IL RIFORMISTA di mercoledì 2 novembre 2005 pubblica apagina 6 l'articolo di Peppino Calderola "Sinistra, bentornata in Israele "
Ecco il testo:Leggendo l’elenco degli
aderenti alla fiaccolata di domani
per Israele, la novità balza
agli occhi. Il centro-sinistra
e la sinistra ci sono quasi al
gran completo. Manca Diliberto,
ma il caro ragazzo ha cose
da fare con gli Hezbollah.
Manca Bertinotti, che è stato
sul punto di esserci, poi, forse
incalzato dagli umori del suo
partito profondo, si è sfilato
correggendo il generoso Franco
Giordano. Poi ci sono gli
aderenti non presenti, Parisi in
testa, che difenderebbero
Israele solo se Ferrara si
togliesse di torno. Poi c’è
Massimo D’Alema che
tutti davano come assente
e che invece ha
spiegato che era del tutto
ovvio considerarlo un
amico di Israele. Meglio
di così non
potevano sperare
quelli
che in questi
anni, gli anni
del "demonio"
Sharon,
gli anni dell’innamoramento
della destra
italiana per Israele, gli anni
delle manifestazioni contro
Bush e il sionismo si sono dannati
l’anima per spiegare che la
sinistra non è e non può essere
nemica di Israele. Oggi siamo
tutti assieme. Evviva.
Proviamo, visto che siamo
diventati tanti, a impostare un
ragionamento nella sinistra
che porti il tema della manifestazione
più in profondità. La
quasi unanimità della sinistra
attorno a Israele dopo le dichiarazioni
del leader iraniano
porta alla luce molte questioni.
La prima è che la protesta di
domani non può essere interpretata
solo contro una frase o
più frasi eccessive ma estranee
alla cultura musulmana. Il presidente
iraniano dice cose che
la propaganda arabo-musulmana
sostiene da decenni e su
cui ha formato una opinione
pubblica immensa e le generazioni
a venire. Lo
scandalo è rappresentato
dal presidente
iraniano, ma prima di
lui, accanto a lui e dopo
di lui, nel Medio
Oriente e nell’intero
mondo arabo-musulmano,
domina
l’antisemitismo.
L’odio anti-
ebraico resta
la malattia
principale che
corrode questa
parte di mondo
e la tiene assieme.L’antisemitismo
non è la
conseguenza di qualcos’altro
ma la causa di qualcos’altro.
La presa di distanza e l’indignazione
sollevate dalle frasi
del leader di Teheran devono
spingerci a riflettere sull’atteggiamento
remissivo che il
mondo occidentale, e anche la
sinistra, hanno avuto di fronte
alla contrapposizione fra la generalità
del mondo arabo-musulmano
e lo stato ebraico. La
remissività consiste nel fatto
che pochi governanti occidentali
hanno messo al centro delle
relazioni con i leader arabi,
anche con quelli considerati
moderati, la necessità, oggi e
non domani, di una modifica
dell’atteggiamento verso
Israele. Mezzo secolo e più dopo
la decisione con cui l’Onu,
nel novembre del ’47, sancì la
nascita di Israele è troppo
chiedere che si dica a leader
arabi che le parole contro
Israele pronunciate nei discorsi,
scritte nei libri di scuola, trasmesse
dalle tv sono considerate
intollerabili dall’Occidente
e dalla sinistra occidentale?
Il secondo elemento di cui
conviene prendere atto è la fine
della illusione attorno al nazionalismo
arabo. Siamo dentro
un’altra storia.L’idea che il
nazionalismo arabo fosse una
manifestazione primordiale di
anti-imperialismo e per questa
ragione andava sostenuto malgrado
i debiti culturali che i nazionalisti
arabi avevano contratto
con tutto il peggio delle
culture reazionarie occidentali,
questa idea si è rivelata fallace.
Il nazionalismo arabo nasceva
dentro la guerra fredda
ed è stato incardinato nelle
prospettive, per essere generosi,
delle classi dirigenti più modernizzatrici
del mondo arabo
che tuttavia mai si sono posti il
problema della democratizzazione
delle loro società. Al
punto che il fondamentalismo
islamico nasce come risposta
religiosa alla miseria, una sorta
di welfare islamico di fronte ai
nuovi tiranni. La sinistra occidentale,
sia quella di provenienza
comunista sia quella di
orientamento socialdemocratico,
ha guardato dentro la
gabbia di un mondo che c’era,
lo scontro Usa-Urss, immaginandosi
un mondo che non
c’era, il nazionalismo arabo come
via di emancipazione dei
popoli dell’area arabo-musulmana.
