
abbiamo a nostra disposizione una
gamma così vasta di opportunità e
possibilità da sfruttare senza la necessità,
allo stato attuale, di entrare a far
parte dell’Ue.
Un giusto e corretto sfruttamento degli
ambiti di cooperazione già esistenti, assieme
a un contenuto valido e concreto,
porterà le due parti a un grado di
collaborazione e vicinanza che solo per
poco non sarà identico alla piena adesione
all’Ue.
La questione dell’adesione di Israele
all’Ue non è mai stata peraltro sollevata
da esponenti ufficiali a Bruxelles, e
pertanto non si è mai reso necessario
per noi occuparcene. Comunque è
chiaro che anche un dibattito puramente
ipotetico sulla questione, a fianco dei
numerosi benefici che deriverebbero a
Israele da un processo simile, si pongono
questioni non semplici, come quella
legata all’identità ebraica dello Stato
d ’ I s r a e l e .
In ogni caso, non vi è dubbio che un
r a fforzamento e un miglioramento delle
relazioni tra Israele, Europa e altri esponenti
occidentali - come la Nato - conferiranno
a Israele un maggior potere
che gli permetterà di assumersi i rischi
legati al raggiungimento della pace con
i palestinesi e gli altri vicini arabi".
Come viene passata dai media, in
Israele, la crisi che oggi sembrano at -
t r a v e r s a re le istituzioni europee? Vi so -
no stati commenti ai re f e rendum in
Francia ed in Olanda?
"La partecipazione di Israele a vari forum
europei gode, ovviamente, di ampio
spazio sui mass media israeliani, e
le relazioni tra Israele ed Europa sono
oggetto di dibattiti in molti forum professionali.
Sempre più uomini d’aff a r i
israeliani, industriali e uomini del mondo
della tecnologia, sono coinvolti in
rapporti di lavoro e cooperazioni con
esponenti europei. Tutto questo, ovviamente,
emerge attraverso i mass media
e giunge al grande pubblico.
Tuttavia, a causa della comprensibile
sensibilità sul tema, la notizia isolata
di una profanazione di un cimitero
ebraico in una determinata città europea,
a sfondo antisemita, ottiene una
copertura mediatica, un’eco e un dibattito pubblico maggiori di quanto ne ottenga
qualsiasi altra attività congiunta
tra le società civili nei comuni campi
d ’ i n t e r e s s e .
I referendum svoltisi in Francia e
Olanda hanno avuto un’ampia copertura
mediatica in Israele, sia dal punto di
vista interno europeo, sia per l’influenza
di un’eventuale mancata ratifica
della Costituzione europea sulle relazioni
tra le parti. Con quest’animo e in
mancanza di conclusioni chiare da trarre
dai risultati dei referendum oltre che
dall’annullamento dei referendum programmati
in altri Paesi membri, anche
l’opinione pubblica israeliana è in attesa
di vedere quale sarà la sorte della
Costituzione europea, e in particolare
come ciò influirà sulle complesse relazioni
tra le due parti".
Da pagina 31 apagina 34 Sergio Bianchi intervista Yosef Ben Shlomo, ideologo del ovimento delle colonie.

Ecco il testo:

Kdumim è uno dei primi insediamenti
ebraici nel triangolo Tulkarem, Shechem,
Qalqilya, nel cuore della We s t
Bank araba. E’qui, fra i sicomori e gli
ulivi, fra casette bianche con i tetti rossi,
i giardini rasati e nugoli di bambini
giocosi che si ricorrono sulle stradine
bianche, che vive da quasi 30 anni Yosef
Ben Shlomo, un ebreo askhenazi di
75 anni, che è considerato l’ideologo
del movimento degli insediamenti.
