Riportiamo l'intervento di Anna Borioni al seminario romano del 24 novembre 2005 "La sinistra e Israele". Se in questi ultimi anni a sinistra si è mosso qualcosa è anche merito del suo impegno.
Ecco il testo dell'intervento:Intervengo come promotrice di Appuntamento a Gerusalemme, una delle entità organizzatrici di questo seminario insieme a Libertà Eguale, il quotidiano Il Riformista e all’Associazione Romana Amici d’Israele. E desidero ringraziare innanzitutto una serie di persone che si sono impegnate per la realizzazione di questo incontro e in particolare Dora Anticoli, Cesare Anticoli, Anita Friedman, Adriana Martinelli, Enrico Molinaro e Chiara Di Segni. Ma intervengo anche come convinta sostenitrice dei valori della sinistra democratica che, tuttavia, non si riconosce più da tempo nella linea praticata da gran parte di quest’area politica sulla questione israeliana.
In questi ultimi anni, con la seconda Intifada, si è disvelato sotto i nostri occhi un progetto di distruzione di una società democratica, quella israeliana, che si è avvalso prevalentemente di due armi: la propaganda ideologica e il terrorismo suicida. Eppure questo disegno di distruzione non è stato riconosciuto come tale da gran parte della sinistra. La base teorica di questo progetto è stata realizzata in occasione della Conferenza Mondiale contro il Razzismo promossa dalle Nazioni Unite a Durban, nel 2001. Da lì è partita una campagna per la delegittimazione dello Stato ebraico e, di conseguenza, per la legittimazione di una aggressione nei suoi confronti, che era destinata a registrare un’escalation senza precedenti. Non si è riflettuto a sufficienza sul fatto che tale conferenza, in cui Israele, unico fra gli Stati, è stato messo sul banco con accuse infamanti di apartheid, razzismo e genocidio, è stato un evento generato da ambienti progressisti e democratici, dalle organizzazioni paladine dei diritti umani e degli oppressi, da quegli ambienti, cioè, che la sinistra ritiene un suo naturale bacino di consenso. In quel consesso vi erano rappresentati decine di regimi totalitari e dittature sanguinarie che furono lasciati indisturbati, mentre vennero utilizzati, senza subire censura, i più beceri stereotipi antisemiti, incluso la diffusione da parte palestinese dell’infame libro dei Protocolli dei Savi di Sion. Eppure, se si levarono voci di protesta di progressisti, ebbero troppo toni bassi nell’assordante clima d’odio istaurato contro Israele.
Da parte sua la sinistra si rivelò incapace, o non volle valutare che l’atto di accusa contro Israele era parte di una strategia mirata, messa in atto fin dalle conferenze regionali preparatorie delle Nazioni Unite, una delle quali si tenne a Teheran. L’Iran escluse lo Stato ebraico dall’incontro preparatorio dell’area dei paesi asiatici e l’Onu non solo non obiettò, ma con tale premessa si avviò a realizzare la conferenza contro la discriminazione e il razzismo! L’Iran che oggi invoca a chiare lettere la cancellazione dello Stato d’Israele, ha avuto un ruolo preminente nell’influenzare gli esiti della Conferenza di Durban. Come si vede i conti, alla fine, tornano.
La delegittimazione morale d’Israele, partita da Durban, non sarebbe potuta avvenire se non avesse preso le mosse da un ambiente democratico. Da quell’ambiente, cioè, che nel lontano 1948 aveva appoggiato la costituzione del nuovo Stato dei kibbutz e della colonizzazione agricola del deserto, salutandola come un evento progressista e visto nel sionismo un movimento di liberazione ed emancipazione del popolo ebraico, unico nel novecento, a realizzare il sogno di uno Stato su basi socialdemocratiche. L’immagine della società israeliana lanciata a partire da quel consesso, di una società guerrafondaia, dominata dall’integralismo religioso e razzista, colonialista, avamposto dell’imperialismo americano, non avrebbe attecchito così bene nei media e nell’opinione pubblica europea (ricordate il sondaggio della Commissione Europea, in cui Israele era indicato come il maggior pericolo per la pace nel mondo?) se non si fosse basata su stereotipi già presenti nel mondo cosiddetto progressista e della sinistra. Questo mondo, a Durban, è stato chiamato a maledire la nascita di una sua creatura e settori di esso lo hanno fatto, barattando valori fondanti come il ripudio dell’antisemitismo, la condanna del terrorismo, il sostegno alla democrazia, in nome di una solidarietà acritica alla causa palestinese che non indagasse sui reali scopi di essa.
D’altro canto, la delegittimazione morale d’Israele, la costruzione di un’immagine odiosa della sua società, è stata la chiave che ha aperto le porte alle tesi giustificazioniste del terrorismo suicida. Contro un paese così agguerrito e compattamente reazionario, che non lasciava vie d’uscite ai palestinesi se l’atto finale di massima disperazione, non ci sarebbe stata più alcuna pietà, né alcuna concessione al diritto di difesa. Nel disegno propagandistico arabo-palestinese che accompagna la strategia del terrorismo suicida, Israele doveva diventare un mostro indifendibile, soprattutto da parte di quei settori di mondo dediti alla difesa dei diritti umani e dei popoli oppressi. E infatti, nessun corteo di sinistra, dei sindacati, dei pacifisti e dei no global, ha manifestato, anche solo semplice solidarietà umana alle vittime civile delle terribili stragi terroristiche che in questi ultimi anni hanno insanguinato Israele. Eppure, in cinque anni, le occasioni non sono mancate. Parliamo infatti, di 26.259 attentati avvenuti dal 2000 ad oggi, con 1.060 morti ammazzati, oltre il 75% civili, fatti esplodere negli autobus e nei bar o nei supermercati e di 6.089 feriti che stanno ancora soffrendo negli ospedali e nelle loro case. In compenso le proteste anti israeliane si sono moltiplicate, raggiungendo toni ed espressioni di tale veemenza, che hanno di gran lunga superato il legittimo dissenso politico.