Forse bisogna partire
da qui per ricostruire un rapporto
con il mondo arabo-musulmano
che sia impostato sul
dialogo, ma su un dialogo esigente,
in primo luogo chiedendo
insistentemente, petulantemente
che l’orrore di un così
diffuso antisemitismo
sia cancellato.
Infine la sinistra
deve riflettere sull’occasione
persa in
questi anni con
Israele. Persa ma recuperabilissima.
Soprattutto
dopo la
novità felice della
adesione quasi unanime di domani.
La scelta non è fra Israele
e i palestinesi. Due stati si è
detto e due stati dovranno essere.
Alcuni di noi hanno chiesto,
e sia pure tardivamente ottenuto,
che il giudizio sulle leadership
israeliane, anche quelle
più difficilmente digeribili,
fossero improntate a uno spirito
realistico per cui un soldato
di Israele, si chiami Rabin o si
chiami Sharon (so che non sono
la stessa cosa) ha in testa la
necessità di arrivare alla pace
con il nemico.L’occasione persa
a cui mi riferisco implica
una rivoluzione culturale nella
sinistra. Se partiamo, come si è
sempre fatto dal ’47 ad oggi,
dai palestinesi si incontrano
macigni inamovibili. La cultura
politica deve confrontarsi
con il tema delle possibilità
che esista e si manifesti un
Islam democratico, il sistema
di relazioni statale deve confrontarsi
con regimi il migliore
dei quali sarebbe considerato
inaccettabile dal cittadino Diliberto
se fosse costretto a vivere
laggiù, il sistema di relazioni
internazionali, anche dopo la
guerra fredda deve confrontarsi
con il potenziale multilateralismo
su cui scommettere e
in particolare sul sogno di un
multilateralismo che faccia
centro su un Medio-Oriente
dinamico impostato attorno a
uno Stato di Israele sicuro di
se in grado di dialogare e aiutare
stati arabo-musulmani liberati
da profeti folli
e dittatori.
L’occasione da
recuperare, è tema
che merita molte
pagine, è il rapporto
fra sionismo, inteso
come uno dei più
originali movimenti
nazionali capaci di
creare una rivoluzione sociopolitica,
e la cultura di una sinistra
non anti-capitalistica
ma orientata a correggere il
sistema dato, a correggerlo
costantemente nella migliore
cultura riformista. Il confronto
con il sionismo, non solo
con la sua anima di sinistra, è
stata una sfida che la sinistra
comunista cercò di impostare,
come ha ricordato ieri su queste
pagine David Bidussa, ma
che la sinistra riformista può
risolvere. Attorno alla difesa
di Israele, e all’idea di un nuovo
Medio-Oriente che dia
una patria ai palestinesi, c’è
un’idea di futuro che è anche
una sfida culturale.
Sempre a pagina 6 si trova l'articolo di Franco Debendedetti "L'ostilità anti-israeliana ? Per la nostra storia è contronatura".
Ecco il testo:Ci sarà anche Piero Fassino alla
fiaccolata contro le minacce iraniane
a Israele, promossa dal Foglio di Giuliano
Ferrara. Per Pigi Battista
(Corriere della Sera del 31 ottobre ) è
«un atto coraggioso»: perché così dimostra
di non dare peso alle scontate
obiezioni delle vestali per cui è anatema
partecipare a iniziative che partono
dalla destra, a prescindere. Ed è un
atto coerente perché si pone in continuità
con altri suoi "strappi" rispetto a
posizioni radicate nel passato della sinistra,
e culminate nelle dichiarazioni
sull’Iraq contenute nella famosa intervista
a La Stampa e ripetute al congresso
dei Ds di un anno fa.
Ma c’è una questione, che attiene
più alla logica politica che al coraggio e
alla coerenza, da porre non a Fassino,
ma a parte della sinistra italiana, e che
non riguarda solo il passato: perché l’ostilità
verso lo stato di Israele? Infatti
questa ostilità appare, per molti versi,
quasi contro natura. Prima di tutto da
parte di quelli che rivendicano il ruolo
preminente avuto dal Pci nella lotta
partigiana: fu la lotta contro il comune
nemico a cementare una contiguità
con i partiti della sinistra, che per molti
fu adesione esplicita. L’Israele delle
origini, e ancora quello dell’immediato
dopoguerra, doveva apparire come il
luogo in cui si realizzava l’utopia comunitaria,
la costruzione di un mondo
nuovo in cui terreni venivano sottratti
al deserto e resi fertili, in cui le menti
venivano sottratte all’ignoranza e fertilizzate
dai migliori centri di ricerca al
mondo.Erano molti gli elementi ideali
e culturali comuni a Israele e alla sinistra,
e non solo a quella non comunista.
Ma, soprattutto, Israele è una democrazia.
