L'OPINIONE di martedì 4 ottobre 2005 pubblica in prima pagina l'editoriale di Shaykh Abdul Hadi Palazzi "Una lezione di civismo dalla Comunità ebraica", lo riportiamo:
Il 29 e il 30 settembre l’Istituto di Scienza dell'Alimentazione della
Facoltà di Medicina dell’Università "La Sapienza" di Roma ha organizzato una
conferenza internazionale sul tema "La tradizione alimentare nelle religioni
monoteistiche del Mediterraneo". Stando al programma, rappresentanti del
mondo accademico ed esponenti delle comunità religiose ebraica, cristiana ed
islamica avrebbero dovuto confrontarsi fra loro al fine di rafforzare la
comprensione reciproca, la coesione sociale e l'integrazione interculturale,
"sensibilizzando l'opinione pubblica per il diritto per ciascun essere umano
di alimentarsi secondo la propria tradizione".
Una grave leggerezza degli organizzatori del convegno ha però portato al
clamoroso fallimento dell’iniziativa. A rappresentare la comunità islamica
era infatti stato chiamato non un responsabile della Moschea di Roma, non un
accademico musulmano o un dirigente delle organizzazioni islamiche moderate,
ma Nour Dachan, il controverso presidente dell’Ucoii, cioè
dell’organizzazione estremista nota per le sue posizioni di fiancheggiamento
del terrorismo iracheno e palestinese, nonché per essere l’interfaccia
italiana della setta dei "fratelli musulmani" e di Hamas. L’Ucoii di Dachan
è infatti l’organizzazione che per decisione del ministro degli Interni
Pisanu è stata esclusa da progetti della Consulta islamica, e che ha già
visto due dei suoi dirigenti espulsi dal territorio italiano, in quanto il
Viminale riteneva che la loro presenza in Italia costituisse un pericolo per
la sicurezza nazionale. Lo stesso Dachan che ha alle spalle trascorsi
estremisti in Siria, suo paese d¹origine è noto alla cronaca per essersi
rifiutato di firmare il documento di condanna del terrorismo a suo tempo
preparato dagli esponenti dell’Islam moderato. A suo dire, quel documento
in quanto condannava senza mezzi termini il terrorismo palestinese e
iracheno era "troppo filo-americano". Ancor più noto di Dachan è poi il
segretario dell’Ucoii, quel Roberto Piccardo che è passato dalla militanza
in Autonomia Operaia alla propaganda del fondamentalismo più estremo, e che
ritiene legittimo il terrorismo contro le forze della Coalizione in Iraq e
quello contro i civili israeliani. Piccardo ha anzi ribadito in una
recente intervista al settimanale "Panorama" di non riconoscere in alcun
modo diritto all’esistenza allo Stato d’Israele.
Ben conoscendo la natura di un’organizzazione come l’Ucoii, e non avendo
alcuna intenzione di sedere nella imbarazzante compagnia del suo presidente,
i rappresentanti della Comunità ebraica hanno scelto di boicottare la
conferenza.
E’ stata ritirata sia la partecipazione del presidente dell’Unione della
Comunità Ebraiche Italiane Amos Luzzatto, sia quella del Rabbino Capo di
Roma Riccardo Di Segni. A questo punto, il Rettore dell’Università "La
Sapienza" Renato Guarini si è reso conto che gli organizzatori della
conferenza lo avevano posto in una posizione davvero imbarazzante, e ha dato
forfait anche lui. Anche lui ha pensato: "Meglio boicottare una conferenza
internazionale organizzata dalla mia stessa Università, piuttosto che sedere
al fianco di Dachan".
Con una decisione del genere, i dirigenti dell¹Unione della Comunità
Ebraiche ed il rettore dell¹Università "La Sapienza" hanno dato agli
Italiani un’encomiabile lezione di civismo. Hanno ribadito che l¹Italia è in
guerra contro il terrorismo islamista,
e che coloro che circa quel terrorismo manifestano posizioni di solidarietà
e compiacenza, o anche solo di ambigua connivenza o simpatia, non hanno
diritto a sedere in compagnia dei cittadini rispettabili. E’ già successo in
passato che i dirigenti dell’Ucoii siano stati invitati a pubbliche
manifestazioni che avevano il patrocinio delle Istituzioni o a incontri
interreligiosi per la pace e per il dialogo.
