La svolta di Sharon non cambia chi non vuole capire le ragioni e la storia di Israele
quotidiani a confronto
Testata:
Data: 23/11/2005
Pagina: 10
Autore: Renato Caprile - Ruggero Orfei - Umberto de Giovannangeli - Michele Giorgio
Titolo: Sharon stravince nei sondaggi - La discontinuità di Ariel Sharon - Storia del Likud dal grande Israele alla resa di Gaza -
LA REPUBBLICA di martedì 23 novembre 2005 pubblica a pagina 10 un articolo di Renato Caprile "Sharon stravince nei sondaggi".

Metà dell'articolo è occupata dalle diverse ipotesi avanzate circa il nome del nuovo partito.
Un modo per minimizzare una svolta rilevantissima e tale da smentire molti dei luoghi comuni su Sharon e sulla politica israeliana tanti cari a REPUBBLICA?

Ecco il testo::

GERUSALEMME - Si votasse domani, Sharon avrebbe già vinto. I sondaggi dei tre maggiori quotidiani israeliani sono tutti per lui. Il 55 per cento degli intervistati approva in pieno il suo strappo. E quel che più conta si dice in gran parte disposto a votare per lui. Assicurandogli - secondo Haaretz, Maariv e Yediot Ahronot - 30-33 seggi su un totale di 120. Ventisei andrebbero al nuovo Labour di Peretz e solo briciole - 12, massimo 15 deputati contro i 40 attuali - ai falchi di quel che resta del Likud. Un trionfo, dunque, ma se si andasse alle urne domani. Solo che il «domani» appare lontano. Bene che vada le elezioni anticipate si terranno alla fine di marzo (il 28), Sharon preferirebbe all´inizio, ma i suoi oppositori e perfino il presidente della Repubblica, Moshe Katsav, membro del Comitato centrale del Likud, sembrano orientati a ritardare quanto più è possibile la data del voto. Il tempo, si sa, raffredda gli entusiasmi e in Israele il barometro del consenso politico è funzione di troppe variabili. Al punto che poche settimane in più possono sembrare un´eternità.
Sharon comunque va avanti, rafforza la squadra - ora ne fanno parte 14 fuoriusciti del Likud, il numero minino per poter accedere ai contributi dello Stato (16 milioni di shekel, circa tre milioni di euro per la campagna elettorale) e manda subito in avanscoperta a Ramallah il suo vice, Ehud Olmert. Una chiacchierata di un´ora e mezza con un´alta personalità, una delle più importanti dell´Autorità palestinese - Olmert ha preferito non fare nomi - per sondare il terreno e soprattutto per convincere Abu Mazen e il suo stato maggiore a una più incisiva lotta al terrorismo. L´idea di ulteriori concessioni territoriali può essere vincente solo a patto che si disarmino una volta e per tutte i nemici della pace. Resta il problema del nome.
«Responsabilità nazionale» (Achrayut Leumit) evocativo quanto si vuole, potrebbe dopo appena poche ore di vita già finire in soffitta. «Troppe battute», troppo lungo cioè, gli hanno sussurrato all´orecchio quelli che si occupano dei rapporti con la stampa, «non entrerà mai in un titolo di giornale e funzionerà ancora meno sui manifesti e negli slogan elettorali». Meglio «Kadima»(Avanti). E´ più immediato, ha più o meno le stesse lettere di Labour e Likud, anche se sa troppo di già visto e sentito. Sembrava fatta, poi Sharon ci ha ripensato. Qualcuno gli ha perfino suggerito di fondere le prime due lettere di «Ahrayut Leumit» in modo da ottenere «Ahla», che in slang ebraico significa: «Al meglio». Non male se non ci fosse già una nota marca di "hummus" (pasta di ceci) a chiamarsi proprio così. E allora?
Un columnist di Yediot Ahronot ha avuto un idea: e se si chiamasse semplicemente «Sharon»? Perché no? Intanto è efficace e in più, avendo in ebraico appena quattro lettere, sarebbe perfino più corto di quello di tutti i rivali. In ogni caso per ora resta «Responsabilità nazionale», poi si vedrà. Bastasse un nome.
Non si amavano quando erano costretti a sedere fianco a fianco, ora che Sharon ha tolto l´incomodo, Benjamin Netanyahu può finalmente vuotare il sacco. «E´ un dittatore, un despota - ha affermato in un´intervista alla Radio militare - Se non lo si ferma metterà in pericolo la sicurezza nazionale. La sua famiglia - ha aggiunto l´ex ministro delle Finanze candidato a raccoglierne la leadership nel Likud - è responsabile della grande corruzione che si è diffusa nel partito negli ultimi anni. Quelli che lo hanno seguito? Marionette, pupazzi. Il vero problema è che ha cercato di svuotare di contenuti il nostro partito, trasformandolo in una specie di succursale del Labour». Esaurite le accuse, anche sulle reali possibilità di vittoria del suo ex leader, Netanyahu mostra di avere idee chiarissime. «Ci vuole tempo perché la gente si svegli. Ne riparleremo tra un po´. I nostri elettori torneranno a casa, quando avranno capito che il Likud ha ritrovato se stesso». Tra meno di un mese, il 19 dicembre, se i sondaggi non mentono, le primarie del Likud dovrebbero incoronare Netanyahu come numero uno del partito. In lizza ci sono altri cinque candidati, ma l´unico che potrebbe dargli fastidio è l´attuale ministro degli Esteri, Silvan Shalom.
EUROPA pubblica in prima pagina e a pagina 2 un editoriale di Ruggero Orfei, "
La discontinuità di Ariel Sharon ". Vi si legge: "negli ultimi anni, in cui pareva che tutto dovesse peggiorare,si è confermato lo schema già verificato in passato, cioè che in Israele gli uomini dell’estrema destra riescono a fare accordi di pace dopo avere infiammato con mezzi fisici una situazione, rispondendo con provocazioni a provocazioni".
Sharon dunque, "uomo dell'estrema destra" avrebbe "infiammato con mezzi fisici una situazione" decidendo di difendere Israele dal terrorismo. Attentati suicidi e risposta militare israeliana sarebebro stati "provocazioni" equivalenti.
Una conferma, questo editoriale, del fatto che il plauso alla politica di pace di Sharon non comporta necessariamente una reale comprensione delle ragioni di Israele. Orfei ad esempio, quelle ragioni non le capisce e non vuole capirle.
Al punto di riscrivere la storia: l'altro candidato al ruolo di "uomo dell'estrema destra" che concluse un accordo di pace con un nemico di Israele (l'Egitto) è evidentemente Menachem Begin. Che però divenne primo ministro anni dopo l'ultima guerra con il paese arabo.
Dov'erano allora le "fiamme" e le "provocazioni" che secondo Orfei precedono i passi di pace compiuti di politici israeliani di destra?