E ’ l’ala destra del Likud, quella che
non crede allo scambio terra contro
pace. Intorno i villaggi arabi, con i cui
terreni coltivati la casetta di Ben Shlomo
confina. "Lo scriva - mi dice -
non abbiamo muri e difese. Solo tele -
c a m e re di contro l l o ",
e me le mostra con un
dito secco e lungo,
volgendo il viso verso
l’alto, con i lunghi capelli
bianchi scarmigliati
che non riescono
a stare dietro ai suoi
movimenti veloci. Segnato
nel fisico dalla
malattia, l’erede di Gershom Sholem
all’Università Ebraica di Gerusalemme
prima, e poi, docente di filosofia
ebraica alla Tel Aviv University, alle
cui lezioni si entrava solo con un numero
di prenotazione e dopo lunghe
attese, parla ancora con la forza e la
profondità del filosofo. Sa di appartenere
carne e sangue a questa terra a
cui deve la vita: "Mio padre era un
chassid antisionista. Venne in Israele
illegalmente nel 1932 e, grazie al -
l’aiuto di una Rotschild, riuscì ad en -
t r a re nelle quote di emigrazione. Non
c redeva nello Stato ebraico ma si in -
namorò del clima e del paese. Fu solo
per questo che siamo stati gli unici
della nostra famiglia a salvarci dal -
l ’ o l o c a u s t o" P rof. Shlomo, di chi è la terra su cui è
c o s t ruita questa casa ?
"Di nessuno, non ho toccato la terra di
nessun arabo. Era del Governo giordano
prima della proclamazione dell’Indipendenza.
Poi, dopo la guerra, è finita
all’agenzia ebraica competente e chi
mi ha preceduto l’ha avuta in concessione
per edificare. Non c’era niente
qui prima, nessuno l’ha rivendicata. Ci
sono molte zone come queste in Israele,
sono un po’ come il Limbo. Non
creda che sia facile avere terreni qua,
come ovunque in Israele: siamo controllati
a vista, il Governo misura tutto
e gli arabi ricorrono sempre ai tribunali
dello Stato ebraico, dove spesso vincono
perché siamo un
paese di diritto".
Cosa significa "Stato
ebraico". Per noi ita -
liani suona strano: non
siamo abituati a defini -
re l’Italia uno Stato
cattolico e la Germania
uno Stato protestante.
"Il sionismo fin dall’inizio ha avuto
due tendenza una messianica, secondo
cui la costituzione dello Stato ebraico
era una tappa anticipata nella storia
delle redenzione ed una normalizzatrice,
che tendeva a considerare Israele
uno Stato come un altro, reso necessario
dagli eventi. Poi vi erano i rabbini,
la componente religiosa che, se si
escludono figure come Rabbi Kook,
erano fin dall’inizio addirittura su posizioni
anti stataliste, non volevano creare
uno Stato ma solo una comunità in
I s r a e l e .
Al di là della matrice storica, però, non
si può non vedere come quella di Israele
sia una situazione unica, per cui il
paragone che Lei fa con l’Italia non è
proponibile voi italiani, con Mazzini,
Garibaldi e Cavour, avete liberato il
vostro paese nel Risorgimento; cioè
avete fatto vostra una terra in cui già
eravate, dentro un universo linguistico
e culturale che era già vostro. Così sono
nate la maggior parte delle nazioni
europee. Perfino gli americani sono coloni
che si sono insediati in una nuova
terra, un posto dove prima non erano
mai. Per noi ebrei è molto diverso: fin
dall’inizio, dalla Bibbia, se vuole, Dio
ha detto ad Abramo ‘Vai in quel posto’.
Vai, insediati, non stare dove sei, vai in
un posto nuovo, una Terra Nuova.
Negli anni ‘20, prima e dopo l’Olocausto,
gli ebrei della diaspora hanno ripreso
questo moto antico tornando in
una terra dove erano sempre rimasti
come minoranza ma dalla quale la
maggioranza degli ebrei mancava da
oltre 1000 anni.
L’ebreo ha la sua identità in questa terra
verso cui ha sempre pregato, da millenni,
che dalla diaspora in poi ha sempre
considerato la sua casa, il suo sogno.
Se legge i Salmi sa cosa significa
Gerusalemme per noi. Lei che parla
arabo chieda ai palestinesi se prima
dell’arrivo degli ebrei consideravano la
Palestina la loro nazione? No, si sentivano
parte dell’impero turco o della Siria.
