LA REPUBBLICA di giovedì 20 0ttobre 2005 pubblica in prima pagina e pagina 3 l'articolo di Bernardo Valli "L'orgoglio del despota alla sbarra".
Saddam Hussein vi è presenttao come una figura che incute rispetto e ammirazione, il processo contro di lui come una farsa.
In tale la differita della trasmissione televisiva del dibattimento serve "a dar tempo (venti minuti) al governo di censurare eventuali dichiarazioni degli imputati".
In realtà, non di censura si tratta, ma della comprensibile volontà di evitare commizi intimidazioni, messaggi ai terroristi.UNA PAROLA, «afia!» fa sobbalzare l´iracheno accanto a me, e probabilmente tanti altri, tra i milioni in questo momento davanti ai televisori, da Bassora a Kirkuk.
A pronunciarla è Saddam Hussein, seduto nella gabbia a sbarre bianche. «Bene!» L´ex raìs approva così, con quelle semplici sillabe, con il tono di chi è abituato al comando, annuendo appena col capo, la protesta del suo vicino sul banco degli imputati. Awad Hamma al Bandar, un tempo presidente del tribunale rivoluzionario che mandava tanta gente a morte, si è risentito quando i gendarmi gli hanno tolto il copricapo, con i colori della tribù, ed esige che gli sia restituito. Ne va della sua dignità.
Saddam apprezza lo scatto di collera di al Bandar, ferito nell´orgoglio tribale. Approva anche, condiscendente, il curdo Rizgar Muhammad Amin, del quale nega la legittimità come presidente del tribunale che lo sta giudicando, ma del quale elogia la cortesia verso l´offeso al Bandar (che finisce col recuperare il copricapo). Saddam usa la stessa laconica, sobria espressione con cui encomiava un soldato, un poliziotto, un qualsiasi iracheno ai suoi occhi meritevole, nel quarto di secolo in cui era al potere. Quella parola «afia!», scandita tante volte in pubblico, faceva tirare un sospiro di sollievo. Significava che il raìs onnipotente era soddisfatto, che non si doveva temere uno dei suoi sanguinosi scatti d´ira. Nella veste d´imputato, a sua volta con la pena di morte sospesa sul capo, Saddam dimostra ai milioni di iracheni davanti ai televisori che, nonostante sia prigioniero, è accusato di innumerevoli crimini contro l´umanità, lui si sente ancora il raìs.
E come tale può elogiare chi lo merita. Amici e nemici, come un vero capo: sia l´ex presidente del tribunale che formalizzava le sue rappresaglie, i suoi massacri, le sue repressioni, le sue vendette, sia il presidente del tribunale che adesso può mandarlo al capestro.
Non è facile definire l´atteggiamento compassato, orgoglioso, al momento della resa dei conti, di un despota colpevole di innumerevoli crimini (il procuratore aggiudica a Saddam «più di 2 milioni di morti», contabilizzando anche le vittime delle sue guerre). Più che di dignità si tratta di arroganza, di un´arroganza accompagnata da un evidente coraggio. L´ex raìs non ha perduto né l´una né l´altro. Né l´arroganza né il coraggio. I ventidue mesi di prigione non l´hanno domato. Non è un uomo rassegnato quello che milioni di iracheni vedono seduto nella gabbia, insieme ai sette suoi complici nella strage avvenuta nel villaggio sciita di Dujail (più di 150 morti) nel 1982. La segregazione ha affilato il suo profilo. Lo sguardo resta vivo, fermo. Anche se, privato del potere, non incute più il timore di quando neppure gli ufficiali che decorava usavano incrociarlo. Preferivano abbassare gli occhi, quasi avessero paura di essere fulminati. Era il terrore. Adesso il Saddam prigioniero suscita tante contrastanti passioni.
Indossa un abito grigio scuro, che da lontano sembra corretto, pulito e stirato. Altrettanto vale per la camicia bianca aperta sul collo. La barba color pepe, candida sulla punta, è ben curata. I capelli scuri sono pettinati all´indietro. L´ex raìs ha fatto una toilette meticolosa per apparire davanti al tribunale, soprattutto davanti agli iracheni che non lo vedono dal luglio 2004, quando fu mostrato alla televisione in occasione di un interrogatorio, nella fase istruttoria per gli innumerevoli processi (almeno una dozzina) che l´attendono. L´aspetto conta. Come il tono della voce e il linguaggio che deve essere semplice e comprensibile a tutti. L´aspetto, i toni, le espressioni di Saddam sono quasi perfetti quando il presidente curdo Amin gli chiede nome, cognome, data di nascita e professione, come se fosse un semplice imputato, sconosciuto, e lui replica che un iracheno non può ignorare l´identità del raìs.
