In prima pagina e a pagina 52 del CORRIERE DELLA SERA di venerdì 16 dicembre 2005 Magdi Allam commenta le elezioni irachene, cui hanno partecipato anche i sunniti, nell'editoriale "La sconfitta dei "resistenti" ".
Come sempre Allam esce dai cori conformisti di chi confonde resistenza e terrorismo e di chi nega la realtà del processo di democratizzazione dell'Iraq e ci offre una riflessione caretterizzata dall'aderenza alla relatà dei fatti e dalla "chiarezza morale".
Ecco il testo:D'ora in poi non si dovrebbe più parlare di «resistenti», o della versione più edulcorata di «ribelli» o «guerriglieri», in Iraq. Perché sono gli stessi sedicenti «resistenti» ad avere innalzato la bandiera bianca e aderito al processo democratico tramite il baratto dell'impunità in cambio della deposizione delle armi. Armi in realtà spuntate visto che il 90 per cento degli attentati contro civili e militari, iracheni e stranieri, sono stati finora opera di Al Qaeda. È questo il principale risultato delle elezioni legislative in Iraq, qualunque sarà la composizione del prossimo Parlamento.
È un successo essenzialmente politico più che militare. Grazie alla forza irresistibile di un movimento democratico che, come una valanga che da cima dilaga a valle, ha spazzato via ogni opposizione.
Chi si ricorda più delle condanne di «tradimento» e di «apostasia» emesse lo scorso 30 gennaio, in occasione delle prime elezioni legislative libere, dagli ulema sunniti e dalla miriade di sigle che accomunano i militanti del passato regime tirannico di Saddam e gli islamici jihadisti del tagliagole Al Zarqawi? Alla fine di quella storica giornata ci furono 36 morti, tra cui 10 eroici poliziotti e 9 terroristi suicidi perlopiù stranieri. Ieri ci sono stati solo due civili uccisi e una decina di feriti. Un bilancio di vittime sostanzialmente identico a quello dello scorso 15 ottobre, quando si votò sulla nuova Costituzione, anche in quel caso con il boicottaggio di gran parte dei sunniti. Ed è stato proprio quest'esito a far comprendere ai sunniti e ai sedicenti «resistenti» che avevano perso la loro battaglia. Che l'unica alternativa era scendere dall'Aventino e uscire a mani alzate dai loro covi, per professare lealtà al nuovo corso democratico. Il 20 novembre scorso al Cairo gli sciiti e i curdi si sono prestati a un'operazione politica tesa a salvare la faccia ai sunniti. Riconoscendo formalmente l'esistenza di una «resistenza patriottica onesta» tra i sunniti, in cambio dell' impegno non solo a dissociarsi ma anche a contrastare con le armi il terrorismo islamico di Al Zarqawi.
Non bisogna illudersi. Gli attentati terroristici contro gli iracheni e gli stranieri continueranno. Semplicemente perché non erano i sedicenti «resistenti» a compierli. Ma è il successo politico del compattamento dell'insieme del fronte etnico-confessionale iracheno che riuscirà gradualmente a isolare e sconfiggere un terrorismo che è sempre più la lunga mano della diabolica strategia straniera di Al Zarqawi. I due morti di ieri dispiacciono. Ma siamo ben lontani dalle stragi con centinaia di vittime che hanno insanguinato l'Iraq negli ultimi due anni.
Se poi consideriamo che alle recenti elezioni legislative in Egitto i morti sono stati 11 e i feriti almeno un centinaio, tutto sommato l'Iraq ne esce fuori meglio. Se poi a ciò si aggiunge che i votanti in Iraq sono stati il 67 per cento degli elettori contro un misero 25 per cento in Egitto, ne emerge il netto scarto sul piano della maturità democratica a favore degli iracheni. In Iraq la sedicente «resistenza» si è rivelata un boomerang per chi ha immaginato di poter strumentalizzare la violenza, oltretutto quella messa in atto da terroristi suicidi arruolati all'estero, per destabilizzare il fronte interno e seppellire l'aspirazione popolare alla libertà. L'assassinio del leader sunnita Mozher al Dulaimi, presidente del «Partito progressista iracheno libero», il 13 dicembre a Ramadi, ha confermato come oramai il terrorismo si sta ritorcendo contro i suoi stessi burattinai.
Dopo averlo elevato al nobile rango di «resistenza» quando a morire erano i soldati della forza multinazionale seppur legittimata dall'Onu, si è cominciato a nutrire dei dubbi quando a essere presi di mira sono stati i militari e i poliziotti iracheni, fino all'orrore e allo sdegno quando si è colpito indiscriminatamente tra la popolazione civile sciita e curda. Oggi è arrivato il turno dei sunniti. Perché il terrorismo è una spirale avvelenata che non risparmia nessuno. Gli iracheni l'hanno capito sulla propria pelle. Ora speriamo che lo capiscano anche gli occidentali che, seduti comodamente sulle poltrone del salotto, continuano a idealizzare e esaltare la «resistenza» irachena.