E’ da augurarsi che un equivoco del genere non si ripeta, e che quanti
manifestano posizioni filo-terroriste siano condannati all’isolamento, siano
semmai monitorati dalle Istituzioni, e non invitati come relatori a
conferenze internazionali.
L¹Assemblea Musulmana d’Italia ha suo tempo chiesto che, proprio in ragione
delle sue posizioni di fiancheggiamento del terrorismo, l’Ucoii venga
sciolta per legge.
Se ciò non è immediatamente possibile, ci auguriamo almeno di tutto cuore
che la netta presa di posizione dell’Unione delle Comunità Ebraiche serva
d’esempio ad altri, per esempio a quei movimenti cattolici come le Acli o la
Comunità di S. Egidio che sinora non hanno avuto alcuna remora ad invitare i
rappresentanti dell’Ucoii ai loro convegni. Se c’è una cosa che proprio non
possiamo permetterci e che le Università, le associazioni cattoliche e per
il dialogo interreligioso vengano sfruttate al fine di conferire ai
fiancheggiatori del terrorismo una patina di rispettabilità che certo non
meritano.
L'OPINIONE pubblica anche un articolo di Gualtiero Vecellio che riportiamo. Si tratta di una puntuale critica a un articolo di Tahar Ben Jelloun pubblicato dall'Espresso.
Ineffabile Tahar Ben Jelloun. Lo scrittore magrebino – ma da anni residente in Francia – collaboratore del settimanale "L’Espresso", titolare di una rubrica "Senza frontiere" pubblicata nelle prime pagine, quasi una "vetrina". L’ultima "riflessione" di Ben Jelloun merita di essere ritagliata e conservata in un’apposita cartellina, il cui titolo potrebbe essere mutuato da una battuta celebre di Totò: "Lei è cretino, si informi". Ma a ben pensarci – e a ben rileggere l’articolo – c’è anche qualcosa di più, e più grave.
Ben Jelloun si interroga sui terroristi kamikaze e le loro "imprese". Scrive che non solo noi occidentali non comprendiamo la logica e il fine di queste "azioni spaventose: ma anche gli arabi non capiscono più nulla di quanto sta accadendo in Irak".
Eppure una logica c’è, e per quanto la si ritenga impresa disperata, si proverà a spiegarlo anche a Ben Jellun. Preliminarmente, tuttavia, c’è una cosa che colpisce: tutto preso dai suoi interrogativi e dal suo interrogarsi, Ben Jelloun riesce in un articolo di oltre seimila battute a non pronunciare mai – mi si creda, l’ho letto tre volte – la parola "terroristi". Si parla di "kamikaze" e di "giovani iracheni", mai di terroristi, e – quel che è più grave – mai si condanna esplicitamente e nettamente i loro crimini, le loro stragi. La parola "terrorismo" compare una volta, nelle prime righe, un periodo che val la pena – davvero, in senso letterale – di trascrivere: "Nel momento in cui i paesi europei si organizzano come meglio possono per contrastare il terrorismo, arrivando a radicalizzare le loro legislazioni, in cui l’America di George Bush scopre nuovi flagelli, questa volta naturali, ma che mettono in piena luce l’incompetenza e il razzismo, in Irak tutte le mattine uno o più uomini stivano esplosivi nelle loro auto e corrono a farsi esplodere in un luogo di preferenza molto frequentato…"
Stop. Poi la parola terrorismo non la si incontra più.
