Sempre meglio del Costanzo pargolo: un film palestinese sui terroristi suicidi concorre all'oscar
recensioni, interviste e semplice propaganda a confronto
Testata:
Data: 13/10/2005
Pagina: 5
Autore: la redazione
Titolo: Arriva "Paradise now" Un Oscar per la pace - Kamikaze, una giornata particolare - Con un thriller sui kamikaze porto la Palestina all´Oscar - "Kamikaze, esserei umani" Bufera sul film palestinese
L'OPINIONE di venerdì 13 ottobre 2005 pubblica a pagina 5 l'articolo di Dimitri Buffa "Arriva "Paradise now" Un Oscar per la pace", una recensione del film palestinese candidato all'oscar, fortemente critico con i reclutatori del terrorismo suicida meno antiisraeliano di "Private" di Saverio Costanzo.

Ecco il testo:

I reclutatori dei terroristi non fanno di certo una gran bella figura
nella pellicola candidata all'Oscar e anche per questo Amnesty ha deciso di
patrocinarla

Decisivo il ruolo femminile della coprotagonista, Suha, impersonata
dall'attrice franco marocchina Lubna Azabal, figlia di un padre kamikaze di
cui non è orgogliosa


Il futuro stato di Palestina almeno una soddisfazione la meriterebbe: che
venisse assegnato l'Oscar per la regia ad Hany Abu Assad, il loro
connazionale autore di "Paradise now", un film che comunica il disprezzo per
il terrorismo in maniera almeno dieci volte superiore a quella di ogni film
sinora fatto su questa materia. Almeno in Palestina.
E' quasi come l'uomo che morde il cane. Anzi a dirla tutta questo film che
ieri è stato presentato e sponsorizzato anche da Amnesty international, che
ci tiene a far sapere, per bocca di Riccardo Noury, che "non è un caso sia
stata scelta questa pellicola qui e non quella del figlio di Costanzo",
risulta molto, ma molto, meno anti israeliano di "Private".
Fin dall'inizio il dramma che si svolge nella mente dei due futuri kamikaze,
o almeno aspiranti tali, cioè Said e Khaled, al secolo i due attori
palestinesi Kais Nashef e Ali Suleiman, è tale proprio perché appare netto
il divario tra il dire dei predicatori d'odio che li indottrinano a compiere
l'azione e che da loro si aspettano perentoriamente un'obbedienza cieca alla
presunta causa, e il fare, che consiste nell'entrare in un bus carico di
ebrei per ucciderne quanti più possibile. Said fatalmente si innamora di
Suha Azen, che è a propria volta la figlia di un "martire" per niente
orgogliosa del gesto del padre che "preferiva vivo piuttosto che in un
paradiso che esisteva solo nella sua testa". Suha, impersonata dall'attrice
franco-marocchina Lubna Azabal, nel film rappresenta la parte più
ragionevole della società palestinese , quella che si è stufata di "credere,