Ecco l'articolo:

Ariel Sharon ha dato vita a una novità che segna una vera discontinuità. La novità non è solo un passo avanti nella road map o negli accordi di Oslo e neppure una conseguenza tattica della scelta della restituzione di Gaza ai palestinesi.
La discontinuità è la rinuncia a una prospettiva che anche i governi laburisti non avevano avuto la forza o il coraggio di affrontare. Non solo, ma negli ultimi anni, in cui pareva che tutto dovesse peggiorare,si è confermato lo schema già verificato in passato, cioè che in Israele gli uomini dell’estrema destra riescono a fare accordi di pace dopo avere infiammato con mezzi fisici una situazione, rispondendo con provocazioni a provocazioni .
L’altro fatto nuovo è l’avvio di un processo di spegnimento di un "focolaio di infezioni", de- finizione che fu data qualche anno fa al caso palestinese, palestra del terrorismo. Questa palestra poi ha seguito un corso "scolastico" che è andato ben oltre l’area palestinese. L’avvio è promettente perché dall’altra parte la nuova leadership araba che ha preso la successione di Arafat intende pure muoversi verso una realizzazione della pace.
La discontinuità ha risvolti internazionali notevoli, perché la fine del conflitto palestinese vuol dire disarmare in parte argomenti del mondo arabo e anche di istituzioni che lo rappresentano come la Lega. Dovrebbe cessare il riferirsi continuo alla fine di Israele, il considerare questo un occupante privo di ogni base di legittimità storica e diplomatica, oltre che morale.
Le prese di posizione del nuovo leader iraniano stanno a testimoniare quanto sia importante e urgente questo disarmo di un antiebraismo che per i Persiani non Arabi ha davvero caratteristiche anche antisemitiche.
Non tutto è risolto, ma si è aperta con Sharon una fase autocritica con rilevanza politica anche immediata.
Di questo debbono prendere atto anche i sostenitori a scatola chiusa della politica precedente del governo israeliano, che è stato considerato spesso come una fonte di infallibilità qualunque cosa facesse.
Invece adesso ci troviamo davanti a un leader che ha molte responsabilità anche simboliche, come la "passeggiata" sulla spianata delle mosche che fece data per la nuova intifada, e che impiega un atteggiamento che in certi momenti pareva da generale Custer, come qualcuno suggerì in passato. Malgrado il muro di separazione, ora alcune porte si aprono per intese più ampie che si legano alla ristrutturazione delle forze politiche israeliane. Tale ristrutturazione non è un costo politico tra gli altri, ma la creazione di un fatto nuovo che possa tagliare meglio certe eredità. Essa evidentemente ha una ragione intrinseca potente ed è l’abbandono anche culturale di un sogno di grande Israele che ha agito anche quando non era confessato.
La strada è aperta verso la formazione di due stati, che si proporranno certamente anche per un futuro con l’Europa, la quale ha già preso la responsabilità di controllare il confine a sud della striscia di Gaza.
L'UNITA' pubblica a pagina 11 l'articolo di Umberto De Giovannangeli "Storia del Likud dal grande Israele alla resa di Gaza"
Vi si trova una storia deformata e incompleta della formazione politica israeliana, presentata come un gruppo fondamentalista, ipernazionalista e alieno a ogni ipotesi di compromesso.
L'accordo di pace stipulato da Menachem Begin con l'Egitto, per esempio non entra, e non casualmente, nel compendio di u.d.g.
Più in generale viene del tutto trascurato il ruolo del rifiuto arabo di Israele e del terrorismo nell'indurre la classe dirigente israeliana (non certo il solo Likud) a giudicare necessario alla sicurezza del paese mantenere il controllo di Cisgiordania e Gaza.