In compenso, si inciampa in altri edificanti concetti: "La responsabilità degli americani è immensa: il popolo iracheno non potrà mai perdonare chi ha portato in casa sua un tale caos, tanto terrificane quanto la dittatura stessa di Saddam". Ci sono poi dei giovani, a metà tra l’idealista e il disperato che per sfuggire a una vita che "è un inferno", si gettano in "un’azione coraggiosa, col la quale offrire il proprio corpo uccidendo altri", e così credono di essere trasportati "in un mondo dolce, bello e meraviglioso". Sbagliano, questi giovani, sono in errore, vittime di una tragica illusione? Ben Jelloun dice che "questi kamikaze si lanciano in scontri del tutto inutili" (inutili, non criminali); e poi ci sono i livelli superiori, "coloro che li manipolano, li reclutano e li convincono a diventare martiri". Sono "i capi", al più dei manipolatori che devono ricreare le condizioni per il sacrificio supremo: anche per loro non una parola di esplicita condanna, e ci si guarda bene dal definirli per quello che sono: dei criminali assassini.
A Ben Jelloun – ma anche al settimanale che lo pubblica – bisogna evidentemente fare omaggio del testo del discorso che Tony Blair ha tenuto al congresso del suo partito, il Labour Party.
"Dopo l’11 settembre", dice Blair, "Non ho mai dubitato che il nostro posto fosse al fianco dell’America e non lo dubito ora. E per una ragione molto semplice. Il terrorismo ha colpito in maniera più drammatica New York ma minacciava allora – e minaccia adesso – tutti noi e il nostro stile di vita. Questa è una battaglia globale. E oggi è al massimo della sua crudeltà in Irak. Ha alleato con sé tutti gli elementi più reazionari del Medio Oriente. Il loro scopo: boicottare la prima elezione diretta del governo iracheno prevista per il prossimo dicembre".
Verità "sgradevoli" indubbiamente: "Il modo per fermare la morte degli innocenti in Irak", aggiunge Blair, "non è il ritiro, il disimpegno, che getterebbe questa gente alla mercè dei fanatici religiosi o dei resti del regime di Saddam, ma battersi per il loro diritto a decidere il loro governo con la stessa formula democratica utilizzata dalla gente in Gran Bretagna. Dieci giorni fa, dopo anni di battaglia, finalmente in Afghanistan, sei milioni di persone hanno votato liberamente per decidere il loro futuro. Come si può avere il coraggio di giustificare la campagna di odio dei terroristi dicendo che sono arrabbiati per l’Afghanistan? Il paese era forse meglio sotto i Talebani? Loro usano l’Irak e l’Afghanistan esattamente come usano la Palestina, al fine di distruggere con il terrore l’unica soluzione che potrà funzionare: un sicuro Israele fianco a fianco con un’indipendente e democratica Palestina".
Il lettore scuserà la lunga citazione, era necessaria per documentare come Blair, moderno leader di una sinistra riformatrice, che si fa carico della soluzione e del "governo" dei problemi, sia distante anni luce dall’inconcludente bla-bla in cui si producono tanti esponenti della sinistra italiana. "So che dopo l’11 settembre avremmo potuto nasconderci e lasciare agli altri l’onere. Ma questa non è la vera Gran Bretagna. Quando noi facciamo una campagna per la giustizia in Africa, questa è una causa progressista. Quando spingiamo per la pace in Palestina, è una campagna progressista. Quando agiamo contro il riscaldamento globale, è una causa progressista. E quando combattiamo per gli standard di democrazia in Afghanistan o in Irak o in Kossovo o Sierra Leone, anche queste sono cause progressiste".
Sono parole, concetti che piacerebbe sentir pronunciati anche dai leader della sinistra italiana. Vorrebbe davvero dire che anche da noi comincia ad affermarsi un "The Boy", per usare il felice titolo della biografia di Blair scritta da Andrea Romano: leader capaci di tradurre con determinazione ideali autenticamente progressisti che sanno coniugare responsabili azioni di governo. Ma quel tempo, temiamo, è ancora lontano. E anche per leggerlo sull’ "Espresso", in luogo delle scempiaggini di Ben Jelloun, si dovrà aspettare che il settimanale compia altri cinquant’anni.
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