Anche nei brevi battibecchi con il giudice curdo, le reazioni dell´ex raìs non si discostano mai troppo da un tono pacato. Ma esse hanno un´enorme carica suggestiva.
L´ha senz´altro il suo rifiuto di declinare l´identità. E´ come se dicesse al tribunale: perché fingete di non conoscermi? E´ inutile che cerchiate di umiliarmi. Milioni di ritratti di Saddam hanno dominato strade, piazze, edifici pubblici e case private, per un quarto di secolo.
Curdi e sciiti li hanno deturpati o distrutti. Molti sunniti li hanno invece, ancora, appesi accanto al letto.
Le parole di Saddam provocano fremiti di indignazione e di orgoglio, di paura e di speranza.
Quando poi richiama all´ordine il giudice curdo Amin che lo ha definito «ex» presidente, e lo corregge dicendogli che lui è ancora il presidente legittimo dell´Iraq, suscita senz´altro entusiasmo nell´insurrezione armata. La quale recupera il raìs. E scandalizza invece sciiti e curdi, che lo vorrebbero già morto. Il tribunale?
Come può avere il diritto di giudicare un capo di Stato iracheno? Come può osare tanto un tribunale creato dalle forze straniere d´occupazione? Esso è illegittimo come lo è il governo creato dagli americani.
Quando entra in tribunale Saddam ha il Corano in mano.
Ha avuto il tempo di leggerne numerosi versetti nelle lunghe ore d´attesa, nella zona verde, dove ci sono i ministeri iracheni e l´ambasciata americana, e dove nel vecchio Palazzo della Repubblica, suo palazzo di un tempo, è stato installato il tribunale. A portarlo in quella zona blindata è stato uno stormo di elicotteri che l´hanno prelevato nel carcere tenuto dagli americani, in prossimità dell´aeroporto. E là, aspettando e leggendo il Corano, ha udito l´esplosione dei colpi di mortaio sparati sulla zona verde dalla guerriglia. Erano salve in suo onore? Comunque gli hanno ricordato che c´è un altro Iraq, opposto a quello che vuole giudicarlo. E condannare a morte. Un Iraq suo amico.
Questa prima udienza del processo, che riprenderà il 28 novembre per dar tempo agli avvocati di leggere i voluminosi atti d´accusa, non è proprio esemplare, ma neppure ritmata da gravi irregolarità. Una Norimberga mediorientale? Le dimensioni, la preparazione, la situazione non sono certo quelle del processo in cui furono giudicati e condannati i criminali nazisti, a conclusione della seconda guerra mondiale. Il paragone è eccessivo.
Sbagliato. Con quello di Norimberga questo processo ha tuttavia in comune un aspetto: celebrato dai vincitori. Un tribunale internazionale sarebbe stato preferibile.
Ma qui la guerra non è finita. Si spara ancora. Alla sbarra, quando si difende, Saddam si rivolge all´insurrezione armata. Ed è inevitabile che i giudici esprimano il governo che combatte quell´insurrezione. Tra le quinte ci sono inoltre gli americani, anch´essi impegnati contro la ribellione che si richiama a Saddam.
Gli americani sono presenti con un organismo (del Regime Crimes Liaison Office), insediato presso la loro ambasciata. Un organismo con un compito di supervisione e di consulenza. Ed è probabile che sproni i giudici ad esercitare le loro mansioni in modo il più possibile indipendente dal potere politico. Un´impresa ardua, anche per un magistrato come il presidente curdo Amin che durante la prima udienza ha dato prova di grande equilibrio.
Il processo è anche un esercizio pedagogico, teso a dimostrare gli effettivi orrori della dittatura saddamista.
La lezione è tuttavia impartita in un contesto in cui, malgrado la «marcia della democrazia» animata dagli americani, lo stato di diritto viene puntualmente violato.
Una guerra civile non è un contesto ideale per rispettarlo.
Non a caso la trasmissione della prima udienza è avvenuta in differita, per dar tempo (venti minuti) al governo di censurare eventuali dichiarazioni degli imputati.
Per Vittorio Zucconi il processo è invece un "legal thriller" prodotto a Washington e girato a Baghdad, ancora una farsa che però non soddisferà il pubblico americano sempre più scettico riguardo alla guerra (che però continua ad appoggiare in maggioranza)
Ecco il testo dell'articolo, "Le attese dell'America":GIRATO a Bagdad, ma prodotto a Washington, il legal thriller del processo allo Hitler della Mesopotamia, come fu definito da Bush il Vecchio, ha esordito ieri mattina in diretta dall´Iraq sui teleschermi americani. Doveva essere la prova televisiva – gradita a un pubblico come quello americano che adora i drammi processuali veri o falsi, da Perry Mason a Grisham, dal rapimento Lindbergh a O. J. Simpson – che gli ormai quasi duemila soldati perduti e i 200 miliardi di dollari spesi, non sono stati invano. E «gli iracheni stanno assumendo la responsabilità di loro stessi», come ha detto il segretario di Stato Rice in Parlamento.
