Necessari giudici specializzati nelle lotta al terrorismo
intervista a Stefano Dambruoso
Testata:
Data: 29/11/2005
Pagina: 8
Autore: Giuseppe Guastella
Titolo: "Troppe contraddizioni ci vogliono giudici specializzati"
Il CORRIERE DELLA SERA di martedì 29 novembre 2005 pubblica a pagina 8 un'intervista di Giuseppe Guastella a Setfano Dambruoso, il pm milanese che giudò le indagini che portarono all'arresto di Mohammed Daki, ora assolto .

Ecco il testo:

MILANO — L'assoluzione di Mohammed Daki, in attesa della motivazione della sentenza d'appello, può essere per ora interpretata in due modi: il marocchino è completamente innocente oppure i giudici hanno ritenuto che gli elementi portati dai pubblici ministeri non fossero sufficienti a supportare, fino a una condanna, l'accusa di terrorismo internazionale. Si tratta di una norma che, introdotta di recente nel codice penale con l'articolo 270 bis, secondo taluni è troppo generica e difficile da applicare. Dal Sudamerica, dove è impegnato in un lavoro — ma non vuole precisare di cosa si tratti — legato al suo incarico di esperto giuridico e di terrorismo internazionale presso la rappresentanza italiana alla sede Onu di Vienna, Stefano Dambruoso, il pm milanese che guidò le indagini che portarono all'arresto di Daki, ovviamente non condivide la sentenza.
Perché?
«Chiaramente ogni sentenza va rispettata. Andava rispettata quella del gup Forleo, che riteneva si trattasse di guerriglieri e non di terroristi, così come quella, diametralmente opposta, del gup di Brescia. A fronte degli stessi fatti, quindi, i vari giudici che se ne sono occupati hanno emesso sentenze diverse».
E non va bene?
«Ciò che voglio dire è che si ripropone il problema della trasformazione in verità processuale di fatti che la procura ha ritenuto penalmente rilevanti durante le indagini. Secondo noi si trattava di una cellula del terrorismo islamico che al Nord Italia fabbricava documenti falsi e raccoglieva reclute e fondi da mandare in Iraq per la guerra santa, la jihad. Vicende illecite che i giudici hanno ritenuto indizi gravi ponendole alla base delle ordinanze di custodia cautelare che sono state confermate fino in Cassazione. Quelle vicende non sono state messe in discussione da nessuna delle varie sentenze».
Cosa propone per evitare che sugli stessi fatti ci siano sentenze opposte?
«Per prima cosa, credo sia necessaria l'istituzione, ormai generalmente condivisa, di una procura nazionale antiterrorismo capace di coordinare l'azione di tutte le procure locali impegnate in questo tipo di indagini. Come interlocutore istituzionale di questa procura, molti sostengono la necessità della creazione di un giudice specializzato negli stessi termini. Così si assicurerebbe un'uniformità di sentenze, sia di condanna che di assoluzione».
Parla di giudici speciali?
«La nostra legge non consente giurisdizioni speciali. Ciò nonostante molti studiosi reclamano giudici che abbiamo una specializzazione tecnica in terrorismo internazionale».
Ma non si rischia di avere pesi e misure diverse tra i processi, per così dire normali, e quelli di terrorismo internazionale?
«Mi limito a ricordare che già oggi per gli indagati per terrorismo internazionale vige nel nostro ordinamento la stessa disciplina che vige per i mafiosi. Non si tratta di un doppio piano di valutazione, ma di strumenti diversi per tipologie di reato ritenute dal legislatore particolarmente gravi».
Daki ha ripetuto di essere stato interrogato senza un difensore da agenti americani nel suo ufficio in Procura. Lo stesso avrebbe raccontato un altro imputato.
«In Italia chiunque può esprimere le proprie opinioni. Quindi se Daki vuole può farlo liberamente».
Sta dicendo che non è vero?
«Le ricordo che abbiamo indagato Daki perché colto mentre dava ospitalità a Ciise il somalo su ordine dalla Siria del mullah Fouad. Questi fatti storici, che per la Procura di Milano erano la prova del supporto offerto a pericolosi jihadisti che dall'Italia volevano partire per l'Iraq, sono stati ammessi dallo stesso Daki. Da questi fatti Daki si è difeso avendo a disposizione, fin dal primo minuto della sua detenzione, un difensore e traduttori, peraltro pagati dallo Stato, per assicurargli le garanzie difensive riservate a tutti».
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