Anche la frase di Vladimir Jabotinski, citata da u.d.g. , sul "muro di ferro" da opporre agli arabi si riferiva alla risposta alle violenze e al rifiuto di Israele e non escludeva la possibilità di un accordo.
Anche l'ipotesi di uno Stato ebraico "sulle due rive del Giordano" deve essere contestualizzata: la Palestina mandataria includeva inizialmente anche la Transgiordania, soltanto accordi successivi tra Gran Bretagna,Francia e dinastia hashemita o portarono alla divisione e alla nascita di un regno che prima non esisteva (l'attuale Giordania)

Ecco il testo dell'articolo:

Nel nome di Vladimir Zeev Jabotinsky, l’«anti-Ben Gurion». Nel nome di Eretz Israel, la Sacra Terra di Israele. Nel nome di un revisionismo sionista fortemente segnato da una venatura nazional-religiosa. È la storia della destra israeliana, la storia del Likud.
La storia di alcune tra le più influenti personalità di Israele. A rappresentare il sionismo intransigente, messianico, è Vladimir Zeev Jabotinsky, una delle figure più carismatiche e più controverse della storia sionista. Fautore della concezione di uno Stato ebraico sulle due rive del Giordano, lo Jabotinsky-pensiero è riassumibile in questa considerazione: «Se il novanta per cento delle attività sioniste si traduce negli aspetti tangibili dell’insediamento degli ebrei in Eretz Israel, e solo il 10% di queste attività è di natura politica, è comunque questo dieci per cento a costituire la condizione indispensabile per la riuscita». Osserva lo storico Eli Barnavi nel suo libro: «Storia di Israele» (Edizioni Bompiani): «Difensore instancabile delle forze di difesa ebraiche, che egli contribuisce a mettere in piedi, fautore di una politica del "muro di ferro" nei confronti degli arabi, Jabotinsky elabora uan filosofia che è agli antipodi delle concezioni sioniste socialiste, pessimista riguardo alla natura umana, esaltatrice della Nazione - principio unico e assoluto -, della forza e della disciplina». L’opposizione accanita, talvolta violenta della minoranza revisionista nei confronti dell’establishment laburista rappresenta una costante nella storia della destra israeliana, tanto nella Diaspora quanto nello Yishuv palestinese, e successivamente nello Stato di Israele.
Se Jabotinsky ha rappresentato l’ideologo della destra ebraica, il facitore politico è senza dubbio Menahem Begin. Nell’estate del 1948, Begin, vecchio comandante dell’Irgun Tzeva’i Leummi (Organizzazione militare nazionale), dà vita al movimento Hejrut (Libertà). Erede dell’ideologia e del programma revisionisti, il partito Herut rappresenterà nella Knesset prima le classi medie urbane originarie dall’Europa dell’Est e dopo, a partire dagli anni ‘50 e sempre più nel corso degli anni, le fasce più povere degli immigrati sefarditi (gli ebrei «orientali»). Sono loro, gli esclusi dal modello socio-economico dei kibbutzim, promosso dal partito laburista, a rappresentare la base militante e il serbatoio elettorale su cui Begin costruì le fortune della destra. Da forza minoritaria a partito di massa: la svolta ha inizio nel 1965, quando l’ala destra del Partito liberale stringe un’alleanza elettorale con i capi della Herut: il Gahal, «Blocco Herut-Liberali». L’episodio - riflette ancora Barnavi - ha la sua importanza: alleandosi con il partito di Begin, noto per il suo estremismo, i liberali gli offrono la rispettabilità democratica di cui ha bisogno, aprendogli così la strada per il potere. Alla vigilia delle elezioni per l’ottava Knesset, nel 1973, il Gahal e molte piccole formazioni del centrodestra e della destra formano il Likud,che si presenta come un’alternativa credibile al partito-Stato laburista. In effetti, la svolta del maggio 1977 porta il Likud al potere, con il 33,4% dei voti e 43 seggi alla Knesset.
