A dieci anni dalla morte di Ytzhak Rabin
ricordi e analisi politiche
Testata:
Data: 04/11/2005
Pagina: 1
Autore: Amos Oz - David Grossman - Alberto Stabile
Titolo: Anniversario - SHARON OGGI SEGUE LA SUA STRADA MA LA NOSTRA INNOCENZA ORMAI È PERDUTA - La morte di Rabin cambiò Israele
Il CORRIERE DELLA SERA di venerdì 4 novembre 2005 pubblica un articolo di amos Oz dedicato all'anniversario dell'omicidio di Ytzhak Rabin

Ecco il testo:

Ytzhak Rabin era un uomo riservatissimo. Faceva davvero fatica a irradiare calore umano. In lui c'era un che di austero da scienziato, e nulla della faciloneria del politico. Niente pacche sulle spalle, niente baci ai bambini, niente eccellenti battute. Una volta alla settimana — o giù di lì — un mezzo sorriso, e mai una sonora risata. Era certo facile da rispettare ma molto difficile da amare, eppure gli ho voluto ugualmente bene. Benché non da subito.
All'inizio, lui per me era il generale Rabin, il capo di stato maggiore dell'esercito israeliano, l'eroe vittorioso nella guerra dei Sei Giorni del 1967. Il nostro rapporto cominciò con un documento e si sviluppò in una difficile amicizia.
Il documento era un rapporto dei servizi segreti nel quale mi ero imbattuto nella mia funzione di sottufficiale della riserva dell'esercito nel 1967.
Diceva qualcosa su una «gigantesca concentrazione dell'esercito egiziano lungo il confine israeliano». Qualcuno aveva sbarrato la parola gigantesca e aveva inserito scrivendo a mano ingente;
per pura curiosità letteraria, volevo trovare a chi appartenesse la mano minimizzatrice che aveva fatto quella modifica. Era la mano del generale Rabin, e per questo mi piacque subito.
Pochi anni dopo, agli inizi della sua carriera politica, un giorno mi telefonò, anche se ci conoscevamo appena. Spiegò che voleva il mio aiuto per la formulazione di un certo discorso importante. Gli diedi i consigli migliori che potevo, allora disse all'improvviso: «Posso venire a trovarti?» e aggiunse: «ruberò solo venti minuti del tuo tempo». All'epoca, lui era tra i favoriti per la carica di primo ministro e io soltanto un giovane scrittore, uno dei tanti. Risposi che sarei stato lietissimo di andargli incontro ovunque avesse voluto. Ma lui insistette. Venne a casa mia, discusse con me il discorso, e se ne andò dopo 19 minuti (controllai l'orologio) scusandosi per avermi disturbato.
Questo, per dirla con le parole del film Casablanca, fu l'inizio di una splendida amicizia — di certo splendida per me. Un'amicizia mai facile, mai a cuor leggero o rilassata, sempre carica di aspri diverbi e violenti disaccordi. Ciononostante, fin da quella visita a casa mia riuscivo a vedere il bimbo timido dietro all'orgoglioso capo militare e al potente statista. C'era qualcosa in lui di eternamente solitario, insicuro, imbarazzato e molto suscettibile. In qualche maniera, somigliava più di me ad un giovane artista, e tuttavia c'era un lato tagliente in quell'uomo molto perspicace e talvolta estremamente feroce, robusto come un contadino, forte come una scure e ostinato come un mulo.
Quando facemmo la sua conoscenza Rabin, come Peres, era un politico semplice e un falco militare. Negli anni '70, si poteva condensare la sua saggezza politica nei semplici mantra: «Gli arabi capiscono un linguaggio solo» o «Dobbiamo educarli con il pianto» (naturalmente, sapeva che in politica ci vuole qualche stratagemma e che un linguaggio morbido può essere più efficace del linguaggio della violenza, ma non c'era nulla di morbido nella sua filosofia).