Subito rinviato e quindi un po´ deludente per l´impazienza dell´audience televisiva, il kolossal «Processo a Saddam» doveva e deve essere, nelle intenzioni dei registi, il gran finale, il mantenimento solenne della promessa bushiana, «potere scappare, ma non potete sfuggirci». Norimberga a Bagdad con la doppia valenza storica di quel tribunale: la demolizione pubblica dei superuomini ridotti a banali omuncoli davanti a coloro che avevano terrorizzato; e la conferma, essenziale per l´autostima dell´America, di avere combattuto di nuovo una giusta guerra, non contro un popolo, ma contro un mostro. Credere alla bontà della natura umana, alla propensione spontanea delle creature di Dio verso la libertà e la eguaglianza dirottata soltanto da individui diabolici è un aspetto essenziale dell´essere americani.
Sfortunatamente per tutti, ma soprattutto per gli iracheni, la sceneggiatura della «guerra di liberazione» immaginata come una replica della liberazione dell´Europa, non è andata secondo il copione scritto a Washington.
Un pubblico che ormai guarda con scetticismo al regista Bush e con preoccupazione all´avvitarsi di una guerra senza fine, rischia di vivere anche questo momento culminante come una sequenza qualsiasi e non come lo «happy ending». Come tutti i grandi «villains» dei crimini contro l´umanità, come il miserabile Goering smagrito, il vile Himmler, il petulante Milosevic, il gelido e burocratico Eichmann, così anche il vecchio con gli occhi spiritati, chiuso in una mezza gabbia che qui ha ricordato i «pen», quei recinti bassi dove vengono messi all´asta manzi e maiali in Iowa o in Kansas, è apparso come l´attore di un film vecchio, anziché il protagonista della catarsi di domani. Un uomo arrogante e aggressivo, niente affatto disposto ad assecondare la «voglia di Norimberga» che la Casa Bianca vuole soddisfare.
Forse eccede il New York Times quando, nel proprio editoriale, licenzia il processo a Saddam Hussein come «un´occasione sprecata», corrosa da «regolamenti dei conti» e macchiata da «approssimazioni giuresprudenziali». Il giudizio che dovrebbe contare non è quello di Condoleezza Rice, evidentemente entusiasta, del portavoce della Casa Bianca McClellan («la legge torna a regnare in Iraq») o degli editorialisti del New York Times, ma è quello degli iracheni stessi che avranno guardato e capito meglio degli americani, afflitti da una pessima traduzione simultanea dall´arabo, che cosa il loro re nudo e i giudici si sono detti.
Ma il kolossal giudiziario deve essere, per avere successo, il punto di saldatura fra americani e iracheni e dimostrare agli uni come agli altri, e alla audience internazionale, araba, islamica, europea, che davvero l´America non invade «per conquistare, controllare e dominare» come George Bush ha ripetuto mille volte, ma per «fare giustizia». La sentenza, scontata, e la punizione, che sarà l´impiccagione (proprio come a Norimberga) vorrà essere contemporaneamente di condanna per il «barbaro tiranno» e di implicita assoluzione per chi lo ha rovesciato. Il processo a Saddam e al regime Baathista è dunque due processi in uno, organizzato per assolvere e per condannare insieme. Il problema che la prima puntata ha sottolineato, è sapere se Saddam Hussein e la Corte irachena, certamente non all´altezza dei giureconsulti americani, inglesi e francesi (con russi al fianco) raccolti a Norimberga, starà al gioco.
I registi washingtoniani avevano respinto ogni ipotesi di un tribunale internazionale come quello che sta trascinando all´infinito il processo a Slobodan Milosevic, proprio per evitare che l´impenitente «Rais» potesse giocare tra i cavilli e rendere ancora più difficile ciò che è sempre molto arduo, cioè dimostrare la responsabilità personale - la sola che nella civiltà giuridica occidentale conti - nei crimini di stato o di guerra. E scampare alla pena di morte, che nessun tribunale internazionale avrebbe comminato.
agli iracheni che hanno sofferto il morso della dittatura saddamita può bastare lo spettacolo del tiranno esposto a quella giustizia che lui aveva negato a loro. Ma agli americani, dal cui consenso ultimo dipenderà la continuazione di una guerra che non ha scadenze né uscite visibili, serve il sentimento che giustizia sia stata fatta davvero, che Saddam sia «giustiziato» come dicono i sostenitori delle forche, e non «ammazzato» ed esposto al ludibrio della folla come un Benito Mussolini. La prima puntata del «Saddam serial», sfortunatamente in diretta al mattino, in ore di basso ascolto per ragioni di fuso, è stata mediocre, un assaggio, ravvivato soltanto dalla ribellione dell´imputato alle guardie, ma senza quel dramma, che il pubblico abituato ai processi ai Clinton e ai serial killer, ai duelli fra accusa e difesa, ai rovesciamenti di copione, si attende.