In questo modo ampi settori della sinistra hanno potuto semplicemente ignorare il progetto di distruzione dello Stato ebraico, continuando ad attribuire alla volontà d’Israele la mancata nascita dello Stato palestinese. Ma così facendo la sinistra ha diseducato se stessa, a favore della costruzione di uno schema ideologico interpretativo del conflitto mediorientale che sembra rinunciare all’analisi della realtà, dando vita a una posizione pregiudiziale su Israele che lo colloca sempre dalla parte del torto. Dalla leadership palestinese non si è preteso in modo chiaro e inequivocabile la fine di ogni atto di terrorismo e della propaganda antisemita, mentre si è consentito che le giuste aspirazioni del popolo palestinese a un proprio Stato e a una vita dignitosa, continuassero a essere strumentalizzate dal folle disegno di eliminazione della nazione ebraica perseguito dal nazionalismo arabo e dal razzismo islamico.
Se questo seminario iniziò a essere concepito a seguito degli eventi di Durban, tuttavia solo ora è stato possibile realizzarlo perché la storia ha fatto piazza pulita dell’infame base teorica formulata in quella sede e spiazzato molte posizioni di sinistra che su quella teoria si erano consolidate. La morte di Arafat ha messo in evidenza ciò che gli israeliani dicevano da tempo e cioè del dispotismo, ambiguità e corruzione che caratterizzava il suo regime e che solo la sua uscita di scena avrebbe potuto aprire nuove prospettive di dialogo e di risanamento della società palestinese. La seconda Intifada, per ammissione degli stessi leader palestinesi, si è rivelata un vero disastro che ha immiserito a tutti i livelli la sua gente. Con lo smantellamento degli insediamenti a Gaza, l’immagine di Israele è oggi più vicina ad essere valutata per quello che realmente il paese è: una vivace democrazia, costretta a conquistarsi giorno dopo giorno il diritto alla sopravvivenza. Il terrorismo suicida ha oltrepassato le frontiere israeliane per mostrarsi anch’esso per quello che è: una megastrategia di attacco alla democrazia e alla libertà. Così sulla questione israeliana si è riaperta una finestra di dialogo a sinistra, e noi ci aspettiamo che oggi la riflessione faccia un passo avanti importante. Riconoscere il diritto all’esistenza d’Israele e a vivere in sicurezza non basta, perché questo è un diritto basilare per ogni nazione. Un diritto che il popolo israeliano si è comunque assicurato, non solo sacrificandosi per la sua difesa, ma soprattutto impegnandosi a fondo nella costruzione del proprio Stato, che oggi è in grado di offrire un notevole contributo allo sviluppo della scienza, della tecnologia, della cultura e della democrazia. Ed è quest’ultimo aspetto, più che la forza militare che, nonostante le cattive teorie, fa la differenza sostanziale con l’esperienza politica palestinese, la quale in 60 anni di lotta non è stata capace di produrre un risultato positivo duraturo per il suo popolo. Così oggi, anche lo slogan "Due popoli, due stati" non basta più, perché come dice il mio amico Adriano Mordenti, bisogna elevare l’obiettivo a "Due popoli, due democrazie" per aiutare i palestinesi a uscire dal tunnel del terrorismo.
Sono certa di interpretare il pensiero dei miei tanti compagni di "Appuntamento a Gerusalemme" che non è un qualcosa di formalizzato, ma un’iniziativa politica bipartisan nata nel 2002 in seno alla cosiddetta società civile come testimonianza di solidarietà diretta con Israele e contro il terrorismo, affermando che è giunto il momento di riconoscere che vi è stato nei riguardi dello Stato d’Israele, dei suoi leader, della sua gente, del suo esercito, un vero e proprio linciaggio morale che non è stato riservato a nessun altra nazione al mondo, neanche alle dittature più feroci. Linciaggio perpetrato grazie alla complicità di ampi settori della sinistra, con diverse responsabilità e livelli di coinvolgimento.
E’ necessario che la sinistra restituisca l’onore a Israele, perché è un atto di giustizia dovuto. Perché Israele è il centro spirituale, ideale e territoriale di tutto il popolo ebraico e merita rispetto. Perché deve essere chiaro al mondo che la sua esistenza non va più messa in discussione. Perché sarebbe un atto di onestà intellettuale da parte della sinistra che gioverebbe molto al rinnovamento dei valori democratici. Perché gli ebrei possano esprimere liberamente la propria identità nell’ambito della sinistra e partecipare ai cortei con le loro kippà e simboli senza timore di essere aggrediti. Perché gli attivisti della sinistra che, come me, sostengono le ragioni d’Israele, non si debbano più sentire isolati e discriminati.