Lorenzo Cremonesi nelle pagine culturali del CORRIERE DELLA SERA recensisce il libro di Benny Morris "1948 " dando per scontato che l'esodo dei profughi palestinesi nella guerra del 48 sia stato provocato dall'Esercito israeliano.
Gli appelli dei capi arabi ai palestinesi affinché la sciassero le loro case sono documentati, e le tesi di Morris, va ricordato, sono lontane dall'essere l'ultima parola della storiografia sull'argomento.
Un storico come Ephraim Karsh, i cui lavori non sono mai stati tradotti in italiano, le ha contestate costringendo in più occasioni Morris ad ammettere errori e vere proprie forzature nell'uso delle fonti.
Cremonesi, inoltre, manifesta chiaramente la sua avversione per il mutamento di opinione politica di Morris "rientrato nei ranghi" del sionismo.
Meglio restare nei "ranghi dell'antisionismo" posizione che però, contro l'evidenza, è descritta come il campo dell'anticonformismo e dell'autonomia intellettuale.
Ecco il testo:Una tazza di caffè e alcuni tozzi di pane sparsi sul tavolo. Le case abbandonate d'improvviso, con i letti sfatti e i vestiti ancora riposti negli armadi. «Vedere questa città morta è una cosa spaventosa. Non ho potuto davvero fare a meno di pensare che questa era la stessa situazione di molte cittadine ebraiche in Europa durante la Seconda guerra mondiale», notava nell'aprile 1948, visitando i quartieri palestinesi di Haifa, una testimone d'eccezione quale era Golda Meir.
Benny Morris cita i resoconti della allora rappresentante dell'Agenzia Ebraica (e futura «donna di ferro» tra i primi ministri di Israele) sui luoghi dove stava avvenendo l'esodo arabo di fronte all'incalzare delle avanzate ebraiche. Lo storico indugia sulle considerazioni della Meir, che prendeva le distanze dalle correnti minoritarie della sinistra israeliana favorevoli al ritorno dei profughi palestinesi: «Io non sono una di quegli estremisti che vogliono fare di tutto per riportare indietro gli arabi. Dico che non sono disposta a prendere provvedimenti straordinari per riportarli indietro ». Parole e posizioni che sarebbero mutate ben presto. Perché già prima dell'inizio dell'estate, ancora prima che vaste masse di contadini palestinesi cercassero di infiltrarsi per mietere il grano dei loro campi appena abbandonati al nemico, il nuovo governo israeliano aveva deciso de facto di bloccare il ritorno di chiunque tra le centinaia di migliaia che erano fuggiti.
A partire dall'autunno 1947 avevano iniziato spontaneamente a lasciare le loro case gli esponenti delle classi arabe più benestanti: proprietari terrieri, avvocati, medici, farmacisti, professionisti. Tanto che al momento della fine del mandato britannico e della dichiarazione di indipendenza del nuovo Stato di Israele, il 15 maggio 1948, le masse palestinesi erano rimaste abbandonate a se stesse. La loro dirigenza intellettuale, politica e spesso anche religiosa le aveva sostanzialmente tradite, fuggendo a Beirut, a Damasco, o al Cairo, ancora prima che le tensioni scoppiassero in guerra guerreggiata. Poi seguirono gli abitanti delle città maggiori: Haifa, Jaffa, Tiberiade, Acco. Infine i contadini, i nuclei isolati nelle campagne. Così, nell'arco di circa un anno e mezzo, più o meno 700 mila palestinesi abbandonavano i territori dove era nato lo Stato ebraico.
Sorgeva allora la «questione palestinese». In sostanza, che fare delle masse che avevano lasciato le loro case? Un nodo centrale per le vicende che hanno caratterizzato la storia recente del Medio Oriente. Tanto importante, che ha ostacolato tutto l'iter dei negoziati di pace iniziati a Oslo e terminati con il fallimento di Camp David tra il 1993 e il 2000. E ancora oggi vede le due parti impegnate nella ricerca di un compromesso sul «diritto del ritorno» per i profughi (che ora con i loro discendenti superano i tre milioni) invocato sempre a gran voce dal mondo arabo.
Benny Morris ricostruisce la genesi del problema in questo libro fondamentale. Cercando di fornire una risposta alla domanda cruciale che sta al cuore della questione: i palestinesi furono espulsi con la violenza, come da sempre accusano loro, oppure se ne andarono di propria volontà, come invece afferma la letteratura storiografica sionista tradizionale?
La risposta dello storico israeliano si è arricchita e modificata con il cambiare dei tempi. La versione italiana del suo Esilio appena pubblicata da Rizzoli è infatti la seconda edizione riveduta e aggiornata della prima, che era stata pubblicata nel 1987 in lingua inglese dalla Cambridge University Press.