obbedire e combattere" e di dare i figli per una causa ormai confusa con
quella della stessa sopravvivenza dei movimenti terroristici e dei loro
capi.
E' lei, con una sorta di comizio, a convincere almeno uno dei due amici,
forse non quello di cui è innamorata, a recedere dall'intento omicida.
D'altronde i due giovani sono più annoiati che determinati a fare "l'eroico
gesto". E quando Said sta per salire sull'autobus dove dovrebbe portare la
morte ci ripensa nel momento che vede una bambina che sta chiedendo
un'informazione al conducente. Quando ritorna a Gaza dovrà anche subire i
sospetti e gli interrogatori di chi l'ha mandato a morire ammazzato, deluso
del fatto che lui sia ancora vivo.
La scena che vale il film è quella in cui si mostra come viene girata
l'ultima videocassetta del futuro martire. Khaled legge il testamento
tenendo nella mano destra un mitragliatore kalashnikov Ak 47 e nella
sinistra il Corano e un comunicato scritto.
Al culmine della drammaticità improvvisamente tutto gira: si sente uno dei
guerriglieri che interrompe la lettura con lo stesso cinismo scanzonato di
quelli che chiamano le comparse e i generici a Cinecittà . "Il nastro non è
partito, dobbiamo rifare tutto". Come a dire : non buona la prima.
Al kamikaze a quel punto la cintura esplosiva comincia a stringergli lo
stomaco. Nota i suoi capi che ridono e scherzano e qualcuno mangia anche un
felafel mentre lui si sforza di recitare il testamento.
Il dubbio di essere il terminale di una tragica messinscena, uno che si
sacrifica per la propaganda di una banda armata di assassini, mafiosi e
terroristi, piuttosto che da martire sulla via di Allah deve cominciare a
rodergli il cervello. E con messaggi del genere, peraltro molto bene girati
da Abu Assad, che si candida già a diventare il futuro Rossellini ( o
Pasolini o Visconti, i modelli che ama per sua stessa ammissione)
palestinese, non c'è da meravigliarsi che il film abbia anche trovato un co
produttore israeliano, cioè la Lumen film.
Questo film e questo regista, pur con accenti assai duri rispetto alle
responsabilità israeliane, sempre rappresentate dal loro punta di vista,
andrebbero comunque premiati per una discreta dose di onestà intellettuale
che chiunque andrà a vedere la pellicola potrà constatare di persona. Tutto
il contrario di quella squallida operazione politica che l¹intellighentsija
italiana dei vari Citto Maselli e Nannni Moretti ha messo su per spingere il
film del raccomandato figlio di Maurizio Costanzo verso la nomination
all'Oscar in quota italiana
Positiva anche la recensione di Dario Gianni pubblicata dal RIFORMISTA a pagina 8, "L'anti kamikaze che sfiderà Costanzo"