Cambiò. Assieme a Shimon Peres, Rabin cambiò sotto i miei occhi. Di certo non per merito del mio influsso, ma attraverso un sottile processo emotivo e intellettuale che, in estrema sintesi, può essere espresso con le parole «Se fossi palestinese». Non si convertì mai, naturalmente, alla causa filo-palestinese, ma gradualmente fece ascoltare entrambe le campane. Tutto questo non è niente di speciale. Negli anni '80, questi cambiamenti d'animo e d'idea capitarono a molti israeliani. Ma, nel caso di Rabin, i cambiamenti si concretizzarono in una svolta politica monumentale. Rabin e Peres annullarono l'ultradecennale posizione israeliana di «non trattare con l'Olp» e fu un'inversione drastica che rese possibili gli accordi di Oslo tra Israele e l'Olp. L'ultima volta che vidi Rabin, gli tenni stupidamente un sermone sulla necessità di fare maggiori concessioni all' Olp, in modo da riattivare il processo di pace. Dissi: «Ytzhak, lo so che questo comporta difficoltà gigantesche sul fronte di casa». Mi fece un mezzo sorriso e disse, con molta tristezza: «Non gigantesche, Amos, solo difficoltà ingenti». Due settimane dopo, fu abbattuto da un ebreo fanatico durante un raduno pacifista nella piazza centrale di Tel Aviv. I fanatici non afferrano mai il punto, non sono mai ingenti, agiscono sempre da giganteschi.
5 Amos Oz 2005
( Traduzione di Laura Toschi)
LA REPUBBLICA pubblica a pagina 23 un ricordo di David Grossman, "SHARON OGGI SEGUE LA SUA STRADA MA LA NOSTRA INNOCENZA ORMAI È PERDUTA"
Ero là, in quella piazza di Tel Aviv, la notte in cui Yitzhak Rabin è stato assassinato. Doveva essere un raduno diverso da quelli a cui avevo partecipato in passato: non un´altra manifestazione di protesta e nemmeno di supporto, ma di riconoscenza. Un abbraccio a Yitzhak Rabin e a Shimon Peres per quello che avevano fatto per la pace tra israeliani e palestinesi.
Una dimostrazione di gratitudine a quei due gentiluomini - non più tanto giovani - che erano riusciti a spezzare gli schemi di pensiero e di comportamento su cui avevano impostato i rapporti con i palestinesi per decine di anni, superando anche la loro annosa avversione personale (una cosa da non sottovalutare) per collaborare in nome della pace.
La piazza era piena di gente. Decine di migliaia di dimostranti e di attivisti di sinistra giunti a ringraziare Rabin per il suo coraggio, consapevoli delle enormi difficoltà che doveva affrontare. Tutti noi avevamo visto le furiose manifestazioni dei sostenitori della destra nelle piazze e i rabbiosi picchetti di protesta che lo attendevano ogni venerdì sotto casa. Avevamo sentito i discorsi avvelenati di Sharon e di Netanyahu, dei rabbini che consideravano Rabin un traditore ed esortavano a «chiudere i conti con lui» per ciò che aveva fatto.
Eravamo venuti in quella piazza a esprimere sostegno, a ringraziarlo dell´opportunità che concedeva a noi e ai nostri figli, a incoraggiare il leader che per la prima volta, dopo un´infinità di anni, non solo diceva di volere la pace ma agiva in tal senso. Avevamo la sensazione che Rabin aprisse per noi una finestra dalla quale all´improvviso sarebbe entrata una ventata di aria fresca, pura, foriera di una vita migliore, in cui non saremmo stati costretti a impugnare la spada.
Occorre però ricordare che l´appoggio della sinistra a Rabin non era totale e incondizionato. Infatti, nonostante la grande stima per il cambiamento avvenuto in lui, la sinistra non aveva mai smesso di dubitare e di interrogarsi - anche quella sera in piazza - se il suo leader fosse veramente intenzionato a concludere una pace durevole con i palestinesi; se fosse in grado di liberarsi - nel corso del negoziato - dell´aggressività e degli istinti militari che avevano forgiato il suo pensiero fin da bambino. In altre parole: quando Rabin parlava di pace (con intenzioni del tutto oneste, da parte sua) si riferiva a una pace vera, a una sorta di «metamorfosi» nei rapporti tra israeliani e palestinesi, o avremmo scoperto che anche questa volta si trattava di un accordo imbastito dagli israeliani il cui obiettivo non era creare due stati sovrani bensì consolidare la loro sicurezza, i loro interessi e la loro autorità sui palestinesi? Al culmine del processo di pace di Oslo infatti, quando gli israeliani (almeno quelli che appoggiavano l´iniziativa) avevano l´impressione che ecco, la lotta era finita e la pace era a portata di mano, nei territori occupati si continuava a confiscare terre, a costruire strade destinate unicamente agli israeliani e a insediare decine di migliaia di nuovi coloni.