Il processo a Saddam non deve essere un flop, perché era una delle pietre miliari che il progetto Iraq aveva messo lungo la strada dal marzo del 2003, la battaglia vittoriosa, il cambio di regime, le festosa accoglienza degli iracheni liberati, la scoperta e la conferma di arsenali micidiali e di complicità terroristiche, le elezioni, il Parlamento sovrano e il patibolo per Saddam. La strada è franata e la sola certezza è questo processo. Ci sono ormai troppi americani scettici verso la guerra perché il pubblico dei contribuenti e degli elettori Usa si accontenti di una sceneggiata.
Sabbino Cassese in un intervista a Guido Ruotolo pubblicata a pagina 3 della STAMPA nega l'equità dle processo.Tre i passaggi fondamentali del ragionamento del giurista:
1)tutti i giudici sono iracheni, la corte invece dovrebbe essere internazionale e includere giudici arabi
Provenienti da paesi che sono luminosi esempi di equità giudiziaria come l'Arabia Saudita e la Siria?
2) I giudici sono nominati dal Consiglio dei ministri, dunque da un organo politico
Su proposta di un consiglio della Magistratura, come lo stesso Cassese deve ammettere.
3)All'imputato non sarà consentito difendersi da solo
Per evitare commizi politici, non per toglierli il diritto alla difesa, assicurato dal collegio dei suoi avvocati.
Di seguito il testo dell'articolo, "Cassese:non è un processo equo":«Ci sono molti dubbi sulla possibilità che il processo possa essere equo. È come se la sentenza fosse già stata scritta: la presunzione di non colpevolezza è già andata a farsi benedire». Il professor Antonio Cassese, esperto di diritto internazionale, ex presidente del Tribunale Penale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia, parla del processo appena iniziato a Baghdad contro Saddam Hussein: «Rischia di essere un’occasione sprecata, perché va certo fatto il processo contro i crimini attribuiti al dittatore ma quello iniziato a Baghdad risponde soltanto alla volontà degli americani di fare giustizia nel modo che piace loro, e cioé controllando il processo stesso».
Professor Cassese, perché teme che il processo possa non essere equo?
«Per diverse ragioni. La prima: la composizione del Tribunale. Sono tutti giudici iracheni scelti da un organo politico. In base allo Statuto del Tribunale, il Consiglio dei ministri sceglie i giudici anche se su proposta di un Consiglio della magistratura, che non so cosa sia. La scelta dei giudici, quindi, non è avvenuta attraverso criteri trasparenti e imparziali ma politici. Seconda ragione: il Tribunale non comprende giudici internazionali. Sarebbe stato opportuno includere magistrati di altri paesi arabi, perché la presenza di giudici non iracheni avrebbe potuto garantire una maggiore imparzialità. E poi, la genesi di questo processo è perlomeno bizzarra».
Professore, in che senso bizzarra?
«Prima gli Stati Uniti, siamo al dicembre del 2003, iniziano a prevedere la procedura con il sistema sostanzialmente accusatorio. Ma poi si rendono conto che l’Iraq aveva mutuato un sistema processuale diverso dall’Egitto che a sua volta era stato influenzato dal sistema giudiziario inquisitorio dei francesi. Risultato: un ibrido, un processo metà accusatorio e metà inquisitorio. Di recente, alla vigilia del processo, per la precisione ad agosto, hanno modificato la norma sulla difesa degli imputati stabilendo che la difesa può essere assicurata soltanto dal difensore nominato dalle parti o di ufficio, e che non può essere assicurata dall’imputato stesso. Questa modifica si è resa necessaria per evitare quello che è accaduto con Milosevic».
Che ha utilizzato la propria difesa per imbastire un processo contro gli americani....
«Esattamente. Dunque, ritengo che le norme predisposte per il processo siano dubbie, non sembrano assicurare pienamente i diritti della difesa. Aspettiamo come i giudici applicheranno queste norme».
È giusto processare l’ex dittatore, tutti gli ex dittatori non solo Saddam Hussein?