L'iter del libro ricalca in effetti l'iter intellettuale, politico e culturale del suo autore. Negli anni Ottanta Benny Morris si presentava come il paladino dei «nuovi storici israeliani». Giovani studiosi nati e cresciuti nel nuovo Stato, ma pronti a dissacrarne i miti fondatori a colpi di documenti e minuziose ricerche d'archivio. Addirittura veniva accusato dai suoi detrattori di far da puntello alle argomentazioni dell'Olp di Arafat. Oggi non più. Da alfiere dei militanti del movimento «Pace Adesso», da intellettuale organico della sinistra e persino punto di riferimento dei movimenti antisionisti, Benny Morris è ora «rientrato nei ranghi». Tant'è vero che nella nuova versione del libro appare addirittura giustificare l'espulsione delle masse palestinesi, sino a suggerire che, se i 160 mila arabi rimasti allora all'interno dei confini del nuovo Stato fossero stati cacciati, sarebbe stato molto meglio. Oggi Israele non si troverebbe a dover fronteggiare le tensioni sempre presenti con oltre un milione di cittadini arabi, che sono i discendenti di chi rimase. Parte delle oltre 300 pagine in più della nuova edizione si dilunga sul dibattito tra i dirigenti sionisti sin dai primi anni Trenta sull'opportunità del «transfer» all'estero dei palestinesi. «Fu un dibattito centrale, anche se prima del 1948 quasi nessuno lo riteneva realistico. Furono poi la guerra, le paure scatenate dall'Olocausto e il timore che gli arabi potessero replicarlo in Palestina, a renderlo attuale. Ma non fu mai un piano studiato a tavolino e messo in pratica. Piuttosto, l'espulsione degli arabi divenne una realtà con l'evoluzione delle operazioni militari sul campo. Quando i dirigenti ebrei nell'estate del 1948 videro che gli arabi scappavano in maggioranza di loro volontà, decisero pragmaticamente di incoraggiare l'esodo e bloccare il rientro a chi era già partito», spiega al Corriere della Sera
lo stesso autore.
Ma l'amore per il documento e il rigore dello storico non abbandonano mai Benny Morris. Neppure quando si tratta di rivelare i massacri, le violenze, i furti e persino gli stupri contro le ragazze compiuti dai militari ebrei. «Ho scoperto che le crudeltà compiute dai nostri soldati furono molto più gravi e numerose di quanto pensassi. E le ho raccontate». Un quadro più ampio lo fornirà nel nuovo libro che sta scrivendo sulla storia degli eventi bellici del 1948.
A pagina 9 troviamo l'articolo di Francesca Battistini "Dopo Croce rossa e Mezzaluna è il Cristallo il nuovo simbolo" che riportiamo:GERUSALEMME — C'era già il Palazzo di Vetro dell'Onu. Adesso c'è anche quello del Cristallo. In alto i calici, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa dicono sì al nuovo simbolo ginevrino, il laico rombo (ovviamente rosso) che dovrebbe somigliare a un cristallo senza connotazioni cristiane o islamiche, e fanno cadere un altro muro: l'esclusione d'Israele.
Grazie al nuovo logo, anzi dentro, avrà d'ora in avanti diritto d'asilo anche il Magen David Adom, la Stella rossa di David che campeggia sulle ambulanze israeliane. Un altro passo verso la distensione: un medico di Tel Aviv potrà forse andare a soccorrere feriti in Cisgiordania, tutelato dall'anonimo rombo, senza rischiare il linciaggio; i suoi colleghi della Mezzaluna palestinese potranno forse attraversare i valichi senza perdere tempo prezioso nei controlli.
Israele non ha mai fermato le ambulanze palestinesi perché il loro simbolo era la mezzaluna rossa, ma perché in varie occasioni sono servite al trasporto di armi, terroristi e persino attentatori suicidi. Dunque per difesa, non per intolleranza.
Quella del CORRIERE è dunque una grave distorsione dei fatti.Il cristallo, scelto fra quaranta bozzetti, è passato per varie ragioni. Ci sono voluti sei anni di trattative, un difficile negoziato di tre giorni con la Siria che aveva chiesto in cambio il libero accesso alle Alture del Golan controllate dagli israeliani. Infine il voto: 98 sì, 27 no, 10 astenuti, 57 assenti. Il cristallo, scelto fra una quarantina di bozzetti, è passato anche perché in inglese e francese porta le stesse iniziali di croce (croix, cross) e di mezzaluna (croissant, crescent). A spingere per il restyling, la Svizzera e la potente American Red Cross che, dal 2000, si rifiutava di versare l'annuale contributo di 5 milioni di dollari. A opporsi i Paesi musulmani, in gran parte gli stessi che già nel 1949 avevano impedito l'ammissione della Stella di David nell'organizzazione che raggruppa 192 Paesi, 23 milioni di funzionari, 97 milioni di volontari. Non è l'unanimità, si dispiace la diplomazia elvetica, ma «Damasco ha preso in ostaggio la questione, cercando di buttarla in politica» (parole dell'ambasciatore Didier Pfirter).
«Un vero peccato che si sia andati ai voti, è un fallimento per tutti», dice il delegato siriano, Bashar Jaafari. «La cosa più importante è il risultato», è realista Noam Yifrach, rappresentante d'Israele.
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