Un altro editoriale che si segnala per il realismo e l'accuratezza dell'analisi e insieme per una chiara scelta di campo a favore della democrazia è quello di Vittorio Emanuele Parsi su AVVENIRE, "L'Iraq profondo continua a stupire"Una chiara vittoria e una giornata memorabile. Un altro importantissimo passo nella giusta direzione si è compiuto ieri in tutto l'Iraq. Una percentuale di cittadini superiore alle previsioni più ottimistiche si è recata alle urne, per esercitare il proprio diritto di voto ed eleggere i propri rappresentanti in un Parlamento destinato a restare in carica per i prossimi quattro anni. Cosa ancora più importante è che l'affluenza è stata significativamente elevata anche presso la minoranza sunnita, la quale aveva invece in larga parte boicottato la precedente consultazione (con la quale era stata insediata l'Assemblea costituente). Contrariamente a quanto avvenuto per il recente referendum costituzionale, questa volta i sunniti non si sono mobilitati per affossare il processo democratico, ma per prendervi parte e quindi rafforzarlo oggettivamente. Hanno cioè deciso di rivendicare i propri diritti e tutelare i propri interessi all'interno delle erigende istituzioni democratiche. Così facendo, la minoranza sunnita ha revocato quella funzione di rappresentanza virtuale (e sanguinosa) che i gruppi terroristici pretendevano di esercitare proprio nel suo nome. Ciò non significa certo che la violenza sia destinata a cessare d'incanto nel martoriato Paese, né che almeno una parte dei sunniti non continui a vedere in qaedisti e insorgenti i propri "paladini". Però contribuisce alla progressiva costruzione, e al consolidamento di quelle procedure e di quelle istituzioni che, sole, possono rendere praticabile la democrazia. Siamo ancora di fronte a un processo dall'esito non certo scontato, che richiede continuità nell'impegno sia da parte degli iracheni sia da parte della comunità internazionale. Come è stato proprio ieri sottolineato da autorevoli fonti vaticane, in questa fase resta determinante, per la sconfitta del terrorismo, la presenza delle truppe alleate. Ma sembra ragionevole affermare che il successo delle elezioni possa realisticamente contribuire a ravvicinare i te mpi in cui i contingenti militari stranieri presenti nel Paese potranno essere ritirati. Un tale passaggio appare non solo inevitabile ma necessario per poter togliere a terroristi e insorgenti qualunque credibilità nel tentativo di far apparire il proprio operato come "una difesa della nazione irachena (e araba) di fronte all'aggressione occidentale". E d'altronde un ritiro frettoloso o prematuro rischierebbe di concedere ai nemici della nuova democrazia irachena un vantaggio incolmabile e ingiustificato. Con il voto di ieri si direbbe che gli iracheni si stiano sempre più convincendo che devono e possono prendere nelle proprie mani il futuro del Paese, e che la via difficile e ardimentosa della democrazia rappresenta la sola strada effettivamente percorribile. Lo hanno fatto dimostrando in tutto questo lungo anno un coraggio da leoni e una determinazione che merita il più sincero rispetto. Un elemento ulteriore merita di essere infine sottolineato: l'appello lanciato a favore del voto sia da parte degli imam sunniti sia da parte di alcune formazioni della guerriglia. Si tratta di un segnale da non sottovalutare rispetto alla possibilità di trovare quella fuoriuscita politica rispetto alla questione dell'insorgenza sunnita, di cui sempre più si riconosce la necessità. Non avrebbe senso affermare che da oggi la pace civile e la concordia politica regnino in Iraq. Ma sicuramente da oggi tutti coloro che, dentro e fuori l'Iraq, scommettevano le chance del proprio successo politico sulla prospettiva della guerra civile generalizzata avranno vita più difficile.
L'editoriale del FOGLIO "La rivoluzione color porpora" sottolinea giustamente come il voto iracheno porti con sè la concreta possibilità di un contagio democratico esteso a tutta l'area mediorientale.
Altrettanto giustamente ricorda il ruolo svolto nella transizione dell'Iraq verso la democrazia dai soldati italiani "che a Nassiriyah proteggono in armi i seggi, in una situazione in cui i terroristi tirano colpi di mortaio sulle urne".
Un ruolo che, conclude l'editoriale , "torna a onore di tutto il nostro paese".
Ecco il testo:I minareti delle moschee sunnite di Ramadi, Fallujah e Baghdad hanno lanciato ieri appelli ritmati: "Recatevi nei seggi senza indugio, così potrete ristabilire la sicurezza e la stabilità nel vostro paese". Alta, altissima la percentuale dei votanti nella regione di Tikrit, patria di Saddam, segno inequivocabile che la "Coalition of willing" ha fatto egregiamente il suo lavoro. In Iraq anche i sunniti hanno accettato le regole del confronto e della democrazia, la scommessa dei terroristi è politicamente persa, non hanno più né ulema, né partiti sunniti a fiancheggiarli.
Quei minareti suonano a lutto nelle orecchie di tanti leader arabi e islamici che sul fallimento di queste elezioni avevano puntato molto. L’iraniano Ahmadinejad provoca e chiama al jihad contro Israele perché non può sopportare che l’espansione della sua rivoluzione fondamentalista sia ostacolata da una difficile ma solida democrazia alla sua frontiera occidentale. Il siriano Bashar el Assad lascia che i suoi servizi insanguino il Libano perché il suo regime non può tollerare il contagio di una democrazia alla sua frontiera meridionale. Il segretario della Lega araba, Amr Moussa, evoca scenari apocalittici fra il Tigri e l’Eufrate, perché su ventidue paesi che rappresenta, soltanto in Iraq le elezioni sono libere, e questo destabilizza persino la sua poltrona. Mubarak incarcera Nour e bastona gli oppositori, perché sa di non potersi permettere il lusso di una democrazia all’irachena.
Il presidente Talabani ha definito "rivoluzione color porpora" il miracolo di Baghdad che vota, la rivoluzione delle dita colorate che segnano un simbolo su una scheda, la rivoluzione perseguita con fermezza dai paesi che da due anni garantiscono agli iracheni tutta la sicurezza e la pace che possono. Di questa "rivoluzione color porpora" sono protagonisti anche i soldati italiani, che a Nassiriyah proteggono in armi i seggi, in una situazione in cui i terroristi tirano colpi di mortaio sulle urne. Questo torna a onore di tutto il nostro paese.
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