L’abilità di Begin è stata quella di esser riuscito a tenere insieme per lungo tempo le due anime del Likud: quella pragmatica, che puntava a fare del Likud un partito conservatore. centrista e legato all’establishment, e l’ala più militante, ideologica, populista, per la quale il Likud doveva conformarsi in tutto e per tutto a un partito radicale di destra. Tra i sostenitori di questa seconda prospettiva vi sono due figure di primo piano nella storia del Likud (ambedue premier di Israele): Yitzhak Shamir e Benjamin Netanyahu. Per Shamir, e in seguito per Netanyahu, la cosa più importante è il potere di lasciare alla prossima generazione la decisione di estendere la sovranità israeliana ai Territori occupati, che sono parte della Terra storica di Israele. A fianco di Menahem Begin nella costruzione di una destra di governo è l’uomo che oggi ha terremotato il panorama politico d’Israele: Ariel Sharon. Tra i due si celebra un «matrimonio» d’interesse accompagnato da forti attriti personali. Nel 1997, Begin sostenne che Sharon era capace di circondare la Knesset con i carri armati; Arik non replicò ma costruì, giorno dopo giorno, l’immagine dell’«uomo forte», del «generale bulldozer» a cui si deve un salto di qualità, e di quantità, nella politica di colonizzazione dei Territori palestinesi. Ventotto anni dopo, il «generale bulldozer», da eroe dei sostenitori di Eretz Israel diviene, per la destra oltranzista, il simbolo vivente di un tradimento intollerabile. La destra radicale si nutre di Miti e rifuta il compromesso. La destra radicale ha una lettura manichea della storia e del conflitto israelo-palestinese: da una parte le Ragioni, dall’altra i Torti; da un lato il Bene, dall’altro il Male. Non esistono vie di mezzo ed è inconcepibile l’idea stessa di un incontro a metà strada tra le aspirazioni e i diritti dei due popoli. Per i falchi del Likud, vecchi e nuovi, il ritiro da Gaza è una resa al nemico; lo smantellamento di insediamenti - denuncia uno dei più tenaci oppositori di Sharon, l’ex ministro Uzi Landau - è, al tempo stesso, una minaccia mortale alla sicurezza dello Stato ebraico e un colpo mortale inflitto al disegno della Grande Israele. Un colpo che porta l’impronta dell’ex «generale bulldozer»: Ariel Sharon.
IL MANIFESTO pubblica a pagina 9 la cronaca di Michele Giorgio "Sharon avanti, Peretz indietro".
Giorgio se la prende con Amir Peretz, colpevole di non essere "Giuseppe Stalin", ma soltanto il "Peppone" cinematografico.
In particolare per aver ribadito il no alla divisione di Gerusalemme e al "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi e dei loro discendenti (richiesto dai palestinesi allo scopo di cancellare la maggioranza ebraica in Israele)e per aver acconsentito alla costruzione di 350 nuove case a Maale Adumin, popolosa città situata oltre la linea verde.