Pubblichiamo anche "Le ben lastricate vie dell'inferno", pubblicato dal sito israele.net da un articolo di Eldad Beck. Testo che, al contrario, esprime un giudizio negativo sul messaggio politico del film.

Ecco il testo.

In un momento in cui Israele cerca di convincere il resto del mondo che,
dopo il disimpegno dalla striscia di Gaza, è tempo che i palestinesi si
mettano alla prova, un nuovo film intitolato "Paradise Now" fa il tour di
mezza Europa. Girato dal regista arabo-israeliano Hani Abu-Assad, il
controverso film affronta l'argomento degli attentatori suicidi palestinesi.
Co-finanziato da diversi governi europei, è stato proiettato in vari
festival del cinema internazionali, compreso quello di Berlino, si è
aggiudicato importanti premi ed ora concorre per gli oscar europei. In
Germania, l'Agenzia Federale per l'Educazione Politica - un ente governativo
che si adopera per promuovere la consapevolezza politica fra scolari ed
altri segmenti della popolazione - ha deciso di includere il film in una
lista di opere "di valore pedagogico", accompagnandolo con un opuscolo
altrettanto problematico che spiega il film a studenti e insegnanti.
Non c'è dubbio che "Paradise Now" sia un film girato in modo eccellente. E
proprio questo è il problema. Abu Assad sostiene che la sua opera non
intende legittimare gli attentati suicidi, ed anzi il contrario: si
definisce fortemente critico, e dice di voler aprire canali di discussione
sul fenomeno.
Tuttavia il film presenta una infinita serie di doppi significati, nella
migliore tradizione palestinese. Non c'è condanna né rifiuto inequivocabile
del terrorismo suicida. E non c'è alcuna critica di quella società
palestinese che ha permesso che il fenomeno prosperasse al proprio interno.
Di più, il film cerca di "capire" l'attentatore suicida gettando tutta la
responsabilità delle sue azioni unicamente sull'occupante israeliano. Gli
israeliani sono rappresentanti come biechi, assetati di potere, utilitaristi
e corrotti. Mai ci vengono mostrate le vittime delle esplosioni suicide. Gli
stessi attentati suicidi vengono lasciati nel mondo delle innocue fantasie
di vendetta.
Una delle scene più inquietanti del film è quella chiamata "l'ultima cena",
con ovvio riferimento al celebre dipinto di Leonardo da Vinci. Le scena
ritrae l'ultimo pasto di alcuni attentatori suicidi prima della loro
missione. Il messaggio è fin troppo chiaro: massima celebrazione e
santificazione degli attentatori (vittime sacrificali paragonabili a Gesù).
Come può essere che un film come questo riesca a ottenere tanti
finanziamenti da governi europei e ad essere accolto con tanto entusiasmo?
Difficile sottrarsi alla sensazione che per molti europei, mietere vite di
ebrei faccia parte dell'ordine naturale delle cose, con o senza disimpegno.
Le critiche degli europei alla reazione israeliana di fronte al perdurare
dei lanci di missili Qassam dalla striscia di Gaza dopo il ritiro ne sono la
dimostrazione. La pretesa palestinese che Gaza sia ancora occupata, come una
sorta di enorme prigione, ha già iniziato a mettere radici in Europa. Quando
avverrà il prossimo attentato suicida, gli europei scuoteranno ancora una
volta la testa: "Ma cosa pretendete? I palestinesi vivono in un inferno".