La nazione palestinese non esisteva,
siamo stati noi sionisti che, per contrasto,
abbiamo sviluppato il nazionalismo
palestinese.
Che ci piaccia o no l’ebreo ha la sua
identità nella storia religiosa del Popolo
di Dio. Ecco, lo spirito dei pionieri,
dei settlers, è parte del Giudaismo, che
poi si è fuso con la nazione. Noi siamo
l’unica religione che fin dall’inizio è
naturalmente e quasi fisicamente collegata
ad un popolo. Non c’è l’uno senza
l’altro.
A questo aggiunga la lingua, l’ebraico,
una lingua che gli ebrei della diaspora
hanno coltivato ovunque, ashkenazi o
safardi. Noi ebrei siamo riusciti a far rivivere
l’ebraico come lingua quotidiana
dello Stato ebraico, cosa che era ritenuta
da tutti i linguisti del tempo una
pura follia. Questo è stato possibile
perché gli ebrei hanno sempre pregato
in ebraico, sia che fossero italiani o
russi o marocchini. Questo è stato un
grande successo del sionismo, ma che
dimostra ancora l’importanza del legame
sostanziale fra giudaismo ed identità
ebraica.
E ’ dunque un fatto che Israele è uno
Stato ebraico prenda le festività, sono
tutte feste originariamente religiose, se
si esclude il giorno dell’indipendenza.
Potrebbe essere diversamente?
Vede, gli ebrei che per primi sono arrivati
in Israele, pur se istruiti, laureati,
professionisti nei loro paesi di origine,
qui hanno voluto fare gli agricoltori,
collegarsi alla terra, al suolo, dove hanno
le loro radici.
Giudaismo, lingua ebraica, terra e nazione
sono un tutto inscindibile per
Israele ed i coloni sono coloro che ne
incarnano lo spirito.
In Israele però vivono anche non ebre i ,
come i cristiani ed i musulmani, per ta -
c e re dei drusi e delle altre minoranze.
Se Israele è uno Stato ebraico che po -
sto c’è per i non ebre i ?
"Senta, si guardi intorno Israele, pur
essendo uno Stato ebraico, è anche l’unico
paese dell’area che garantisce a
tutti i cittadini, per legge, pari diritti e
pari dignità. Pur essendo la democrazia
un istituto storicamente estraneo alla
cultura tradizionale ebraica, Israele lo
ha fatto proprio e lo Stato ebraico è l’unico
soggetto veramente democratico
del Medio Oriente.
Siamo tanto democratici che quella che
per noi ebrei è la festa dell’indipendenza,
per gli arabi israeliani è un giorno
di lutto. Immagini cittadini israeliani,
che hanno la mia stessa Id, che considerano
la fondazione del ‘loro’Stato un
giorno di lutto. La verità è che loro non
si sentono parte dello Stato di Israele,
così come io mi sento più vicino ad un
ebreo americano, che ha passaporto
americano, che ad un arabo con carta
d’identità israeliana".
Mi scusi, prof. Shlomo, ma vi sono an -
che leggi dello Stato ebraico che di -
scriminano chi non è ebreo, come
quella sull’ ‘alyah’, per esempio, il di -
ritto al ritorno. Il figlio di una donna
e b rea russa, per esempio, dal momento
in cui sbarca in Israele ne diviene cit -
tadino. Lo stesso non vale per i non
e b rei. Le potrei raccontare molte storie
di donne russe cattoliche della Galilea
che hanno comperato i certificati di di -
scendenza solo per scappare dalla
Russia... Per non parlare poi dei rifu -
giati palestinesi.
"Lei ha ragione questa del diritto al ritorno
è l’unica vera discriminazione
dello Stato. Davanti alla corte suprema
ci sono stati casi eclatanti, uno sollevato
proprio da un missionario cattolico
di origine ebraica eppure la Corte ha
sempre rigettato queste istanze. Ma
d’altronde ci sono nei vari paesi arabi
oggi fra i 2 ed i 4 milioni di rifugiati
palestinesi, cacciati dalla loro terra di
origine o che se ne sono andati durante
le varie guerre, per forza o per scelta.