Non è bastato mezzo secolo
per riconoscere che, nel conflitto tra lo
stato di Israele e i paesi arabi - per decenni,
tutti i paesi arabi circostanti
- da una parte c’era
un paese democratico, dall’altra
monarchie assolute e
dittature teocratiche e/o
corrotte.Gli errori, anche le
colpe, di Israele - Sabra e
Chatila, tanto per dare un riferimento
- che pesano nella
memoria degli amici di
Israele, non sono la causa dell’ostilità
della sinistra: perché, se di etica si deve
parlare, che cosa è il sostenere la dittatura
corrotta e ambigua di Arafat fino
al suo ultimo disfacimento morale e
politico? Non nasce da ragioni di giustizia,
l’ostilità di tanta sinistra, ma da
ragioni politiche: è figlia della guerra
fredda, della divisione del mondo tra
democrazie popolari e democrazie
tout court. E analogamente è figlio della
guerra fredda anche il filoarabismo
della sinistra democristiana, aldilà degli
interessi petroliferi.
Il pregiudizio non solo antisraeliano
ma antiebraico è duro a morire e
diffuso, come testimonia la recente dichiarazione
di Guido Crosetto sui banchieri
ebrei, richiamata ancora ieri sul
Financial Times. Il pregiudizio antiisraeliano
di una parte della sinistra appare
non come dissenso dalle politiche
di molti governi di Israele,ma si rivela
piuttosto come un modo per
camuffare sentimenti anticapitalisti.
Il ripudio di Ariel
Sharon (lo Sharon di prima
dell’evacuazione di Gaza)
sta al pregiudizio antiisraeliano
come il ripudio di
George W.Bush sta al pregiudizio
antiamericano: preferenze
politiche in cui sfogare
preferenze ideologiche.
È nell’interesse dell’Unione tracciare
un netto solco tra la critica a
eventuali comportamenti politici di
Israele nel futuro del negoziato con i
palestinesi e il pregiudizio antisraeliano.
Espressioni come quelle del leader
iraniano mirano esplicitamente a spodestare
la leadership moderata dell’Anp
in favore di Hamas e della Jihad
islamica. Una delle poche cose buone
fatte dal governo in questi anni è tentare
di avere un proprio ruolo al tavolo
negoziato dal quale siamo fuori - la cosidetta
road map - e questo si dovrà
continuare in futuro, perché le elezioni
del 25 gennaio sono un passaggio terribile
per Abu Mazen, che infatti ha criticato
duramente nell’incontro con Fini
le parole iraniane. Il no al pregiudizio
antisraeliano, oggi, è una scelta a favore
dei moderati palestinesi.
Un filo rosso collega le proteste internazionali
contro l’escalation dell’Iran
teocratico, la rinnovata intesa franco-
americana contro la Siria per l’assassinio
di Hariri, la vittoria di Sharon
alla Knesset per evacuare Gaza, le
pressioni occidentali che hanno reso
meno farsesche le elezioni in Egitto.E
porta a riconoscere, comunque si voglia
mantenere il giudizio sulla decisione
di intervenire in Iraq, che si sono
messi in moto movimenti politici, e
che sarebbe imperdonabile non adeguare
ad essi, anche solo pragmaticamente,
le proprie politiche. «Sarà
esportata, ma è democrazia», come dice
l’ormai famoso titolo di Repubblica.
Proprio la considerazione di quanto è
costato farlo dovrebbe indurre a difendere,
con convinzione e tutti insieme,
la democrazia là dove c’è.
Infine, l'articolo "Il cordone ombelicale si è rotto con Arafat ", che ravvisa nella morte raìs l'evento che ha rotto la dipendenza ideologica della sinistra italiana dalle posizioni più oltranziste del nazionalismo palestinese.
Ecco il testo:L’adesione dei Ds alla manifestazione
di domani davanti all’ambasciata
iraniana ha suscitato
scalpore. In primo luogo perché
è la prima volta in cui la sinistra
italiana partecipa a una manifestazione
esclusivamente in
difesa di Israele, senza bisogno
di aggiungere sullo striscione
«ma anche per i diritti del popolo
palestinese». In secondo luogo,
perché la manifestazione è
promossa dal Foglio. In terzo
luogo, per la qualità e la quantità
dei dirigenti presenti:
da Piero Fassino a
Massimo D’Alema.
Il presidente ds
però, nell’intervista a
Repubblica in cui ieri
ha annunciato la sua
presenza, ha rifiutato
seccamente l’interpretazione
della
«svolta» dalemiana. Ricordando
di essere «così "anti-israeliano"»
da essere stato anche, dieci anni
fa, «l’unico leader italiano in
quel periodo» ad andare in visita
dall’allora premier Nethanyau
«per ragionare sulle prospettive
della crisi mediorientale».
Ma sotto la Quercia le spiegazioni
dell’adesione dei massimi
dirigenti sono le più diverse.