(Da: YnetNews, 10.9.05)
Al di là delle valutazioni sulla pellicola, comunque, resta il fatto che film come "Paradise now" sono gradite occasioni per la propaganda antisraeliana mezzo stampa.
L'occasione non se la lascia scappare Lidia Ravera su L'UNITA'. Nell'articolo "Kamikaze, una giornata particolare", pubblicato in prima pagina e a pagina 20 presenta un quadro nel quale i palestinesi sono spinti al terrorismo suicida dalla "disperazione", le ragioni e i torti sono "equamente" distribuiti tra gli israeliani (gli "occupanti") e i palestinesi che "rispondono" all'occupazione con il terrorismo e in cui trovano posto abberranti falsità come quella per cui i soldati israeliani amputerebbero le gambe ai prigionieri palesinesi (la pratica di torturare amputando arti era comune nel regime di Saddam Hussein, che certamente sarebbe ancora al potere se fosse dipeso dalla pacifista UNITA', ed'è adottata anche dal regime islamista iraniano).

Ecco il testo dell'articolo.

Hanno due belle facce da poveri, Khaled e Said. Sono giovani, allegri in superficie come è d'obbligo a 20 anni, lavorano da un carrozziere, e la sera tornano nelle loro case-tana piene di fratelli e sorelle e mamme che cucinano per tutti. Said è senza padre, Khaled ha un padre invalido. Il padre di Said è stato ucciso perché «collaborazionista». Al padre di Khaled i soldati israeliani hanno tagliato una gamba, per punizione. Prima gli hanno chiesto «Quale gamba preferisci tenere?». Lui ha risposto: la sinistra. Il figlio soffre più per quella risposta che per l'orrore della tortura: «Io me le sarei fatte tagliare tutte e due, pur di non essere umiliato».
Vivono a Nablus, Khaled e Said. Non hanno mai visto altro che quella terra contestata, dalla quale non possono uscire liberamente. Non conoscono altro che l'odio, la vendetta, la vergogna della propria debolezza, il desiderio di riscatto, l'ingiustizia, il bisogno di reagire all'ingiustizia. Professano una fede assoluta in un Dio che nominano continuamente, in frasi rituali, un Dio a cui esprimono la loro gratitudine in ogni occasione, da cui si aspettano l'unica sicurezza possibile, l'unica serenità, l'unica promessa di sollievo da una vita quotidiana massacrata dall'ansia, dalla paura. «Dio lo vuole», «Grazie a Dio», «Con l'aiuto di Dio», «A Dio piacendo», sono l'intercalare di ogni dialogo.
Una sera come tante, tornando dal lavoro, Said e Khaled vengono avvicinati da Jamal, che non è un ragazzino come loro, ma un adulto, impegnato nella lotta di liberazione, una sorta di capo. Jamal annuncia a Said e a Kahled che sono stati prescelti, per un'azione suicida. Non fra sei mesi, non fra un anno: domani. L'ultima sera la passeranno in famiglia, ma non potranno dire niente. Madri e fratelli non dovranno capire qual è la ragione di quegli sguardi troppo teneri e troppo lunghi, così inconsueti, il perché di quel silenzio attento, o di quelle domande strane. La loro esperienza terrena sta per finire. E questo è terribile e contro natura (sono giovani, uno dei due si sta innamorando), ma avranno la possibilità di accedere, loro che non sono nulla, addirittira al martirio. È una grande prova e un grande onore.
Sono pronti? La domanda è retorica, il no non esiste. La risposta è rituale: con l'aiuto di Dio. A questo punto Paradise Now , quarto film di Hani Abu Assad, assume una cadenza drammatica: i due ragazzi vengono imbottiti di esplosivo, ogni tentativo di disinnescare il meccanismo li farebbe saltare in aria, dovranno stare attenti, dovranno essere rapidi, per non morire inutilmente, dovranno esplodere con le loro cinture mortali a Tel Aviv, in uno spazio e in un tempo che garantiscano il massimo numero possibile di vittime, meglio se militari.
