Chi erano davvero i caduti di Nassirya
due testimonianze rispondono agli insulti
Testata:
Data: 24/11/2005
Pagina: 11
Autore: Carmine Spadafora - Francesco Grignetti
Titolo: Mamma irachena contro il sindaco anti Nassirya
IL GIORNALE di mercoledì 23 novembre 2005 pubblica un'intervista a una donna irachena giunta nel nostro Paese per far curare la propria figlia di 5 anni, rimasta ustionata in séguito all’attentato dei terroristi islamici compiuto a Nassirya. Le sue dichiarazioni costituiscono la migliore risposta alle sconsiderate affermazioni del Sindaco di Marano sui caduti italiani in Iraq.

Ecco il testo:

- «Sono martiri quei ragazzi morti a Nassirya. Morti per noi iracheni. E, oggi, se in Irak comincia ad affiorare la democrazia, il merito è anche dei carabinieri e dei soldati italiani caduti il 12 novembre di due anni fa». Questo ringraziamento speciale è di Wegden Rikabi Abdel Razzak, 32 anni, madre di Hawra, 5 anni, rimasta ricoverata tre mesi nel Centro grandi ustionati dell'ospedale Cardarelli di Napoli. La bambina era rimasta vittima di un incidente il 21 agosto scorso, mentre stava giocando con i due fratellini di 7 e 9 anni nel cortile di casa, a Nassirya. Il più grande dei tre stava giocando con dei fiammiferi, vicino a una tanica piena di benzina: all'improvviso divamparono le fiamme, avvolgendo la piccola Hawra. La strada della salvezza per la bambina portò a Napoli: ieri è stata dimessa con la madre, che non l'ha mai lasciata un solo minuto, ed è partita per Pisa. Oggi un Falcon dell'esercito italiano la riporterà in patria. Hawra è guarita, anche se sul suo corpo sono ancora visibili i segni di quel terribile 21 agosto. Prima di lasciare Napoli, Wegden Rikabi Abdel Razzak, attraverso un interprete, l'algerino Abbes Nouddenie, ha voluto ringraziare gli italiani: l'esercito, i carabinieri, i medici e gli infermieri dell'ospedale Cardarelli. Ma ha voluto anche lanciare un messaggio al sindaco comunista di Marano, nel Napoletano, Mauro Bertini, da quattro giorni sommerso dalle polemiche per aver deciso di annullare l'intitolazione di una strada «Via Martiri di Nassirya» per dedicarne una a Yasser Arafat. Bertini, a parte la solidarietà del suo Pdci, sta incassando le critiche durissime di tutti gli schieramenti politici, ma soprattutto dei familiari dei ragazzi morti quel tragico 12 novembre 2003 a Nassirya.

Signora Wegden, il sindaco di Marano, Bertini, ha definito le vittime del 12 novembre 2003 «morti a pagamento»: cosa ne pensa?

«Non capisco e non condivido affatto l'iniziativa del sindaco di Marano di negare una strada ai 19 italiani morti a Nassirya. Lo sanno tutti in Irak che i carabinieri e i soldati italiani sono venuti nel nostro Paese per motivi umanitari, per portare la pace e la democrazia. Vogliamo bene e proviamo tanta riconoscenza per gli italiani. Anche i bambini sono riconoscenti a voi italiani: nelle strade familiarizzavano con la vostra forza di pace. Ripeto, la decisione di quel sindaco non la capisco proprio e tutto ciò non agevola i rapporti tra l'Italia e l'Irak».

Ha conosciuto qualcuno dei militari di stanza a Nassirya?

«No, ma li vedevo nelle nostre strade e ci sentivamo tranquilli. Il giorno dell'attentato è stata una tragedia anche per noi. Li ricordiamo con affetto e preghiamo per loro affinché Dio li accolga con grande misericordia, e per le loro famiglie, che abbiano la forza di sopportare questo grande dolore».

Che accoglienza ha trovato a Napoli?

«È stato commovente vivere con voi tre mesi: il momento più emozionante è stata la visita del vicepresidente del Consiglio, Fini. Non ci hanno mai abbandonato il sergente Mimmo, il capitano Grilletto, che ha fatto da tramite tra l'ospedale e l'esercito e il generale Li Pira».