«È un problema politico. E filosofico. Non vi sono alternative al processo. Se il dittatore non è morto a seguito del conflitto che ha portato alla sua destituzione, se non è fuggito, l’alternativa al processo è solo l’esilio. Ma in casi come questo di crimini gravissimi l’esilio non è sufficiente, l’ex dittatore va processato. Ma, attenzione, il processo va celebrato non solo contro l’ex dittatore, lo sconfitto: deve concludersi con la pronuncia su tutti i crimini commessi da chicchessia. Da questo punto di vista, getta una pesante ombra sul processo contro Saddam l’articolo 14 dello Statuto che prevede che il Tribunale possa pronunciarsi sull’aggressione contro un paese arabo, quindi il Kuwait, ma non contro l’Iran, che non è considerato un paese arabo, anche se di religione musulmana. Perché due pesi e due misure? L’aggressione all’Iran, sappiamo bene, fu sponsorizzata dall’occidente...».
Non tutti i dittatori finiscono sotto processo. Per esempio, gli spagnoli che volevano processare Pinochet non sono stati accontentati. Perché?
«In Cile la transizione è stata relativamente graduale, non cruenta, non si è realizzata al termine di una guerra civile o di una invasione. I gruppi che sostenevano Pinochet, soprattutto l’apparato militare, non sono stati disponibili a farsi processare e hanno costruito una barriera protettiva nei confronti dell’ex dittatore nominato senatore. Qualcosa di simile si può dire che è accaduto in Sudafrica, dove non sono stati processati i vecchi gruppi dirigenti bianchi che sostenevano l’apartheid. Quella minoranza detiene il potere economico e sarebbe stato devastante spazzarla via».
E l’universalità del diritto internazionale?
«È spesso legata ai rapporti di forza».
Oggi Norimberga mantiene una sua attualità?
«Direi di no. Nel senso che non si giustifica più. Abbiamo strumenti internazionali indipendenti e imparziali in grado di accertare la verità. Non quella dei vinti sui vincitori ma la verità. Punto e basta».
Intervista a Cassese, di Umberto De Giovannageli, anche a pagina 11 dell'UNITA'. Titolo:"L'Europa dica no alla forca per il raìs" Qui prevalgono considerazioni prettamente politiche e non tecniche, scondo qui il mondo arabo percepirebbe il priocesso come una "vendetta" americana.
Più probabile, a nostro giudizio, che i dittatori dell'area lo percepiscano, giustamente, come una minaccia alla loro impunità, e i loro popoli come l'inattesa scoperta che avere giustizia non è impossibile, anche in Medio Oriente.
Ecco il testo:IL «PROCESSO DEL SECOLO» aperto ieri a Baghdad analizzato da una delle massime autorità nel campo del Diritto internazionale: Antonio Cassese, professore al Cesare Alfieri di Firenze, già presidente per sei anni del Tribunale penale per i crimini nella ex Ju-
goslavia. «Questo processo - avverte il professor Cassese - potrà avere un impatto molto negativo all’interno dell’Iraq e nel mondo arabo, perchè così come è ora regolato e predisposto esso viene percepito come una vendetta contro l’ex dittatore, orchestrata dalle autorità statunitensi».
In Iraq si è aperto il processo del secolo, quello a Saddam Hussein. C'è chi paventa che questo processo si riveli una sorta di «Norimberga camuffata», non un atto di giustizia ma la vendetta dei vincitori. Avverte questo rischio?
«Sì, c'è questo rischio, perché il Tribunale speciale è stato istituito solo per processare i maggiori personaggi del passato regime e non si può pronunciare quindi né su altri crimini, commessi dopo il 1° maggio 2003, né su eventuali coinvolgimenti di potenze occidentali in avvenimenti del passato (come lo scatenamento e la condotta della guerra contro l'Iran, nel 1980). Non a caso il Tribunale ha competenza per accertare eventuali responsabilità penali in relazione all'aggressione contro il Kuwait, mentre non può indagare l'attacco dell'Iraq contro l'Iran (l'art. 14 dello Statuto del Tribunale stabilisce che questo può accertare responsabilità per aggressioni solo contro un altro "Paese arabo"). Quindi, il tribunale ha tutti i limiti del Tribunale di Norimberga, senza averne taluni meriti (la composizione internazionale, la condotta tutto sommato equa del processo, la comminazione di pene giuste, con tre proscioglimenti)».
Prim’ancora che il processo avesse inizio, c’è già chi, ai vertici dell’attuale governo di Baghdad come nell’amministrazione Usa, ha invocato la condanna dell’ex raìs alla pena capitale. Come valuta questo atteggiamento in rapporto al diritto di ogni imputato ad avere un giusto processo?
