Valerio Evangelisti è un autore di "romanzi di genere" (dalla fantascienza all'avventura) di buona fattura e di considerevole successo.
E' anche un militante di estrema sinistra, che ha per esempio scritto l'introduzione a un volume anonimo ("American nightmare") nel quale si sostiene che l'11 settembre sarebbe un complotto americano. Su internet è comparso un articolo con la sua firma nel quale, in accordo con gli islamisti che perseguitano il coraggioso giornalista, si accusa Magdi Allam di essere un copto convertito, un'ipocrita che si finge musulmano per combattere l'islam (l'accusa può far ricadere su chi la riceve una sentenza di morte).
IL RIFORMISTA del 7 dicembre 2005, piuttosto sconsideratamente a nostro avviso, senza alcuna avvertenza (tranne il titolo, forse) pubblica un testo nel quale Evangelisti immagina di dar voce a un terrorista islamico detenuto dagli americani.
Si tratta di una violenta requisitoria contro l'Occidente, l'America e Israele , piena zeppa di orrori americani inventati di sana pianta e di giustificazioni degli orrori veri del terrorismo.
Di seguito, il testo: Io, Rachid, nato in Palestina
e vissuto in Siria, giuro
che mai e poi mai rinnegherò
il santo nome di Allah.
Sono venuto in Afghanistan
come ero stato in Cecenia,
per difendere l’Islam
dai nuovi crociati che cercano
di distruggerlo.
Mi sono battuto
con onore e mi sono
arreso solo
quando il nostro
comandante mi ha
detto di farlo. Gli
americani potranno
cercare di umiliarmi,
ma io conserverò
fino all’ultimo la
mia dignità. E’ inutile che
adesso, col sacchetto ridicolo
che mi hanno messo in
testa e con le strisce di plastica
che mi feriscono i polsi,
tentino di piegare la mia
volontà. Un soldato di Allah
non si lascia spaventare
dal buio, né dall’obbligo di
tenere corpo e testa piegati
in avanti, né dalle percosse.
Resisterò, perché così comanda
il Misericordioso.
Resisterò anche sull’aereo
che mi sta per portare nella
terra di Satana. Sono ormai
due ore che siamo decollati.
Fatico molto a respirare.
Ma cosa conta la mia sofferenza?
Brucia ancora nella
mia mente il ricordo dei
fratelli sepolti vivi, a… Laggiù,
dietro il carcere. Quanti
erano? Cento? Duecento?
Alcuni imploravano
pietà, ma la maggior parte
di loro erano dignitosi.
Molti perdevano sangue
dalle ferite, e sapevano che
comunque non sarebbero
sopravvissuti
a lungo. I
vecchi sembravano
rassegnati,
però erano pochi.
L’età dei più era
all’incirca la mia:
vent’anni. Gridavano
ancora le loro
maledizioni, mentre i camion
coprivano con la sabbia
la fossa in cui erano distesi.
A tanti erano state
serrate le labbra con un cerotto,
ma non a tutti. Chi
non poteva pregare o gridare
lo faceva con gli occhi.
Non credo che i soldati
americani capissero parole
o sguardi. Osservavano indifferenti,
e lasciavano fare
ai loro servi afgani.
Tuta arancione. E’ in nome
di quei martiri che io,
Rachid, terrò duro. In fondo,
la ridicola tuta arancione
che mi hanno fatto indossare
prima di salire in
aereo mi torna comoda. Mi
ripara dal freddo. Mi dispiace
solo di non vedere i miei
fratelli in Allah, a causa del
cappuccio. Ce n’è uno che
urla, forse per una ferita.
Alcuni piangono, tuttavia
sono pochi. Io li comprendo,
è per via dell’età. Sono
poco più che bambini. Stare
curvi, stretti dalle cinghie e
con le ginocchia che urtano
la bocca, fa male. Ma cosa
conta, dopo tutto quello
che ha sopportato la nostra
gente? Il mio fratellino è
stato uno dei primi a essere
uccisi durante l’Intifada,
Aveva solo sette anni. Ecco,
è a lui, a Mohammed, che
dedico il mio sacrificio. A
lui e ad Allah, che sia benedetto.
Nessuno degli americani
parla la nostra lingua.
Imprecano nella loro, fatta
di sillabe rabbiose, Intuisco
che vogliono che stiamo zitti.
Forse è per via della voce
rauca di un adolescente.Dice
che ha bisogno di orinare.
Chissà se gli americani
lo capiscono. Magari la
scambiano per una minaccia.
Mi sembra di udire il
rumore di uno schiaffo. Il
mio bisogno è opposto: vorrei
bere. Da quante ore siamo
in volo? Direi due o tre.
Non ho idea di quanto disti
la terra di Satana. Allah lo
sa, ed è a Lui che mi affido.
Ora tutti abbiamo bisogno
di orinare. E’ passato tantissimo
tempo, e il freddo è
penetrato sotto la tuta. Le
proteste si fanno corali, ma
vengono soffocate dai colpi.