Da Monreale, nel Palermitano, intanto, continuano a partire durissime critiche al sindaco Bertini. Marco Intravaia, 18 anni, figlio del maresciallo Mimmo, uno dei caduti di Nassirya, invoca «un intervento dello Stato in questa vicenda, con misure concrete». Per Marco, studente in Giurisprudenza, che sogna di diventare un magistrato, «il sindaco di Marano non ha capito che i martiri di Nassirya sono entrati a fare parte della storia», mentre «lui, con il gesto che ha compiuto, sarebbe il caso che si facesse da parte».
LA STAMPA di giovedì 24 novembre pubblica a pagina 11 un articolo di Francesco Grignetti, un'intervista a un testimone del massacro di Nassirya, no global che ha cambiato idea sui militari italiani impegnati in Iraq

Ecco il testo:

Ancora oggi, Aureliano Amadei, si domanda come diavolo può essere successo che proprio lui, trentenne, romano, no global, con l’orecchino al lobo sinistro, che pensava soltanto al cinema e alle ragazze, sia finito a strisciare nel cortile di una caserma di Nassiriya, tra jeep incendiate, carabinieri uccisi, urla, fumo, lamenti, sangue. Tanto sangue. Aureliano era lì, in Iraq, il 12 novembre 2003, puntuale all’appuntamento con un camion-bomba, perché doveva girare un film. Oggi, due anni dopo, ne è venuto fuori un libro, «Venti sigarette a Nassiriya» (Einaudi), scritto a quatto mani con Francesco Trento, che sta diventando un piccolo caso editoriale. Aureliano era lì. Ha visto l’autocisterna piombare sulla caserma. Ha sentito i colpi di mitragliatrice che hanno preceduto l’esplosione. E’ scappato via come un disperato. E’ volato per aria. Si è salvato, anche se nel corpo portava trenta schegge metalliche, un piede quasi spappolato, ferite da tutte le parti. E ora può raccontarlo. Ma i panni del testimone indipendente, dell’irregolare, del civile tra militari, dell’eroe di guerra tra i pacifisti e del pacifista tra i generali, ha scoperto presto che sono scomodi.
Non è affatto facile, e il libro lo racconta con plateale onestà, ad esempio, spiegare agli amici no global che pensavano e pensano Quelli-se-la-sono-cercata, quanto fossero belle figure il tenente Massimo Ficuciello o il maresciallo Silvio Olla - che sono entrambi morti nell’attentato. Un certo Filippo «vecchio amico dell’epoca punk» lo va a trovare in ospedale e subito parte con una tiritera contro i militari «che sono andati a occupare un Paese al seguito degli americani». E lui a dirgli, no, guarda, aspetta, non è proprio così. Ma intanto Filippo incalza. Aureliano scuote la testa. Alla fine finge di essere troppo stanco: «Non è vigliaccheria, ma davvero non ho le forze per affrontare questa discussione. Forse non ho le forze nemmeno per affrontarla con me stesso».
La storia della strage di Nassiriya, insomma, raccontata con gli occhi del giovane aspirante regista, è una tipica vicenda di errori, improvvisazione, eroismi, stellone, italiani brava gente. «Io - dice - provo il massimo rispetto per le vittime. Ero a Nassiriya da un giorno appena. Come dice il titolo, giusto il tempo di fumarsi venti sigarette. Epperò ho fatto in tempo a conoscere delle persone. Chiariamo subito: antieroe sono io, che ero l’unico civile là in mezzo, e rifiuta tutta la retorica italica dell’eroismo. Loro, secondo me, sono dei non-eroi. Vittime del dovere. Gente che ce l’hanno mandata e cercava di fare al meglio il proprio lavoro. Brave persone».
Ha visto le polemiche di questi giorni. Fa una smorfia. «Se una famiglia trova conforto da una lapide, o da una statua, perché negargliela? Se una comunità ha voglia di intitolare una piazza agli eroi di Nassiriya, a me non scandalizza. Certo, mi piacerebbe anche qualche monumento a chi muore andando a fare cooperazione».
Due anni fa, all’improvviso, nel tempo veloce di un boato, la vita di Aureliano Amadei è cambiata. Irrimediabilmente. Voleva fare l’attore, ora ha un piede che non funziona e non funzionerà più. «Ma a altri è andata peggio. Non mi lamento». Ha avviato una causa per vedere qualche soldo dalla produzione cinematografica che s’è prontamente dileguata. Il suo carattere s’è indurito. Certe pagine, a proposito di qualche «miles gloriosus» o di qualche generale, o di qualche ministro, sono terribili. «Non sono disposto a vedere strumentalizzazioni sulla mia pelle».
Sulla guerra in Iraq non ha cambiato idea. Ha forse mutato opinione sui militari. «Ho scoperto che c’è un qui e un lì. Qui è Roma, ovvero la politica, le trasmissioni tv, l’enfasi, la propaganda, le strumentalizzazioni. Uno schifo. Lì è Nassiriya: gente che rischia il culo, che s’impegna, che viene ingannata quando gli dicono che non c’è pericolo, che cerca di farsi sentire e nessuno l’ascolta. Ragazzi».
Ragazzi (in divisa) come lui, che invece la divisa aveva voluto evitarla a tutti i costi. L’unico eroe positivo di tutta la storia, alla fine, è il tenente Massimo Ficuciello, figlio di uno dei massimi generali del nostro esercito, che era a Nassirya da riservista. Si conoscono, si stanno simpatici, hanno studiato entrambi a Londra, si danno subito del tu. Quando parla di Massimo Ficuciello, ad Aureliano Amadei si inumidiscono gli occhi.
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