Le istruzioni sono precise. La preparazione prevede un'ottima cena, una seduta dal barbiere, una vestizione: quando i corpi magri dei due ragazzi sono costretti a indossare due seri abiti a giacca con tanto di cravatta, l'impressione è di un travestimento. I capelli cortissimi, la barba rasata, il collo lungo che esce goffo dal colletto della camicia, gli occhi smarriti, i gesti impacciati, più che eroi, Khaled e Said, sembrano pronti per un colloquio di lavoro o vestiti a festa per una cerimonia di cui non sono entusiasti. La tragedia procede con un passo da commedia: il video in cui ciascuno dei martiri deve leggere il suo proclama e, a seguire, dare l'addio alla famiglia, deve essere rifatto perché la telecamera non ha registrato, il martire si sottopone a un secondo ciak, e già questo riduce la solennità, ma non basta, mentre dedica la sua morte a Dio, gli altri (tutti, anche il suo collega aspirante al martirio) si mettono a mangiare un panino. Alla fine, invece di poche sentite parole, la mamma riceverà «post mortem» dal figlio l'indicazione di un negozio, dove i filtri per l'acqua costano meno. «Mi ero dimenticato di dirglielo», si scusa, il giovane aspirante martire. E il film tocca uno dei suoi momenti più strazianti e intensi. La verità delle piccole cose, i dettagli della povertà, l'atmosfera claustrofobica di Nablus (Paradise now è il primo film girato nella città palestinese), schiacciata in una valle lunga e stretta, sovrastata dalle montagne da cui israeliani armati esercitano un costante controllo, il rancore represso ad ogni passaggio di check point, la sensazione che tutto possa saltare in aria da un momento all'altro: non c'è servizio giornalistico che possa evocare tutto questo. Abu-Assad, giustamente e coraggiosamente, ha deciso di girare in pellicola invece di ascoltare chi gli consigliava una piccola troupe e la scelta del video digitale, per essere più rapido e leggero date le condizioni (girare in una città occupata). Voleva fare un film che non potesse essere confuso con le immagini sciatte dei telegiornali, che ormai tutti guardiamo distrattamente. Aveva ragione di volere un film ed è riuscito a farlo. Paradise now è un film e un bel film. Con la forza del cinema racconta senza giudicare, il che, sulla questione palestinese è necessario. Hanno torto tutti, lì: gli israeliani che non vogliono riconoscere i diritti dei loro vicini, i palestinesi che rispondono all'occupazione con il terrorismo, strumento inaccettabile sempre, qualunque sia la motivazione.
La sospensione del giudizio, privilegio assoluto dell'arte, non è, comunque, il solo vantaggio che la scelta della forma ha guadagnato ai contenuti dell'opera di Abu-Assad. C'è di più: c'è comprensione, capacità di approfondimento e compassione in Paradise Now. E la compassione è un bene di prima necessità, in questi tempi dolorosi. Non bisogna mai smettere di provare pietà, oggi. Anche per i tanti (troppi) Khaled e Said, mandati a morire, imbottiti di tritolo e nutriti di rancore, istigati alla vendetta e intontiti con la religione. Quando uno dei due chiederà al «superiore» che li sta portando al macello «Come sarà… dopo?». La risposta ha un tono burocratico che confligge con il contenuto fiabesco. «Scenderanno due angeli a prendervi».
Le cose poi non andranno esattamente secondo le previsioni, e di questo è bene tacere, perché il film ha una bella tenuta drammatica, sarebbe peccato sciuparla. Ma gli occhi di Said quando pensa che sta guardando la sua bella ragazza per l'ultima volta sono destinati a restare. A piantarsi nella nostra anima e nella nostra memoria. Said è un kamikaze malgrado sé stesso. Non ha nessuna libidine negativa, la vita, la sua piccola vita di ragazzo timido e sbruffoncello (sarebbe piaciuto a Pasolini) se la vivrebbe molto volentieri. È l'ambiente in cui è cresciuto che lo condiziona, è condizionato all'odio, al rancore. Deve riscattare suo padre che ha collaborato con gli israeliani ed è stato giustiziato per questo. Deve vendicare un eroe ucciso e un bambino massacrato. Deve portare il suo carico di morte, perché è una cultura di morte quella in cui è stato educato. Quando la ragazza che gli piace (la bravissima Lubna Azabal di Exils in concorso a Cannes) gli chiede se è mai stato al cinema, la risposta è agghiacciante. «Una volta, quando siamo andati a bruciarne uno, in Israele». A Nablus di sale cinematografiche, non ce ne sono.
LA REPUBBLICA sceglie un'intervista di Maria Pia Fusco al regista, "Con un thriller sui kamikaze porto la Palestina all´Oscar" per occuparsi del film.
Hany Abu Assad ripete inaccettabili luoghi comuni propagandistici: il terrorismo è il prodotto dell'"occupazione" (mentre esisteva prima di essa e continua ad esistere dopo di essa, vedi Gaza e l'ondata di attentati suicidi nel dopo Oslo), i palestinesi sono oggi come gli ebrei perseguitati in Europa.
Tali affermazioni non vengono contestate dalla giornalista.