«Certo, in questi processi la presunzione di innocenza o meglio, come dice la nostra Costituzione, di non colpevolezza, quasi scompare, e il processo rischia di diventare una farsa, culminante in una pena già prevista e voluta dall'inizio. I giudici iracheni dovrebbero sforzarsi di essere imparziali ed equanimi, e valutare con rigore le prove raccolte dal giudice istruttore. Altrimenti il processo rischia di diventare un evento teatrale che finisce per nuocere all'attuale governo».
L’Europa che ha ripudiato anche nella sua Costituzione sovranazionale, oltre che in quelle dei singoli Paesi, la pena capitale, come può conciliare questa civiltà giuridica con l’accettazione di veder processato l’imputato-Saddam in un Paese il cui ordinamento contempla la condanna a morte?
«La pena di morte è inaccettabile, per ragioni di principio. Ed infatti è stata espunta dagli statuti di tutti i tribunali internazionali, sia di quelli per l'ex Jugoslavia e per il Ruanda, sia della Corte penale internazionale. I Paesi europei, che credono fermamente nell'abolizione della pena capitale, dovrebbero sollecitare le autorità irachene a non applicare quella pena barbara. Certo, tenere l'ex dittatore in un carcere a Baghdad può esporre le autorità a ricatti, atti terroristici, catture di ostaggi, e via discorrendo. Forse sarebbe più opportuno, come è stato già proposto, detenere Saddam, ove condannato all'ergastolo, in una carcere internazionale, gestito dall'Onu e sottratto al potere di ricatto degli insorti baathisti».
Quale impatto potrà avere, a suo avviso, il processo a Saddam in Iraq e nel mondo arabo?
«Può avere un impatto molto negativo, perché il processo, così come è ora regolato e predisposto, è percepito come una vendetta contro l'ex dittatore, orchestrata e teleguidata dalle autorità statunitensi. Se il processo non sarà equo ed imparziale, la sua eco nel mondo arabo sarà devastante perché accentuerà l'antiamericanismo, già così diffuso».
L’imputato Saddam ha sempre rifiutato di riconoscere l’autorità del potere, politico-istituzionale prim’ancora che giudiziario, che lo processa. Un atteggiamento confermato nella prima, tumultuosa udienza processuale. Come valuta questa strategia di difesa?
«È la strategia di tutti i leader politici che si considerano sottoposti a giudizio penale solo per ragioni politiche e quindi contestano la legittimità della corte che li giudica. Una strategia di attacco, volta a screditare i giudici e le istituzioni pubbliche che li hanno designati. In questo caso però, gli americani e gli iracheni hanno fatto tesoro della lezione del processo Milosevic, che ha voluto difendersi da sé, imbastendo in realtà comizi politici. A Saddam ciò è stato impedito, perché qualche mese fa le autorità irachene hanno cambiato una norma di procedura che consentiva all'imputato di difendersi da sé, ed hanno imposto a tutti gli imputati l'obbligo di avvalersi di un difensore, che potrà essere l'unico a parlare, tranne i casi in cui l'imputato deve parlare perché interrogato dalla Corte»
Giulian Sgrena sul MANIFESTO firma l'editoriale "Senza giustizia".
Vi si sostiene che il processo ha lo scopo di distogliere l'attenzione dai risultati e dai probabili brogli del referendum costituzionale iracheno, e che il rapimento del giornalista irlandese Roy Carrol ha lo scopo di distogliere l'attenzione dalle reazioni della popolazione irachena al processo. Puro delirio.
A proposito del rapimento di Roy Carrol, Giuliana Sgrena si augura una conclusione positiva, dato che il sequestrato scriveva sul Guardian, quotidiano che si è opposto alla politica di Tony Blair.
Dato, insomma che è un'altro "di loro".
Ecco il testo:Effetto referendum. Non si conoscono ancora i risultati del referendum sulla costituzione (ma si sapranno mai quelli veri?) del 15 ottobre e, non a caso, forse proprio per nascondere i brogli, ieri è stata orchestrata la prima seduta del processo-farsa a Saddam Hussein, già rimandato a fine novembre. Una messinscena che ha avuto il suo corollario nel rapimento del corrispondente del Guardian Rory Carroll a Baghdad. Un paese fuori legge non può avere testimoni, nemmeno quelli veri, che vanno a vedere cosa succede a Sadr city, come l'inviato irlandese. Anzi sono proprio quelli i più pericolosi, per gli occupanti e per chi dice di essere contro l'occupazione. Come mi avevano spiegato i miei rapitori. Il referendum doveva servire ad avallare una carta costituzionale costruita sull'esclusione della minoranza sunnita. Che avrebbe potuto respingerla, con una maggioranza di due terzi in tre province. E forse l'ha fatto, nonostante le divisioni tra i sostenitori del no e quelli del boicottaggio. Ma se così fosse il processo di transizione controllato dagli americani salterebbe. Ed è difficile che questo possa succedere in un paese occupato da circa 150.000 marine. E non succederà.
