La RID è una rivista mensile che si occupa di problematiche inerenti alla difesa nazionale ed internazionale. Il direttore, Andrea Nativi, pubblica a pagina 5 del numero di ottobre un editoriale intitolato "Israele e Palestina" : successi e speranze.
L’articolo pone l’accento sugli effetti che il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza ha determinato sotto il profilo politico, sociale ed economico nell’area mediorientale, analizzando le reazioni della leadership palestinese e delle varie formazioni terroristiche.
Il giornalista riesce a cogliere l’importanza che tale "svolta storica" ha impresso in tutto il Medio Oriente ed anche in occidente; in alcuni punti tuttavia emerge una visione che risente di qualche pregiudizio e che dà luogo ad interpretazioni non del tutto corrette, in altri mancano precisazioni che, invece, sarebbero state opportune.
Riportiamo l’articolo con alcune riflessioni." Non c’è che dire, quanto è accaduto questa estate, ancorché frutto di una decisione unilaterale israeliana e non di un processo negoziale,
che, nonostante i ripetuti tentativi del governo israeliano, non è stato possibile condurre a termine per la mancata volontà, da parte della leadership palestinese, di combattere con la necessaria fermezza le formazioni terroristiche , Hamas e Jihad islamica.
ha impresso una nuova dinamica alla situazione in Medio Oriente. Anche se ciò conta davvero poco, la svolta ha sorpreso buona parte dei politici e dei media occidentali, fin troppo abituati a ragionare per schemi preconcetti, mai come in questa occasione dimostratisi superati.
A guidare questa rivoluzione c’è lui, Ariel Sharon, il vecchio combattente, il cattivissimo, l’espressione della destra più bieca, che pure ha fatto quello che nessun premier e governo israeliano, di destra o di sinistra che fosse, ha mai neanche iniziato: lo smantellamento degli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza.
Per inciso, va riconosciuto alle IDF, le Forze Armate di Israele, che hanno impegnato nella operazione oltre 50.000 uomini, preparati pazientemente ai diversi possibili scenari e addestrati lungamente in modo molto realistico, di aver compiuto la missione assegnata in modo perfetto. Gli incidenti ci sono stati (pochi), la resistenza degli irriducibili pure, ma questo non ha impedito che il piano venisse realizzato secondo la tabella di marcia prevista, senza problemi davvero significativi. I 21 insediamenti a Gaza e i 4 in Cisgiordania (questi ultimi erano in effetti quelli che presentavano i maggiori rischi) sono stati sgomberati e senza che gli estremisti israeliani ricorressero alle armi per difendere le proprie case o che i terroristi palestinesi lanciassero attacchi significativi.
Merito questo della collaborazione con le forze di sicurezza palestinesi, che hanno impiegato oltre 5.000 uomini e del rapporto tra i rispettivi servizi.
Nessuno si nasconde che il successo di questa evacuazione non risolve la questione palestinese, del resto Gaza rappresenta poco meno del 6% dei territori occupati. Ma si tratta di un risultato positivo che legittima aspettative e speranze e diventa inoltre un banco di prova importante.
A mio avviso la comunità internazionale sta seguendo per Gaza l’approccio corretto, con un impegno su tutti i fronti, politico, economico, istituzionale e della sicurezza, per fare di questo lembo di terra il frutto di un riuscito esperimento politico. Stati Uniti, Paesi Arabi, Europa sono in prima linea per aiutare la ricostruzione del territorio di Gaza, che ha bisogno di quasi tutto, dai servizi essenziali alle università, all’assistenza medica, alla rinascita di un tessuto economico che permetta un’alternativa alla disoccupazione, anticamera della disperazione e del terrorismo.
Vorremmo ricordare che in molti paesi del mondo, l’Africa ad esempio, esiste la disoccupazione, l’economia è gravemente in crisi e le condizioni di vita sono estremamente precarie, eppure non per questo gli africani indossano una cintura di esplosivo e si vanno a far esplodere nei ristoranti, nelle pizzerie massacrando civili inermi!!
Gli aiuti sono in buona misura legati a progetti specifici ed a progressi misurabili, evitando così le vecchie prassi palestinesi all’insegna della corruzione e della distrazione di risorse.
Sotto il profilo politico Abu Mazen ha ottenuto una "vittoria" importante (il ritiro unilaterale è visto da molti Palestinesi come una cacciata) ed è proprio sulle ali di questo risultato che ha deciso di giocare la partita elettorale decisiva, fissando per il 25 gennaio quelle elezioni politiche che avrebbero dovuto tenersi il 17 luglio, ma erano poi state prudentemente posticipate a data da destinarsi, visti gli inaspettati successi ottenuti dai rivali di Hamas in diverse consultazioni municipali. Ora Abu Mazen spera di poter incassare il dividendo politico per la "liberazione" di Gaza. Peraltro Hamas sostiene a sua volta di essere il vero artefice del trionfo di Gaza, avendo "costretto" gli Israeliani a ritirarsi. Il confronto si fa interessante, così come importante la trasformazione di Hamas da movimento emarginato, con un forte potenziale militare (le brigate Ezzedim Al Qassim, il braccio militare, contano almeno 5.000 combattenti
Terroristi
E innumerevoli simpatizzanti) a partito politico. Partito che non ha rinunciato alla lotta armata ed ha rifiutato di deporre le armi (qualcuno si illudeva del contrario?), ma che si è comportato con moderazione durante il delicato ritiro e che si sta legalizzando rivelando anche nomi di comandanti e di organizzazione militare. Un passo sulla via per la legittimità. Nella stessa Israele c’è chi teme che Gaza si trasformi in un Hamstan, dove presto potrebbero infiltrarsi anche al-qaedisti in arrivo attraverso il confine con l’Egitto, un’immensa base per lanciare attacchi micidiali contro Israele, ma molti analisti pragmaticamente ritengono che un Hamas di governo, per quanto duro e oltranzista, abbia comunque interesse a creare ordine e sicurezza all’interno e sia comunque costretto confrontarsi ai tavoli negoziali con Israele.