Ecco il testo:

ROMA - Per Khaled e Said, amici da bambini, è arrivato il grande momento: sono stati scelti per un attentato kamikaze a Tel Aviv. Paradise now del palestinese Hany Abu-Assad racconta il loro ultimo giorno, i preparativi, il rito della registrazione del "testamento", i dubbi, l´intervento dell´amica pacifista Suha, l´ultima cena. Presentato a Berlino, Paradise now, già in sala in vari paesi europei, esce in Italia sabato prossimo con il patrocinio di Amnesty International che lo premia per "la sensibilizzazione sulle tematiche dei diritti umani. Il film, che uscirà negli Usa a novembre, è stato scelto per le nomination all´Oscar e, dice il regista, «sono felice di rappresentare non un paese - la Palestina non è riconosciuta come stato - ma una causa. È un piccolo riconoscimento, almeno esistiamo come entità culturale».
Lei racconta i riti preparatori dall´interno, con una verità che nessun telegiornale potrebbe rendere. Come si è documentato?
«Sono palestinese, ora vivo ad Amsterdam ma in Palestina c´è la mia famiglia, i miei anici, non sono un outsider, conosco le storie dei kamikaze, ho avuto tanti racconti. E per approfondire gli stati d´animo mi è stato di grande aiuto il mio avvocato, lui difende i kamikaze che hanno fallito l´attentato e ora sono in carcere».
Ci sono elementi grotteschi, come il video che si inceppa durante la registrazione del proclama di fede. Sono voluti?
«Sono realistici, è accaduto e li ho riportati non per ridicolizzare il rito, ma, come succede nella vita, nei momenti tragici accade spesso qualcosa di comico. E l´ultima cena l´ho girata con il pensiero a Leonardo, lui l´ha dipinta in Italia con la luce dell´arte, io l´ho girata in Palestina dove è realmente avvenuta con i riflettori del cinema».
Nel film c´è una dialettica tra veri punti di vista. Qual è il suo?
«Con un solo punto di vista avrei fatto propaganda e non volevo. Io sono contro la violenza, non voglio usare le stesse armi degli occupanti. Sono contento quando dicono che il film lancia un messaggio di pace».
Ha avuto difficoltà per le riprese?
«I maggiori gruppi per la liberazione della Palestina hanno approvato il film nel rispetto delle mie idee. Solo un piccolo gruppo ci ha contestato perché racconto due eroi tragici e non martiri. Le difficoltà vere sono venute dall´esercito israeliano che circondava la zona e ci costringeva a controlli e spostamenti continui, spesso con seri pericoli per la troupe».
Che reazioni ha avuto il film in Israele?
«In Israele il film uscirà a novembre, è in sala a Nablus ed è accolto bene, anche se qualcuno avrebbe voluto che raccontassi due eroi santi e non tragici. Per la stessa ragioni alcuni israeliani che l´hanno visto mi accusano di difendere i kamikaze».
Come vive questo momento di cambiamenti?
«Quali cambiamenti? I cambiamenti sono solo sui media, non nella realtà, finché Israele continua a controllare la vita di milioni di palestinesi. Sharon buono perché ha smantellato gli insediamenti? A me non sembra essenziale la rimozione dei coloni, sarebbe molto più importante se ai due popoli che vivono sulla stessa terra venissero riconosciuti gli stessi diritti. Non è difficile, ma penso che nessuno, neanche in Europa o negli Usa, abbia interesse alla soluzione del problema. Ma non voglio parlare di politica, il mio non è un film politico, volevo fare un thriller. In molti paesi, in Europa o negli Usa, la tensione del thriller è artificiale, in Palestina la tensione è nella vita di ogni giorno».
Crede nel potere del cinema?
«Quando gli ebrei erano senza uno stato e massacrati, era essenziale tenere viva la memoria attraverso i racconti dei sopravvissuti e dei testimoni, cinema o letteratura che fosse. Ora siamo noi palestinesi nella loro condizione, sopravviviamo e siamo presenti nel mondo solo raccontando le nostre storie».
Anche LIBERAZIONE pubblica a pagina 9 un'intervista di Roberta Ronconi al regista del film, "Paradise now, vite da kamikaze". Stesse inaccettabili affermazioni da parte di quest'ultimo e stesso silenzioso assenso da parte della giornalista.

Il CORRIERE DELLA SERA pubblica a pagina 52 un articolo di Giovanna Grassi egualmente basato sulle dichiarazioni del regista ed egualmente acritico.
Inaccettabile anche il titolo "Kamikaze, esserei umani" Bufera sul film palestinese" che da un lato esordisce con una farse il cui vero senso è la giustificazione dei terroristi e l'attribuzione a Israele della responsabilità delle loro azioni, dall'atra tende a far credere che i dibattiti sulla rappresentazione del terrorismo suicida vertano sul tema fuorviante dell'appartenenza o meno al genere umano dei terroristi, quando il vero problema è la condanna o la mancata condanna dei loro atti criminali.

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