Visto da sinistra : il convegno sul rapporto con Israele
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Testata:
Data: 25/11/2005
Pagina: 6
Autore: Riccardo Barenghi - Maurizio Matteuzzi - Castalda Musacchio - la redazione
Titolo: Dall'odio all'amore per il falco Sharon - La sinistra e Israele - Bertinotti insiste
LA STAMPA di venerdì 25 novembre 2005 pubblica a pagina 6 un articolo di Riccardo Barenghi, "Dall'odio all'amore per il falco Sharon" che ribalta la verità sulla revisione in atto a sinistra circa l'approccio al conflitto israelo-palestinese.
E' soprattutto Sharon, sostiene Barenghi, ad essere cambiato.
Lo stereotipo demonizzante che la sinistra gli aveva cucito addosso è ssotanzialemente corretto e viene riproposto nei dettagli, senza correggere le abituali distorsioni storiche. Senza informare sul reale svolgimento dei fatti, Barenghi elenca: la strage di Sabra e Chatila (che Sharon non previde e non seppe evitare, ma che non ordinò né tollerò) , quella di Qibya (frutto di un errore di valutazione circa la presenza di civili nelle case del villaggio) e la "passeggiata" sulla spianata delle moschee, "scintilla della seconda intifada"(un falso smentito dagli stessi palestinesi).

Barenghi ha lasciato IL MANIFESTO per LA STAMPA, ma il vizio della disinformazione non l'ha abbandonato.

Ecco il testo:

Dall’odio alla simpatia, in qualche caso addirittura all’amore. Il rapporto tra la sinistra italiana e Sharon viene da lontano, da quando l’attuale premier israeliano era un durissimo generale dell’esercito, che aveva combattuto tutte le guerre e veniva accusato di diverse stragi di civili, come quella nel villaggio di Qibya del 1953. Fino, naturalmente al 1982 di Sabra e Chatila, quando un campo profughi di palestinesi in Libano venne letteralmente raso al suolo dalle milizie falangiste «coperte» dall’esercito di Tel Aviv, il cui ministro della Difesa era appunto Sharon. E fino alla famosa o famigerata passeggiata sulla spianata delle moschee, considerata la scintilla della seconda Intifada, della reazione israeliana, del terrorismo palestinese, i kamikaze sugli autobus, la repressione, l’assedio al quartier generale di Arafat, la costruzione del Muro. Insomma, fino all’ultima, sanguinosa e non ancora finita guerra tra israeliani e palestinesi.
Qui Sharon è un falco, un reazionario, un fascista, un guerrafondaio, spesso anche un macellaio. Anche i settori della sinistra italiana più moderati e più attenti al rapporto con lo stato di Israele (e con la comunità ebraica in generale) non lo digeriscono, lo considerano un ostacolo alla pace, sperano ancora nei laburisti di Peres, sostengono sempre più tiepidamente Arafat considerando anche lui un ostacolo. Gli altri, quelli più radicali, più filo-palestinesi (tra i quali non ci sono solo Bertinotti, Diliberto, Pecoraro ma anche per esempio D’Alema), di Sharon non vogliono neanche sentir parlare: sono convinti che con lui non sia possibile discutere.
Nessuno si aspettava che nel giro di un paio d’anni, Sharon sarebbe diventato un’altra persona. Non più macellaio ma leader politico, interlocutore, uomo coraggioso, capace di scontrarsi con la sua ala più oltranzista, di costringere i coloni – anche con la forza – ad abbandonare Gaza. Capace, addirittura, di uscire dal suo partito storico, il Likud, per fondarne un altro, più di centro, meno estremista, subito ribattezzato il partito per la pace. Paradossi della storia e della politica, un guerrafondaio che fonda un partito per la pace, un nemico che diventa un compagno di strada. E’ cambiato Sharon, è cambiata la sinistra, sono cambiati tutti e due? La risposta giusta è la terza, anche se il cambiamento in percentuale più corposo è ovviamente quello di Sharon. Capaci però, i leader della sinistra italiana (non tutti ma molti), di coglierne il senso nel tempo giusto. Anche prima del ritiro estivo da Gaza.
Siamo nel marzo scorso a Venezia, Bertinotti conclude il congresso di Rifondazione comunista rivolgendosi a un ragazzo che poco prima aveva urlato il suo odio per Sharon. Così: «Tu gridi contro Sharon, ti prego di credere che lo saprei fare anch’io. Sabra e Chatila sono nella nostra memoria, potrei parlarvi di persone oggi notissime che, indignate contro Sabra e Chatila, uscirono dal Partito Comunista perché non sufficientemente capace di condannare Sharon. Se volete sapere il nome, si chiama Giuliano Ferrara. Questo per dire che io non mi sono dimenticato di chi è Sharon. Ma ti chiedo: tu dove stai? I leader palestinesi oggi negoziano con Sharon, trattano con Sharon (...). Tu sei qui, non rischi nulla, perché devi mettere soltanto il tuo urlo radicale contro Sharon dimenticandoti della fatica, della sofferenza e del disagio di chi, avendo vissuto tutta la vita contro quel muro e contro di lui, deve oggi trattare, perché la trattativa è l’unica strada possibile per costruire il popolo palestinese?».
Una prova di realismo politico non indifferente, se fatta dal leader della sinistra radicale nel congresso del suo partito, addirittura in anticipo sul ritiro da Gaza che avrebbe scatenato l’entusiasmo di molti altri (resistono i Comunisti di Diliberto e movimenti sparsi nella sinistra). Tanto entusiasmo che un dirigente dei Ds come Giuseppe Caldarola propose addirittura di assegnare il Nobel per la pace all’ex «macellaio». Da allora e fino a ieri, gli apprezzamenti per il nuovo Sharon si sono moltiplicati, e se lui vincerà le nuove elezioni, darà vita a un governo di centro-sinistra e continuerà sulla strada recentemente imboccata, si moltiplicheranno ancora. Tanto più se e quando l’Unione sarà al governo, e con Sharon dovrà avere un rapporto politico-istituzionale, da Stato a Stato. Chissà se allora avrà avuto ragione il filopalestinese D’Alema quando ha azzardato un pronostico: «Sharon può realmente proseguire il processo di pace iniziato da Rabin».
Piero Fassino, durante il convegno "La sinistra e Israele" accusa IL MANIFESTO di "aver sempre guardato a Israele e alla questione ebraica con forte pregiudizio", il quotidiano comunista, il 25 novembre 2005, affida la risposta a Maurizio Matteuzzi che , nell'articolo "Il pregiudizio di Piero", accusa il segretario dei DS di indegnità.
Inoltre riesce a definire "pasdaran" promotori e relatori del convegno romano, e con loro tutti coloro che difendono coerentemente le ragioni di Israele , a rivendicare l'"antisionismo" del giornale (cioè, se le parole hanno un senso, l'opposizione al diritto all'autodeterminazione degli ebrei e la negazione del diritto all'esistenza di Israele ) e a rivendicare il "post-giudizio" del giornale, assolutamente negativo, su tutti i governi israeliani dal 48 ad oggi con due eccezioni:Moshe Sharett e Ytzhak Rabin (evidentemente Matteuzzi non ricorda che cosa scriveva sul suo giornale Stefano Chiarini del governo Rabin e della natura truffaldina del processo di pace di Oslo).

A queste frasi che si commentano da sole, a una difesa che potrebbe servire da atto d'accusa, aggiungiamo soltanto alcuni dati di fatto.

IL MANIFESTO è un quotidiano che abitualmente definisce "likudnik" qualsiasi ebreo americano a vario titolo legato all'amministrazione Bush o alla sua politica mediorientale. Una chiara accusa di "doppia fedeltà" che, se fosse avanzata dall'estrema destra americana, ben pochi avrebebro difficoltà a definire "antisemita".
E' un quotidiano nel quale Stefano Chiarini ha scritto che le comunità ebraiche dell'Europa orientale fungevano da centrali di spionaggio anticomuniste a favore di Israele e dell'Occidente.
E' un quotidiano che ha guadagnato una citazione in una pubblicazione di indiscusso valore scientifico come la "Storia dell'antisemitismo" di Leon Poliakov per un articolo del 1967 di Luciana Castellina , che ancora collabora col giornale, nel quale la disponibilità di Israele a scambiare prigionieri con l'Egitto in proporzioni molto sfavorevoli veniva imputata al razzismo del giudaismo e del sionismo...