Una formazione terroristica, quale è Hamas, che si è resa responsabile di stragi efferate e che non ha mai voluto riconoscere l’esistenza di Israele e il cui unico obiettivo è l’annientamento di ogni ebreo, ovunque si trovi, non si siederà mai ad un tavolo negoziale con Israele.
Credere che questo possa avvenire è pura fantasia.E non va dimenticato che il movimento, decapitato nel 2004, è anche squassato da rivalità e lotte interne. Più sfumato il discorso per altre formazioni palestinesi, come la Jihad islamica, con la sua componente militare, le Brigate Al-Quds o i poco conosciuti Comitati di resistenza Popolare (questi ultimi protagonisti dell’eliminazione di uno dei più corrotti personaggi della cricca di Arafat, suo cugino, Moussa Arafat, ex capo delle forze di sicurezza, assassinato senza che nessuno intervenisse, al di là delle sue guardie del corpo), che non hanno velleità politiche. Soprattutto la Jihad islamica, che però non è in competizione con Al-Fatah, molto pericolosa per la sicurezza di Israele.
Abu Mazen ha avviato un difficile tentativo di riorganizzare l’inefficiente e poco affidabile carrozzone, costituito da una dozzina e più di gruppi, reparti, organismi di sicurezza, ereditato dalla gestione Arafat, con oltre 52.000 uomini. Anche in questo è aiutato da Egitto, Israele, Stati Uniti e Paesi Occidentali, ma non ancora riuscito ad ottenere una razionalizzazione completa di organismi e catena di comando, anche perché deve prima consolidare il proprio potere. E non mancano certo gli antagonisti e gli oppositori anche all’interno di Fatah. Alcuni dei quali ne vorrebbero l’eliminazione fisica. Intanto si è già riusciti a mandare in pensione dorata una serie di personaggi imbarazzanti e vecchi fedeli di Arafat, compresa una dozzina di generali.
Altrettanto difficile è creare istituzioni di governo meno corrotte ed efficienti. Di disarmare con la forza Hamas per ora non se ne parla proprio, ma il confronto tra le varie anime palestinesi rimane una questione irrisolta, che potrà concludersi con una soluzione politica (si spera) o con un bagno di sangue, con una nuova guerra civile. Non sarebbe una novità in campo palestinese.
Israele pretende da Abu Mazen una vera stretta sul terrorismo, ma intanto prende le proprie misure preventive. Il famoso "muro", che poi ha più elettronica che cemento, funziona più che bene e sarà progressivamente esteso. Israele ha deciso di fidarsi di Mubaraq ed ha ritirato i propri uomini dal confine Gaza/Egitto (che del resto sarebbero rimasti pericolosamente esposti), lungo la linea Filadelfia, sostituiti da 750 soldati egiziani, e continuerà a sorvegliare strettamente aeree e marittime, varchi di confine ed controllare i tentativi di infiltrazione. Quanto ai razzi palestinesi , tutti sanno che si tratta di ben poca cosa,
bisognerebbe dirlo a quelle famiglie di Sderot che si sono visti entrare un razzo in casa o a quei genitori i cui figli sono rimasti uccisi mentre giocavano nel giardino della propria abitazione
i terroristi kamikaze sono molto più pericolosi. E su questo fronte i successi sono stati davvero significativi, specie in Cisgiordania. Comunque i piani militari per rioccupare Gaza militarmente sono già pronti. Sharon, però, che aveva avuto ragione a non voler più niente a che fare con Arafat e la sua corte decadente, spera di non averne bisogno. Da leader del Likud è diventato guida di un governo di coalizione, sta veramente portando pace e sicurezza al suo Paese e gode di un sostegno popolare eccezionale.Non a caso c’è chi lo propone come candidato….laburista, in caso di elezioni anticipate. Anche se Benjamin Netanyahu si dimesso da ministro delle finanze, ha lanciato la sfida per la guida del Likuda Sharon e vuole, ancora una volta, elezioni anticipate (la scadenza naturale è novembre del prossimo anno), non sembra che Arik corra grossi pericoli politici. Piuttosto, Sharon è nel mirino degli oltranzisti di destra e dei partiti ultrareligiosi che oltretutto mal sopportano di perdere quegli odiosi privilegi che erano riusciti a strappare in cambio del proprio voto. Speriamo che lo Shabat faccia buona guardia.
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