Quella sera, in quella piazza, volevamo esortare Rabin ad andare avanti. A mostrarsi determinato e risoluto. Volevamo ricordargli che in Israele i suoi sostenitori erano più numerosi di quanti lo chiamavano «criminale» e «traditore». Volevamo dirgli che per ottenere la pace non basta incontrare il nemico a metà strada ma bisogna percorrere la strada fino in fondo, perché se non si toccano le paure, le ferite, la tragedia dell´altro, è come se non si fosse fatto niente. Volevamo avvertirlo che il processo di pace è reversibile, fragile, quasi impossibile da attuare in una regione violenta come la nostra e che talvolta occorre agire contro i nostri timori più profondi, i nostri raffinati istinti di sopravvivenza forgiatisi in così tante guerre, per assicurarne il successo.
Ricordo Rabin mentre teneva il suo discorso sul palco: frasi brevi, semplici, formulate in un ebraico essenziale, non ricercato, diretto. Lo ricordo sorridente, timido, felice alla vista delle migliaia di persone che lo circondavano d´affetto, una sensazione rara per lui in quei giorni. Lo ricordo mentre cantava imbarazzato la «Canzone della Pace», l´inno ufficiale di ogni manifestazione della sinistra e le cui parole sembravano sul punto di avverarsi per la prima volta: «Non dite verrà un giorno, portatelo quel giorno, non è un sogno!».
E alcuni minuti più tardi, tre spari, il trambusto, la confusione, il senso di perdita - personale e collettiva - l´impressione della fine di un epoca, del crollo della speranza, di una corrente torbida, fanatica, violenta, caotica, esplosa all´improvviso dalla sfera dell´inconscio e trasformatasi in realtà, in un dato di fatto che da quel momento in poi avrebbe determinato il nostro destino.
Dieci anni. L´assassino di Rabin non è riuscito, probabilmente, a far regredire o a fermare il processo di pace. E riuscito però a rallentarlo, a renderlo terribilmente complicato e a macchiarlo di nuovo sangue, israeliano e palestinese. Sarebbe impossibile illustrare in dettaglio gli sconvolgimenti e le sciagure che hanno colpito Israele in questi dieci anni. La maggior parte sono state riportate anche sulle pagine di questo giornale. Oggi, dieci anni dopo l´assassinio di Rabin, Israele è una nazione prospera, dinamica, vitale, ma al tempo stesso lacerata, tormentata, in cui gruppi politici vedono nei loro oppositori un nemico che potrebbe attentarne all´esistenza, niente di meno. Dieci anni dopo l´assassinio di Rabin la maggior parte degli israeliani si sono rassegnati - senza grande entusiasmo e spinti dalla stanchezza - alla divisione della regione in due Stati. Ma questa rassegnazione non si è tradotta in un´azione risoluta e coraggiosa e la violenza prosegue, su ambo i fronti. A dieci anni dall´assassinio di Rabin il capo del governo di Israele è Ariel Sharon, l´uomo che ha fatto di tutto per intralciare l´iniziativa del suo rivale ma che oggi prosegue lungo la strada da lui tracciata con la medesima audacia, correndo rischi politici e personali ma anche mantenendo un atteggiamento ambiguo e ambivalente verso l´occupazione dei Territori e la possibilità di una pace vera. Sono stati dieci anni faticosi e amari. Rabin è stato ucciso e con lui si è perso anche un senso di innocenza che ancora esisteva qua e là nello stato ebraico, la speranza di una vita normale e serena, di un´esistenza civile senza armi, aperta, tollerante che sembrava già a portata di mano. Come speravamo, allora, quella sera, in quella piazza, di essere vicini alla conclusione del conflitto, di essere prossimi a una nuova era, più saggia e sensata. Come eravamo ingenui mentre l´assassino già si aggirava fra noi con la pistola in tasca.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
Alberto Stabile intervista Eytan Haber, capo di Gabinetto del governo Rabin . Ecco il testo, "La morte di Rabin cambiò Israele":
GERUSALEMME - «Il governo di Israele comunica costernato la morte del primo ministro Yitzhak Rabin ...». Fu Eytan Haber, l´amico e braccio destro del primo ministro assassinato, ufficialmente il suo capo di Gabinetto, a pronunciare dieci anni fa quelle parole sullo spiazzo dell´ospedale Ichilov, illuminato dai fari delle tv. Era la sera del 4 novembre 1995, Rabin, l´architetto del primo, controverso trattato di pace con i palestinesi passato alla storia come "l´Accordo di Oslo", venne ucciso dal giovane nazionalista religioso, Yigal Amir. Il primo ministro che tese la mano a Yasser Arafat e con il leader palestinese, oltre che con Shimon Peres, condivise il Nobel per la Pace, sarà ricordato questa settimana con una serie di manifestazioni.