Nonostante questi, ed altri, fatti, IL MANIFESTO non è certo un quotidiano affetto da pregiudizi antiebraici.
A sinistra, o, meglio, nella sinistra "radicale", semplicememente non esiste il gene del razzismo.
Inutile dunque discutere dei fatti, citare prese di posizione, cecità, unilateralismi.
Anzi, "indecente". E sommamente fastidioso per "lorsignori"...

Ecco l'articolo:

Nella sua rincorsa di Israele, preso dall'ansia di togliere il monopolio della identificazione con lo Stato ebraico ai nuovi e bizzarri pasdaran tipo Berlusconi e Fini, abbagliato dalla svolta «pacifista» di Ariel Sharon, questa volta Piero Fassino l'ha sparata grossa accusando «una certa sinistra», e in specifico il manifesto, di aver «guardato sempre Israele e alla questione ebraica con forte pregiudizio». Grossa e grossolana. E' accaduto ieri a Roma in occasione di un incontro a Roma su «Sinistra e Israele». Affermazioni gravissime e infondate. Filo-palestinesi sì (e lo rivendichiamo), anti-sionisti anche (al fianco di molti ebrei e molti israeliani). Ma senza nessun «forte pregiudizio» su Israele - semmai con un forte post-giudizio politico sui governi che si sono succeduti alla guida di quello Stato dal `48 in poi (salvo due eccezioni durate poco e finite male: Moshe Sharett nel `53-'54 e Yitzhak Rabin nel `93-'95) e che si sono sempre caratterizzati, fossero di destra o di sinistra, per una politica di occupazione militare di terre palestinesi e per il rifiuto costante - e spesso venato di razzismo - di riconoscere ai palestinesi i loro diritti.
Però fin qui niente da dire: giudizi politici di Fassino a nostro avviso sbagliati, ma legittimi. Assolutamente inaccettabile, al di la della decenza, invece quando ci attribuisce «un forte pregiudizio» sulla «questione ebraica». Cosa vuol dire? L'Adnkronos ci ha aggiunto di suo un altro carico da 11: la «questione ebraica» di Fassino è diventata «anti-ebraismo» e il redattore Luca Rufino, di estrapolazione in estrapolazione, ha chiosato: «Una collocazione che è un tratto distintivo dell'identità di giornali come il manifesto e di circoli che in essa si riconoscono».

Quindi dalle posizioni contro la politica sionista dei governi israeliani, al «forte pregiudizio» contro Israele tout court, al «forte pregiudizio» sulla «questione ebraica», all'«anti-ebraismo» militante.

Indecente, anche solo dal punto di vista professionale, l'operazione del redattore Rufino. Ma indecente anche l'affermazione di Fassino.

Se le parole hanno un senso «questione ebraica» vuol dire la questione degli ebrei in generale, tanto che estrapolando estrapolando l'Adnkronos ha pensato di poterla tradurre poi in «anti-ebraismo». Questione ebraica uguale anti-ebraismo uguale anti-semitismo.

Il giorno prima, mercoledì, Fassino era stato più prudente. Impegnato a Milano nel lancio del manifesto della Sinistra per Israele, il segretario dei Ds, incoronato dallacronista dell'insospettabile Corriere della Sera come «un vero e proprio attivista della causa israeliana dentro la sinistra», si era impegnato a dare battaglia a quanti nella gauche non hanno ancora abbandonato «preconcetti e pregiudizi anti-israeliani e anti-sionisti». Ieri a Roma si è lasciato andare forse contagiato dal fatto di ritrovarsi al fianco della squadra al gran completo dei pasdaran filo-Israele - unico «esterno», Bertinotti -: il ds Ranieri, il socialista Landolfi, il radicale Pannella, il blairiano Polito, il sindacalista della Uil Angeletti, l'altro Ds Caldarola (che si è esibito in un'ardita relazione dal titolo che era un programma, «Sionismo è una bella parola» perché ha «combinato il fattore nazionale con quello religioso»: e il fattore coloniale testimoniato dalla presenza di 400 mila coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme est?).