Ecco il testo:

Viaggia a gonfie vele il nuovo partito di Ariel Sharon che due giorni fa ha clamorosamente abbandonato il Likud. Se in Israele si votasse oggi, il premier vincerebbe le elezioni, conquistando così il terzo mandato consecutivo. Lo rivela un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano Haaretz, che ipotizza anche la creazione da parte di Sharon, dopo le elezioni di marzo, di una coalizione costituita dal suo partito, quello laburista, lo Shinui (centro) e il Meretz-Yahad (sinistra sionista). Il primo ministro dovrebbe poter contare su 30 seggi contro i 26 dei laburisti. Il Likud, che non ha ancora un nuovo presidente, crollerebbe a 15 seggi. Intanto ieri, tra ipotesi e sondaggi, il leader laburista Amir Peretz ha segnalato di essere pronto a governare con Sharon. Come? Dando la sua benedizione alla costruzione di 350 nuovi appartamenti nella gigantesca colonia ebraica di Maale Adumim, nella Cisgiordania occupata. Dietro i suoi baffoni neri non si cela perciò un Giuseppe Stalin, come temevano gli israeliani di centro-destra, ma soltanto il Peppone cinematografico. Peretz, che su consiglio dei suoi collaboratori sta cercando di «correggere» la sua immagine di socialista incallito, domenica scorsa ha anche ribadito i due abituali «no» della classe politica israeliana: no alla restituzione di Gerusalemme est ai palestinesi, no al ritorno dei profughi.

Ieri, incontrando un gruppo di giornalisti stranieri, Eyal Arad, il consigliere di Sharon, ha spiegato che il primo ministro ha realizzato una rivoluzione nella destra, mettendo fine al sogno del Grande Israele. Rivoluzione che una buona fetta del Likud non ha accettato, costringendolo ad uscire dal partito. Sharon, ha aggiunto Arad, avrebbe anche avuto il merito di aver dimostrato al mondo che il principio «pace per i territori» che aveva ispirato un po' tutti i piani di pace, «è fallito» e che la comunità internazionale ora accetta la posizione di Israele, ovvero che «solo dopo la fine del terrorismo e lo smantellamento delle strutture del terrorismo», sarà possibile negoziare con i palestinesi e arrivare alla soluzione del conflitto sulla base della Road Map.

Nel frattempo crescono gli insediamenti colonici nei Territori occupati (in violazione proprio della Road Map) e il muro israeliano in Cisgiordania si allunga infrangendo la legalità internazionale. Sharon nei suoi ultimi discorsi non ha dato indicazione su cosa farà dopo le elezioni di marzo quando, con ogni probabilità, sarà ancora primo ministro. Secondo il vicepremier Ehud Olmert, Sharon intenderebbe definire i confini definitivi di Israele «nel quadro di un accordo» con i palestinesi ma solo se questi ultimi «lotteranno contro il terrorismo». Il premier nel frattempo si dedica alla ricerca di un nuovo nome per il suo partito. «Responsabilità nazionale» non piace più, è troppo impegnativo gli hanno spiegato i suoi consiglieri. Potrebbe perciò chiamarsi «Ariel» oppure «Avanti».

Il Likud ieri è passato alla controffensiva. Benjamin Netanyahu, lo storico rivale Sharon, ha accusato il premier di essere un «dittatore» che, a suo avviso, avrebbe portato avanti una politica «che non riconosce la democrazia e ora sta creando un partito di fantocci«. «Che importa se il dittatore sorride o ha senso dell'umorismo?», ha detto alla radio militare. «Tutto conduce alla tirannia», ha concluso. Netanyahu è uno dei più probabili sostituti di Sharon alla guida del Likud. Oltre a lui ci sono altri due importanti candidati alle primarie del 19 dicembre: il ministro della difesa Shaul Mofaz e quello degli esteri Sylvan Shalom. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal quotidiano Yediot Aharonot, Netanyahu avrebbe il 51% dei voti, contro il 15% di Mofaz e Shalom. Altri tre candidati sono in lizza: fra loro l'ex ministro Uzi Landau, che ha guidato la spaccatura aperta dagli «ribelli» del Likud contrari al ritiro dalla Striscia di Gaza.

Intanto proprio a Gaza continuano i preparativi per la riapertura, tra due giorni, del valico di Rafah, al confine con l'Egitto, sulla base dell'accordo raggiunto nei giorni scorsi con Israele. Giovedì arriveranno a Rafah anche i 72 osservatori dell'Unione europea (tra cui 19 carabinieri italiani), guidati dal generale Pietro Pistolese, che saranno incaricati di monitorare i movimenti al transito di frontiera e addestrare la polizia palestinese.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Repubblica, Europa, L'Unità e Il Manifesto. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.


rubrica.lettere@repubblica.it ;Rubrica.lettere@europaquotidiano.it ; lettere@unita.it ; redazione@ilmanifesto.it