Anche perché i marine godono dell'impunità non solo quando uccidono iracheni, ma anche stranieri. Come si è visto con l'uccisione di Nicola Calipari. E altri, giornalisti compresi. Ma proprio ieri, il giudice dell'Audiencia nacional di Madrid Santiago Pedraz, di fronte alla mancata collaborazione degli Stati uniti, ha emesso un mandato di cattura internazionale e la richiesta di estradizione per tre militari Usa sotto inchiesta per l'uccisione del cameraman spagnolo, José Couso. L'operatore di Telecinco era stato colpito da una cannonata sparata da un carro armato statunitense, l'8 aprile del 2003, mentre faceva le sue riprese dall'hotel Palestine, dove si trovavano la maggior parte di noi giornalisti presenti a Baghdad. Insieme a Couso era stato ucciso anche l'ucraino Taras Protsyuk della Reuters. La coraggiosa decisione del giudice spagnolo potrebbe costituire un importante precedente anche per il caso Calipari.
La coincidenza con l'inizio del processo a Saddam da parte di un tribunale, ora si chiama Alta corte penale, non può essere casuale. In Iraq c'è bisogno di giustizia, vera, non quella dei vincitori che disprezzano la popolazione irachena. Non ci sarà pace senza giustizia. Ma la giustizia non può essere vendetta. Una vendetta che sta già dissanguando l'Iraq con migliaia di morti. E non saranno le condanne a morte a gettare le basi della democrazia in Iraq. Anche se sul patibolo dovesse finire un dittatore sanguinario come Saddam Hussein, accusato di crimini contro l'umanità.
Rory Carroll voleva raccontare la reazione degli iracheni al processo a Saddam vista da un quartiere che aveva sofferto la repressione dell'ex raìs, la bidonville sciita di Sadr city. Ma uomini armati l'hanno sequestrato mentre lasciava la casa di una delle vittime di Saddam Hussein. Questa guerra non vuole testimoni, l'ho provato sulla mia pelle. Torna così lo spettro dei sequestri. Particolarmente drammatico perché il rapimento del giornalista del Guardian riporta immediatamente alla mente quello di altri due britannici con passaporto irlandese, Margaret Hassan e Kenneth Bigley, che hanno fatto una brutta fine. Margaret era stata rapita esattamente un anno fa. Speriamo che i rapitori di Rory Carroll siano più ragionevoli e sappiano riconoscere il suo lavoro in un giornale che ha contrastato le scelte belliche di Tony Blair.
Come sempre il più esplicito sul quotidiano comunista è Stefano Chiarini. La sua cronaca del processo s'intitola, in segno di solidarietà a Saddam Hussein " Io sono il presidente, lei chi è? ".
Nel testo, il tribunale è definito "made in Usa", il processo, "processo-vendetta", Saddam Hussein il "presidente" (ancora in carica, dunque) dell'Iraq.
Pieno di orgoglio indomabile di fronte alla sopraffazione, Saddam riesce però anche a "rassicurare", il giovane giudice curdo che presiede il tribunale, assicurandogli che non lo odia. Vale la pena di ricordare che simili rassicurazioni "mafiose" sono state più volte fornite dal raìs a rivali politici in esilio, indotti a tornare in Iraq e poi ammazzati.
Ecco il testo dell'articolo:«Sono il presidente dell' Iraq, lei chi è? Cosa vuole?» Con queste parole Saddam Hussein, dimagrito, con la barba chiazzata di bianco, ma sempre battagliero, ha apostrofato il presidente del tribunale speciale «made in Usa» nella prima seduta del processo-vendetta che lo vede sul banco degli imputati insieme ad altri sette esponenti del passato regime tra i quali il vice-presidente Taha Yassin Ramadan e il suo fratellastro Barzan al Tikrit. Entrato in aula con grande calma, vestito blu e camicia bianca senza cravatta, il sessantottenne «Rais» iracheno, dopo aver apostrofato i due agenti che lo sollecitavano a camminare più in fretta, al giudice curdo che gli chiedeva le generalità ha risposto, contestando la corte e l'intero processo, «Voi mi conoscete, voi siete iracheno e sapete certamente due cose, il mio nome e che non mi arrenderò mai all'arbitrio e all'occupazione».