Interpellato per telefono, il portavoce di Fassino, Roberto Cuillo, ha negato seccamente che il segretario Ds nel suo intervento avesse attribuito al manifesto «posizioni di anti-ebraismo», sostenendo anzi di avere chiesto una smentita all'agenzia. Interpellato per telefono il direttore dell'Adnkronos, Andrea Pucci, ci ha fatto sentire la registrazione. «...Per esempio nella sinistra c'è un quotidiano meritorio per tanti aspetti ma non per questo, come il manifesto, che si è sempre caratterizzato per essere l'espressione di quella sinistra che ha guardato sempre a Israele e alla questione ebraica con forte pregiudizio». Indecenti entrambi.
LIBERAZIONE affronta la cronaca del convegno romano con un lungo riassunto dell'intervento del segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, "Bertinotti insiste "due stati per due popoli".

In realtà, il leader comunista ripropone giudizi strici e politici insostenibili e parziali: per esempio quando lamenta che "ha un popolo si è dato uno Stato e un altro si è trovato privato della possibilità di costituirlo" dimenticando che a privare i palestinesi di questa possibilità è stato il rifiuto opposto dai loro dirigenti all'esistenza di Israele e la scelta di condurre e provocare querre di aggressione contro di esso.
Oppure quando ritiene sbagliato porre il problema della democrazia del futuro stato palestinese.
Senza capire che l'indipendenza nazionale non giova ai popoli che si ritrovano a vivere sotto una tirannia e può solo servire a preparare nuove guerre.

L'UNITA', in modo piuttosto sorprendente, dedica al convegno romano un breve articolo di una colonna "Fassino- Bertinotti su Israele la sinistra ha due anime", che riportiamo:

ROMA «In Medio Oriente non sono in conflitto un torto e una ragione, ma due ragioni: quella di Israele a vivere sicuro e quella Palestinese di veder riconosciuto il suo diritto ad avere una patria...Per una parte della sinistra c’è invece una ragione, quella palestinese, e un torto, quello israeliano». Piero Fassino, segretario dei Ds, non pecca certo di reticenza nel suo intervento a un dibattito su Israele, organizzato al palazzo dell’Informazione dell’Adn Kronos dall’associazione «Amici di Israele». Un confronto serrato tra le varie anime della sinistra è quello che si sviluppa nella tavola rotonda che vede come maggiori protagonisti Fassini e il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti. Il leader della Quercia sottolinea come alla formula «due popli, due Stati», vada aggiunta la postilla «democratici», spiega Fassino: «è una questione preioritaria. Si tratta di un tema che non può essere subordinato al relativismo culturale, a ragioni etniche o religiose. Io penso che la democrazia non si esporta con le armi, per questo sono contrario alla guerra in Iraq, ma serve una strategia per la democrazia e i diritti». Bertinotti lo interrompe: «se la dittatura è in uno Stato grande (la Cina, ndr.) il problema non si pone...». Fassino non ci sta: «per me è lo stesso, e penso che la questione non sia più eludibile. Democrazia e diritti devono essere riconosciuti in tutto il mondo». «Con lo Stato di Israele - insiste Bertinotti - si è creata uan simmetria, per cui a un popolo si è dato uno Stato e un altro si è trovato privato della possibilità di costruirlo». Queste osservazioni non piacciono a una parte del pubblico e il leader di Rifondazione replica così: «non nego l’emergere di pericolose pulsioni antisemite, ma quello che nego è che criticare le posizioni del governo di Israele sia antisemita».
Se L'UNITA' dedica poco spazio al convegno EUROPA, quotidiano della Margherita, lo ignora del tutto.

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