«Si sana una ferita - dicono alcuni
- una frattura lunga dieci
anni, dalla morte di Rabin a oggi,
compresa la fase in cui Barak
si è spinto più avanti». Una frattura
che si è poi aggravata con
l’elezione di Sharon. Quando
«a tenere aperta linea del dialogo
c’era rimasto solo Fassino».
Accreditando così la dicotomia
che vuole nei Ds un segretario
filo-israeliano e un presidente
filo-palestinese. «E quale sarebbe
la differenza, non sono entrambi
e anni sulla stessa linea
che dice "due popoli, due stati"?
» replicano altri.
La novità che nessuno però
si sogna di negare è il diverso e
assai più positivo giudizio su
Sharon, ormai quasi unanime,
che sembra spingere Fassino a
riprendere la guida di quel piccolissimo
movimento che nella
sinistra si è sempre battuto per
spostare la linea su posizioni più
vicine (o meno lontane,secondo
i punti di vista) a Israele. Il segretario
lo ha fatto con diverse
interviste e articoli sui giornali
già all’indomani del ritiro da
Gaza.E ora - di fronte alle affermazioni
di Ahmadinejad - sembra
deciso a raccoglierne il frutto.
Non solo con la tempestiva
adesione alla manifestazione
del Foglio. Anche, per esempio,
con la decisione di dare una
struttura più solida e riconosciuta
a quella «Sinistra per Israele»
che finora - all’interno dei Ds -
si è organizzata prevalentemente
a Milano, con una piccola appendice
romana.
Guidata da Giuseppe Franchetti,
presidente della Federazione
sionistica italiana e dell’associazione
Keshet, «Sinistra per
Israele» sembra destinata a uscire
presto dall’ombra. Fassino ha
intenzione infatti di affidarne il rilancio a Furio Colombo (che
ha anche l’indiscutibile vantaggio
"tattico" di essere inattaccabile
da sinistra, dopo la sua bellicosa
stagione antiberlusconiana
all’Unità). Dell’associazione fanno
parte anche Giuseppe Caldarola
e Victor Magiar, che naturalmente
saranno entrambi alla
manifestazione. Il diessino Magiar,
tra l’altro, è assessore alla
cultura nella comunità ebraica
romana, in quella sorta di governo
di Grosse Koalition che vede
nel ruolo di portavoce
Riccardo Pacifici,
assai più vicino al
centrodestra.
«Speriamo che la
manifestazione sia
anche l’occasione per
la comunità ebraica
di Roma per guardare
con maggiore
apertura a tutte le forze politiche
», dice Fabio Nicolucci, che
oltre a essere collaboratore del
Riformista è anche il primo responsabile
di quel manifesto di
adesione al corteo, affisso dai Ds
di Roma, che ieri campeggiava a
pagina tre del Foglio.
Naturalmente a determinare
l’adesione dei Ds alla manifestazione
è l’enormità delle dichiarazioni
del presidente iraniano,che
ha parlato di «cancellare Israele
dalla mappa del mondo». Questa
è la novità, sottolineano al
Botteghino, dove non mancano
le risposte polemiche a chi contesti
la «continuità» della loro linea.
«Qualora ce ne fosse ancora
bisogno - sibilano - l’adesione alla
manifestazione dell’intero stato
maggiore del partito dimostra
quanto sia ridicolo il tentativo di
cucire attorno alla sinistra un’immagine
caricaturale da parte di
alcuni giornali». Il riferimento,
per chi non lo avesse capito, è al
quotidiano di via Solferino.
Ma forse alla scelta diessina
ha contribuito anche la riapertura,
sull’onda delle primarie, della
prospettiva di un partito unico,
che in qualche modo dà più
forza ai riformisti e allo stesso
tempo li costringe a competere.
Come osserva Nicolucci: «Le
primarie hanno riaperto una
battaglia delle idee. Certe timidezze
su Israele erano anche figlie
della guerra fredda: l’accelerazione
sul partito riformista e
dunque il superamento dei partiti
cresciuti dentro gli schemi
della guerra fredda rende più
semplice entrare nel merito».
Esiste però ancora un’altra
interpretazione. Certo la svolta
di Sharon, certo l’enormità delle
parole di Ahmadinejad, ma anche
- se non innanzi tutto - la
scomparsa di Arafat. «La morte
di un uomo che libera i vivi». La
morte dell’uomo che firmava la
pace in inglese e lanciava proclami
di guerra in arabo, seguita
dall’ascesa di una leadership palestinese
certo più debole, ma
pure più generosa. Non manca,
anche nei Ds, chi sia convinto
che il vero cordone ombelicale
con le posizioni palestinesi si sia
rotto allora.E soltanto così.
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