Gli americani si stanno
innervosendo, si direbbe. Io
so che è inutile pregarli:
non hanno cuore. In Afghanistan,
per colpire noi, hanno
fatto un’ecatombe. Inutile,
non hanno coscienza.
Io non li supplicherò mai,
nemmeno per pisciare. Che
Allah li maledica.
Le contrazioni della
vescica stanno diventando
dolorose.A un tratto sento
che l’orina mi cola tra le
gambe. Stringo ancora di
più le ginocchia, per non
darlo a vedere. Ciò che
non mi aspettavo era di cominciare a defecare. La
diarrea mi cola da dietro e
mi immerge nel bagnato.
Ciò che accade a me forse
sta succedendo a molti,
perché il fetore è orrendo.
Mi vergogno tantissimo.
Gli americani imprecano e
picchiano. Anch’io ricevo
un colpo dietro la nuca,
violentissimo. Ma il dolore
conta poco: è la vergogna
che mi ferisce.
Conati. Tutto mi aspettavo
salvo l’improvvisa puntura
sul braccio. Non ho
dubbi, è una siringa. Ma cosa
vogliono farmi? Tento di
tenermi fermo, perché l’infermiere,
se è un infermiere,
fa tremare l’ago. Sento,
in tanto freddo, il calore lieve
di un rivolo di sangue
che mi corre fino all’avambraccio,
e poi si dirama tra
le dita. Attorno, i più hanno
smesso di urlare. Si odono
invece colpi di tosse e conati
di vomito. In mezzo
ai piedi avverto lo scorrere
di liquami, certo l’orina
e le feci dei miei fratelli.
Anche il mio sedile
è tutto inzuppato. Iniziata
la diarrea, non sono
più riuscito a controllarla.
Esce ogni tanto, a
piccoli fiotti. Il dolore
allo stomaco
è così forte che
non lo avverto
nemmeno più. Un
sibilo sottile riesce
a sovrastare i rumori
gorgoglianti
che riempiono l’abitacolo.
Sembra
uno spray. D’improvviso
capisco: ci
stanno deodorando,
oppure disinfettando.
La nausea è peggio
della diarrea e del dolore;
ormai persino della vergogna.
Tento di trattenere
i conati, ma poi il sacchetto
che mi serra la testa mi si
riempie di vomito. Adesso
vorrei sollevarmi. Non ci
riesco più. Non riesco a fare
nulla, se non vomitare
con la gola in fiamme.
Percezione indistinta. Ho
una percezione molto indistinta
di ciò che mi circonda.
I suoni mi giungono attutiti.
Anche gli odori, ma è
che il vomito mi ha ricoperto
il naso. Per fortuna mi
scivola lentamente lungo il
collo, e libera piano il sacchetto.
Cerco di aggrapparmi
alle immagini forti della
mia vita, quelle che mi hanno dato la fede. Mio
nonno che stenta a credere
che gli israeliani abbiano
potuto davvero sradicargli
tutte le piante di ulivo. Mia
madre che si dispera davanti
alla nostra casa distrutta
dai bulldozer, con me avvinghiato
alle sue gonne. Il
cadaverino di Mohammed
portato a braccia dai vicini.
Evoco anche immagini di vendetta: le due torri
della ricchezza abbattute
a New York, e gli americani
che fanno esperienza di ciò
che noi subiamo ogni giorno.
Ma c’è poco da fare. Sono
visioni vacue, che si perdono
nel nulla e non suscitano
sentimenti. L’unica
realtà che mi rimane è la
nausea. Me la porto dietro
nell’incoscienza in cui sto
sprofondando.Tante punture…
credo. Non sono più
lucido… Siamo arrivati,
credo. Fa un caldo orribile.
Mi tolgono il sacchetto di
testa per mettermi degli occhiali
dalle lenti nere. Per
un attimo vedo i miei fratelli.
Tutti nudi come me (non
sapevo di essere nudo).
Tutti coperti di
vomito ed escrementi.
Rannicchiati
su se stessi come
scimmie. Forse ci
portano alla doccia…
Punture. Prima
che mi mettano gli
occhiali, vedo un uomo
che mi sembra enorme.
Con una siringa in mano.
Dopo… capisco… sempre
meno. Sono in ginocchio,
in un cortile rovente.
Adesso io sono lucido.
Stanno per farmi un’altra
puntura. Eccomi sveglio,
finalmente. Sto curvo
in una gabbia. Di
nuovo la diarrea. Le
sbarre sono roventi, sotto
il sole. Io… sono…
Rachid, nato in Palestina.
Io sono… da una settimana
mi impediscono
di … dormire… Rachid…
Ho deciso di mozzarmi
la lingua tra i denti e
di soffocarmi da solo… Allah
mi… Punture… Punture
e diarrea. Nella gabbia.
Rachid… dignità…
Rchd… dgn.
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