Il presidente del tribunale speciale nominato dall'ex vicere Usa, Paul Bremer, Rizgar Mohamed Amin di origini curde - gli altri quattro magistrati, come tutti i testimoni sono rimasti anonimi - lo ha quindi invitato di nuovo a declinare le sue generalità ma il presidente iracheno ha risposto, sempre più deciso: «L'aggressione all'Iraq è illegittima e quindi qualsiasi istituzione, come questo tribunale e questo processo, costruita sulla illegalità non ha alcuna legittimità. Per rispetto al glorioso popolo iracheno, rifiuto di rispondere perché questo tribunale è illegale». Poi, quasi a tranquillizzare il giovane giudice, Saddam Hussein, con in mano un'antica copia del Corano, dal banco degli imputati -al centro di una grande sala dell'ex partito Baath nella «zona verde», la «città proibita» dove sorgono le ambasciate di Usa e Gb e i ministeri del governo collaborazionista - ha aggiunto: «Non provo alcun odio verso di voi. Rivendico i miei diritti costituzionali, quale presidente dell' Iraq, e non andrò oltre». Gli ha fatto eco il vice-presidente iracheno Taha Yassin Ramadan - accusato anche lui per la repressione seguita ad un fallito attentato alla vita di Saddam Hussein, nel villaggio di Dujail, nel 1982, in piena guerra con l'Iran - il quale, contestando la legittimità della Corte ha poi aggiunto «la mia identità mi è stata sottratta come avete sottratto l'identità dell'Iraq».
Dopo due ore e mezza il procedimento è stato aggiornato al 28 novembre sia per privare Saddam Hussein di un palcoscenico dal quale contestare l'occupazione del suo paese sia perché gran parte dei testimoni ha preferito non presentarsi al tribunale. Le immagini dell'udienza sono state trasmesse in televisione, ma per evitare sorprese, in differita di venti minuti. Prima è stato inquadrato il giudice che presiede il tribunale speciale di cinque magistrati, il curdo Rizgar Mohammed Amin , poi il recinto predisposto per gli imputati. Quattro di questi hanno chiesto e ottenuto d'indossare i loro copricapi tradizionali che gli erano stati sottratti, per umiliarli, al momento dell'ingresso in aula. Oltre al vice presidente Ramadan, gli altri accusati sono Barzan Ibrahim al Tikrit, fratellastro di Saddam ed ex capo dell'intelligence, l'ex giudice Awad Hamed al Bandar presidente del trubunale per la sicurezza dello stato, e una serie di ex esponenti del partito Baath nella cittadina di Dujail. Tutti rischiano la pena di morte. La sentenza sarà eseguita entro 30 giorni dalla fine del processo di appello.
«In realtà la sentenza è stata già scritta e il processo sarà un mero spettacolo» ha dichiarato ieri Khalil al Dulaimi l'unico avvocato difensore di Saddam Hussein, ammesso in aula che ha poi aggiunto «Non potrà mai essere un processo giusto od onesto, perché la Corte si è posta allo stesso tempo come giudice, giuria e pubblica accusa». In una lettera inviata agli «osservatori del processo di Baghdad», il portavoce del comitato per la difesa di Saddam Hussein, l'avvocato Issam al-Ghazawi, ha intanto ricordato che «l'imputato, la sua famiglia e il suo difensore designato in aula hanno richiesto che all'imputato medesimo venisse consentito d'incontrare un certo numero di avvocati» stranieri, tra cui l'ex segretario alla giustizia Usa Ramsey Clark e Najib Bin Mohammed al-Nuaimi, ma che «tutti gli incontri sono stati negati». Commentando il processo, nei confronti del quale sono state espresse pesanti critiche da parte dell'Onu e di Human Rights Whatch, il presidente Usa George Bush ieri si è dichiarato convinto che «rispetterà gli standard del diritto internazionale» e che sia «il simbolo che lo stato di diritto sta tornando in Iraq».
L'articolo "Dujail e il sogno di Khomeini" che racconta la storia del massacro di sciiti che costituisce il primo capo di imputazione del processo, spiegando che avveniva in un momento di grave difficoltà per il regime, mentre "Israele assediava Beirut e riforniva d'armi l'Iran" contiene un altro esempio ammirevole della prosa di Chiarini:Degli arrestati 143, ritenuti parte del complotto
(per attentare alla vita di Saddam, ndr)vennero giustiziati negli anni successivi mentre altri, tra i quali molte donne, ragazzi e anziani, vennero portati nel carcere di Abu Ghraib e poi in un campo di prigionia in una zona desertica nel sud dell'Iraq dove molti morirono per le difficili condizioni di prigionia
"Molti morirono per le difficili condizioni di prigionia"... quando si dice l'asetticità del giornalismo di scuola anglosassone!
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