Moralmente avrebbero anche loro diritto
al ritorno, ma politicamente e praticamente
questo è impossibile. E poi
come stabilire chi sono i rifugiati oggi?
E ’ un po’come con la terra con la scusa
che non dispongono di documenti
storici, di attestati obiettivi, la terra
sembra essere sempre e solo la loro. Sa
quanti sono i finti rifugiati che si dichiarano
tali solo per avere le sovvenzioni
delle Nazioni Unite? Perciò anche
se la legge sul diritto al ritorno è
moralmente discutibile, essa è praticamente
utile".
Cosa rimprovera al Governo israe -
l i a n o ?
" Vede, io con il tempo sono sempre
più apolitico. In realtà alla mia età ho
poco da rimproverare e nulla da rivendicare,
anche perché nessuno mi può
più togliere il diritto di vivere dove voglio
nella Terra di Israele. Le dirò che
paradossalmente, se lo Stato dovesse
decidere di restituire anche questa casa,
questo insediamento, io continuerei
a vivere qui, se potessi, anche sotto un
governo palestinese, perché il mio diritto
e la mia libertà sono più grandi
dello Stato stesso. Mi faccia essere ancora
più paradossale se potesse servire
a salvare anche solo la vita di uno dei
nostri ragazzi di 18 anni dell’Idf, io regalerei
agli arabi anche il Muro Occidentale
(Ndr: Il Muro del Pianto, gli
unici resti attuali del Tempio di Salomone
a Gerusalemme). Non è questo il
punto la questione, quello che io rimprovero
al Governo, è che esso ha abdicato
alle ragioni morali che sottostanno
alla nascita dello Stato di Israele.
Lei crede che dando terra contro accordi
avremo la pace? Non si illuda
avremo solo un contratto, magari con
qualche firma di poco valore. Ma non
avremo un vero accordo di pace fino a
quando non sarà riconosciuto il nostro
diritto morale e non solo pratico (quello
ce lo siamo guadagnato con il sangue
e cinque guerre) all’esistenza dello
Stato ebraico. Non confonda questo
caso con gli Accordi di Camp David lì
si trattava di accordi fra due Stati,
Israele ed Egitto. Ognuno ha riconosciuto
l’altro. Tutti noi siamo stati a favore
della restituzione del Sinai.
Questo è un caso diverso se non c’è
questo diritto morale all’esistenza, se
c’è solo la politica, allora non solo la
mia casa è illegale, ma anche quelle di
tutti gli israeliani, anche tutta Israele è
un furto se i palestinesi non riconoscono
il diritto morale delle Stato di Israele
all’esistenza nella nostra terra. Forse
con gli anni sono diventato pessimista,
ma le confesso che temo che questa
posizione dello Stato ebraico ci porterà
in prospettiva verso una nuova
guerra, come Oslo ci ha portato all’Int
i f a d a h .
Si è fatto sera. Dai minareti dei vicini
paesi arabi si diffonde l’Adhan, il canto
del muezzin che richiama alla preghiera
‘Allah huwa al Akbar wa Muhammad rasul Allah’. In questa
parte del mondo terra e cielo sembrano
essere troppo vicini, al punto tale che
ogni pietra, ogni sasso, ogni angolo di
strada si carica di valori assoluti e in
sere come queste ti senti fortunato ad
essere un misero cattolico italiano, erede
di una Chiesa che ha investito sui
diritti naturali della persona senza aggettivi,
che ha scelto di dare a Cesare
quel che è di Cesare.
Sarà fatica anche per Sharon convincere
questi 200.000 settlers che rivendicano
il diritto morale di Israele a trovare
un accordo con palestinesi, per i
quali gli ebrei vanno comunque ricacciati
a mare.
Certo è però che mai prima d’ora
Israele aveva fatto scelte così coraggiose
e mai come ora era stata così vicino
alla pace, a discapito degli estremisti
dell’una e dell’altra parte".
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