Il "Club dei vedovi di Arafat" non è ancora stato fondato in Italia, nè lo sarà mai. Ed è un vero peccato, perchè sarebbe affollatissimo. Fra i tanti, ci sarebbe di sicuro Antonio Ferrari, da lunghissimi anni estimatore del defunto rais sul CORRIERE DELLA SERA, e, come gli altri, fra quelli che, dopo la sua morte, hanno girato pagina come se niente fosse successo, come se non avesse tessuto le lodi del bandito defunto a Parigi in centinaia di articoli. Non essendo più prudente farlo, dopo che le imprese politico-finanziarie del defunto sono venute a galla, a qualcosa bisogna pur appigliarsi per tessere altre lodi. Ecco che arriva, miracolo !, un altro defunto, Edward Said, grande avversario di Arafat, quindi utile alla bisogna in chiave anti-israeliana. Solo che Said era contro Arafat non perchè lo giudicasse nemico della pace, nemico degli stessi palestinesi, ladro e furfante. No, gli era nemico perchè lo giudicava troppo moderato. Famosa la foto che lo ritraeva mentre al confine con il Libano istruiva il figlioletto a lanciare pietre contro i soldati israeliani. Ferrari ne fa un elogio post-mortem in occasione dell'uscita di un libro che raccoglie vari suoi scritti. Ne rievoca la figura con totale esaltazione, facendolo passare per un teorico della non violenza, ne elenca le frequentazioni israeliane (come se essere amici di Daniel Barenboim o Noam Chomsky equivalesse ad una assoluzione per qualunque posizione presa), ne elogia i titoli accademici, ne nasconde la profonda avversione per qualunque tentativo di accordo di pace fra israeliani e palestinesi (altrochè pacifista nonviolento!),usa le virgolette per isolare apprezzamenti negativi, fino a dichiararlo "intellettuale scomodo" che non piaceva a israeliani e a palestinesi, il che "conferma la sua grandezza".
Quanto male hanno fatto, in primo luogo ai palestinesi, giornalisti, scrittori e intellettuali vari italiani che, con la scusa di difenderne la causa, hanno giustificato banditi e mistificatori purchè fossero schierati contro Israele. Edward Said fu uno di questi, certamente il più colto e il più brillante, proprio per queste doti il peggiore. Giusto quindi, per un appartenente al "Club dei vedovi di Arafat" tesserne le lodi.
Ecco l'articolo di Antonio Ferrari.
"Fratelli miei, avete sbagliato tutto". Persino sul letto di morte, ormai stroncato dalla leucemia, Edward Said, il più grande intellettuale palestinese, coscienza critica di un popolo vittima e complice dei propri errori, ha continuato a piantare con lucidità la sua sonda spietata nelle ragioni più profonde di un doloroso fallimento. Favorito dalla strategia degli israeliani che, diceva lo scrittore citando i romanzi di Jane Austen, hanno sempre fatto gravare sulle concessioni dell'ultimo minuto «condizioni, restrizioni e clausole su proprietà che si attendono all'infinito e non si possono mai ottenere materialmente». Ma fallimento provocato parallelamente dall'insipienza, da un «dirigismo prossimo all'autocrazia» e dalla dilagante corruzione che hanno seguito come ombre inquietanti la nascita e il tormentato cammino dell'Autorità nazionale palestinese, cioè l'embrione di quello che dovrà diventare il futuro Stato. Con un furore intellettuale che trasuda da tutti i suoi scritti, il celebre autore di Orientalismo
sgretola le speranze nate con gli accordi segreti di Oslo del 1993, che portarono alla storica Dichiarazione di principi, benedetta dalla stretta di mano fra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il presidente palestinese Yasser Arafat, nel giardino della Casa Bianca. Lo scrittore, rispettato ma non amato, anzi decisamente discusso dalla leadership dell'Anp, era infatti convinto che il processo avviato ad Oslo fosse stato lo strangolamento delle aspirazioni palestinesi. In altre parole, «un disastro». Il coraggio, universalmente riconosciuto, di cui diedero prova Rabin e Arafat è ritenuto da Said un equivoco interpretativo, e il leader dell'Olp viene definito «responsabile di una complice e devastante condiscendenza», sia nei confronti di Israele che degli Stati Uniti.
Lo scrittore ha sempre rivendicato il diritto intellettuale di non essere acquiescente e comprensivo con la propria parte; e di giudicare con pari intransigenza l'avversario, sostenendo che tutte le tappe prodotte dagli «sciagurati accordi di Oslo» non furono altro che una dolorosa messinscena. A cominciare dal fallimento degli incontri di Camp David nell'estate del 2000, quando il traguardo della pace pareva davvero vicinissimo. L'idea che, in quei giorni, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e il premier israeliano Ehud Barak fossero pronti a concedere quasi tutto mentre l'Olp rifiutava ostinatamente la generosa offerta, viene smantellata senza possibilità d'appello, perché giudicata «falsa».
Ipotesi per alcuni credibile, se si considera (come sostengono numerosi analisti) che durante quel negoziato non vi era alcun impegno scritto: né su Gerusalemme né sul diritto al ritorno né sulla terra da restituire; per altri, ipotesi assai fragile, perché è fuor di dubbio che fu Arafat a respingere tutto, persino le intenzioni, senza lasciar aperto uno spiraglio su quella storica opportunità. Opportunità meramente teorica, dice Said: tanto teorica da essere inesistente.
Il titolo del suo ultimo libro,
La pace possibile
(il Saggiatore, pagine 348, e 20, in libreria da martedì), che raccoglie gli ultimi articoli scritti per i quotidiani arabi Al-Ahram e
Al-Hayat, e che è una sorta di testamento politico, sembra contraddire queste convinzioni. Ma non è così, perché l'idea-forza del grande intellettuale palestinese, professore di Letteratura comparata alla Columbia University di New York, è che non si debbano cercare improbabili scorciatoie, ma lavorare seriamente, a testa alta e senza sotterfugi, alla creazione dello Stato. Evitare quindi guerre devastanti, sanguinose e soprattutto inutili, come la seconda Intifada, e praticare invece la «resistenza non violenta». Che significa tenere saldamente le proprie posizioni, rispettare (e non svendere) i propri diritti, impedire con gli strumenti della disobbedienza civile la costruzione e l'allargamento delle colonie nei territori occupati, attenersi alla legalità internazionale.
È anche vero che Said non ha esitato a farsi del male da solo. Come quando, dopo il ritiro degli israeliani dal Sud del Libano, fu fotografato al confine mentre lanciava un sasso oltre la frontiera. Va bene che dall'altra parte c'era una fascia deserta di un paio di chilometri, ma quel gesto simbolico gli alienò molte simpatie. Alimentando, in Israele, la convinzione che l'intellettuale fosse un «pericoloso estremista»; e fra i palestinesi l'idea che fosse un utopista, prigioniero della propria immagine e ignaro delle quotidiane sofferenze del suo popolo.
Non bastano gli elogi di Noam Chomsky e la stima di Daniel Barenboim ad attenuare questo drastico giudizio. In realtà l'intellettuale scomodo, scomparso nel 2003, non piaceva né ai palestinesi né agli israeliani. È la conferma della sua grandezza.
Niente sotterfugi. Uno stato si crea con la lotta non violenta.
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