La lotta di Akbar Ganji contro il regime degli Ayatollah
un articolo della scrittrice iraniana Azar Nafisi
Testata: Corriere della Sera
Data: 30/10/2005
Pagina: 1
Autore: Azar Nafisi
Titolo: Ganji il persiano contro la tirannia degli ayatollah
Riportiamo dal CORRIERE DELLA SERA di domenica 30 ottobre 2005 un articolo di Azar Nafisi sul dissidente iraniano Akbar Ganji.

Ecco il testo:

Il dissidente Akbar Ganji è in prigione dal 2000 per avere criticato il regime degli Ayatollah di Teheran. In carcere, tra malattie e scioperi della fame, il pacifista continua la sua opposizione ispirandosi ai filosofi occidentali e ai poeti della tradizione persiana, proprio mentre il presidente iraniano Ahmadinejad lancia nuove minacce contro Israele. Ganji ha capito che deve rifiutarsi di giocare con le regole scelte da chi è al potere.
Oggi il mio volto disfatto è il vero volto della Repubblica islamica dell'Iran. Sono il simbolo della giustizia che, se visto in modo corretto, mette in luce l'intera portata dell'oppressione di chi governa la Repubblica islamica. Il mio corpo e il mio volto consunti rivelano, paradossalmente, la giustizia che proclamo e l'oppressione che subisco. Tutti quelli che mi vedono ora mi chiedono, sorpresi, «Sei Akbar Ganji? Che cosa ti hanno fatto?» («Lettera al Popolo libero del mondo», 1˚luglio 2005).
Benché sia in prigione dal 2000 e sia stato seriamente minato da malattie e dai due mesi di sciopero della fame fatti quest'estate, Akbar Ganji resta una delle figure di spicco dell'Iran di oggi. Tra i rivoluzionari che nel passato hanno contestato la Repubblica islamica, nessuno ha mostrato il suo coraggio intellettuale e morale nel mettere in discussione e inchiodare alle proprie responsabilità non solo il regime islamico, ma anche la propria vicenda personale. La sua resistenza alla tirannia del regime è al contempo una profonda critica al giovane militante islamista che un tempo desiderava ardentemente compiere la Rivoluzione Islamica. La sua trasformazione da islamista militante a coraggioso dissidente e vigoroso difensore della democrazia e dei diritti umani mostra come la Rivoluzione islamica abbia fallito. La trasformazione di Ganji ci dà un po' più di fiducia in noi e nella possibilità che la società iraniana cambi. Il suo atteggiamento fermo e inflessibile deriva da una vivacità intellettuale e da un'integrità morale che lo stimolano a un'incessante ricerca della verità e al desiderio di rivelarla. Nato in un quartiere povero di Teheran, da adolescente Ganji divenne un islamista radicale e assurse a una posizione influente nelle guardie rivoluzionarie. Alla fine degli anni Ottanta cominciò tuttavia a nutrire riserve sul regime islamico ed entrò a far parte dello staff di una nuova rivista intellettuale riformista che si chiamava Kian. Qui partecipò a un seminario tenuto dal filosofo Abdul Karim Soroush che gli aprì orizzonti nuovi, ma in seguito superò le posizioni di tutti gli altri suoi compagni sia nella teoria che nella pratica. Negli anni Novanta Ganji si fece notare come il maggior giornalista d'inchiesta iraniano e divenne famoso per gli articoli che collegavano la serie di uccisioni di dissidenti in patria e all'estero ai più alti esponenti del regime. Nell'aprile del 2000, dopo aver partecipato a un congresso all'«Heinrich Böll Institut » di Berlino, fu arrestato e accusato di fare propaganda contro il sistema islamico. Da allora è in prigione.
Sia nel leggere Hannah Arendt e Karl Popper che nell'attività giornalistica, Ganji ha agito con audacia e franchezza, senza la timidezza e l'ambiguità proprie di molti dei suoi compagni riformisti. Non ha accettato le risposte troppo facili o i compromessi opportunisti. Per lui la battaglia contro il regime islamico è diventata un imperativo anche esistenziale. In una lettera a Soroush, il maestro che Ganji ha poi ampiamente superato, dichiara: «Le lettere e le note che ho scritto traggono tutte alimento dalla mia essenza vitale. Per una decina di pagine ho perso 25 chili di carne e sangue».
La natura radicale della trasformazione di Ganji sgorga non dalle sue opinioni politiche ma dal modo in cui ha scelto di manifestarle, dimostrando che il fine è effettivamente la somma dei mezzi impiegati per conseguirlo. Ganji ha capito che la prima regola per opporsi a un regime totalitario è creare un modello di resistenza la cui efficacia risieda nel rifiuto di giocare con le regole scelte da chi è al potere. E ha creato un dominio differente, uno spazio all'interno del quale è lui a stabilire le regole. Mettere in discussione il regime islamico non è solo un atteggiamento politico, ma anche culturale e ideologico.
Ganji comincia attaccando il tentativo del regime di legittimare le sue regole appropriandosi della religione e pretendendo di essere il solo rappresentante e interprete della cultura iraniana. Si appella a una tradizione diversa, assai più radicata nella nostra cultura, la tradizione sovversiva rappresentata da poeti come Molana Jala al-Din Rumi (1207-73) e Khwaja Shams ud-Din Hafiz-i Shirazi (1310-79), con le loro critiche aspre e implacabili ai religiosi ipocriti e alle dottrine asfittiche. In questo modo nega le pretese del regime e contemporaneamente recupera l'autentico patrimonio iraniano attraverso i suoi rappresentanti culturali. Ganji rivela la natura ideologica del regime islamico, il modo in cui l'Islam è stato usato ideologicamente per ottenere e mantenere il potere. Citando Hannah Arendt e altri filosofi occidentali, dimostra che il regime deve di più alle moderne ideologie totalitarie, come il fascismo e il comunismo, che all'Islam e alle tradizioni islamiche. In questo modo restituisce dignità alla religione che in gioventù anche lui aveva contribuito a far usare in modo improprio.
Ganji va anche al di là delle differenze di religione, etnia o nazione, riconoscendo l'universalità di concetti come democrazia e diritti umani. Così riporta l'Iran nel mondo, attingendo liberamente dagli scritti dei pensatori democratici dell'Occidente.
In un periodo in cui potrebbe sembrare che le uniche alternative siano accettare il sistema islamico e lavorarvi all'interno o opporsi al regime con gli stessi metodi violenti che gli sono propri, Ganji propone una terza possibilità. Mentre rifiuta la costituzione e il dominio di un leader supremo e chiede un Iran laico e democratico, questo dissidente propone una resistenza nonviolenta. Il suo sciopero della fame, i suoi scritti dalla prigione, le sue richieste di boicottare le elezioni vanno tutti nella direzione di questa terza alternativa.
La strada scelta da chi segue la voce di Ganji è piena di pericoli. La battaglia è lontana dall'essere finita, ma quando si pensa a quei pericoli, bisogna anche ricordare i versi del suo poeta preferito, Rumi, che Ganji cita in una lettera: «Felice è il giocatore che, dopo aver perso tutto quello che possiede, non ha più nulla se non il bisogno di giocare ancora».
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