Eytan Haber cosa ricorda di quella sera?
«Quella sera, prima della manifestazione, Itzhak Rabin mi telefonò per dirmi che ci saremmo incontrati dopo la manifestazione, ad una festa in onore dell´allora ambasciatore a Roma, Avi Pazner, che doveva tenersi a Tzahala, un sobborgo di Tel Aviv. Ci andai e lì trovai anche il Prof. Gaby Barabash, il direttore dell´Ospedale Ichilov. Ad un certo punto Barabash ricevette una telefonata e mi gridò: «Eytan, hanno sparato ad Yitzhak!». Partii a tutta velocità per l´Ospedale Ichilov, il prof. Barabash mi tenne informato tutto il tempo della situazione. Sembrava che Rabin stesse per riprendersi ma, dopo pochi minuti, il medico venne da me e mi disse: «Eytan, Yitzhak non c´è più, è morto». In quel momento pensai che bisognava comunicarlo ad Israele ed al mondo in maniera ordinata, e non permettere il propagarsi di voci più o meno fondate. Scrissi il comunicato, lo mostrai a Shimon Peres e a Yossi Sarid [allora ministro dell´Educazione] che erano lì accanto e loro lo approvarono. A questo punto uscii nel buio e mi misi a cercare i riflettori delle tv. In quei pochi attimi pensai che fra venti secondi, dieci secondi, lo Stato d´Israele sarebbe stato un altro Paese».
Ritiene che l´eredità politica di Rabin sia stata raccolta in questi dieci anni?
«Direi proprio di sì. Anche le trattative con i palestinesi, seppure in altra forma, continuano. Si deve ricordare che, fino all´arrivo di Rabin, parlare con i palestinesi e particolarmente con l´Olp era un reato e chi osava farlo finiva in carcere. In maniera sorprendente e forse addirittura un po´ ironica, Sharon oggi va per la via tracciata da Rabin».
Si può quindi stabilire una continuità fra gli accordi di Oslo ed il ritiro da Gaza?
«Fino a questo momento sì, senz´altro. Il problema è che cosa succederà d´ora in poi. Se Sharon continuerà per questa strada, si potrà senz´altro affermare quello che gli antichi saggi d´Israele hanno già detto duemila anni fa: «L´opera dei giusti viene eseguita da altri».
Come giudica il fatto che subito dopo l´assassinio abbiano conquistato il potere proprio coloro che si opposero, fino alla diffamazione, al processo di pace?
«Penso che gran parte di questa vittoria sia da attribuire ad Ahmed Yassin (leader di Hamas ucciso nel 2004, ndr) e ai suoi compari, che invece di prendere parte al processo di pace e trovarsi oggi, dopo dieci anni, con uno Stato palestinese indipendente ed un governo sovrano, hanno iniziato un´offensiva terroristica, che ha portato solo appoggi alle destre».
Un sondaggio del quotidiano "Yedioth Aharonot" rivela che il 20% degli israeliani vorrebbe vedere scarcerato l´assassino Yigal Amir. A che cosa attribuisce questa «tolleranza»?
«Il motivo è lo stesso di prima. Nell´Israele di oggi, dopo una nuova intifada che ha causato 1000 morti israeliani, vediamo nell´ala destra dello schieramento politico sempre meno gente convinta che la pace sia possibile. Questi, più quelli che credono nei falsi messia e nel "Grande Israele", più quelli infuriati dagli attentati, formano un gruppo piuttosto consistente di persone, che si esprimono dando anche un supporto a Yigal Amir. Anzi, mi meraviglio che siano solo il 20%».
Che significato ha secondo lei il fatto che l´84 % egli israeliani ritiene possibile un altro omicidio politico?
«Prima di tutto, il fatto stesso che non abbiano ucciso il primo assassino può spingere altri a fare lo stesso».
Intende dire che, se le guardie del corpo di Rabin avessero sparato e ucciso Yigal Amir, questo sarebbe stato un deterrente per il futuro?
«Non solo lo affermo, ma mi dispiace moltissimo che non lo abbiano fatto. Inoltre, l´omicidio stesso ha infranto due barriere: la convinzione che «un ebreo non ammazza un altro ebreo» e la barriera psicologica che non si colpisce una personalità politica, che le proteste si esprimono nelle urne il giorno delle elezioni. L´incitamento contro Sharon prima dell´evacuazione di Gaza ha provato ancora una volta che ci sono persone, soprattutto fra i rabbini di destra, che pensano che le parole non possano uccidere, mentre le parole uccidono, eccome».
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