IL RIFORMISTA di martedì 4 ottobre 2005 pubblica un'intervista di Anna Momigliano a Emma Bonino sull'apertura del negoziato per l'adesione della Turchia all'Unione europea.
Ecco il testo:E’ «un’assunzione di responsabilità
da parte dell’Europa
» la decisione presa dai
ministri degli Esteri Ue di dare
inizio ai negoziati per l’ammissione
della Turchia in Europa,
secondo Emma Bonino. Che
ha atteso la risposta di Ankara
a Rabat dove sta prendendo
parte a una conferenza sulla
democrazia nel mondo arabo.
Abdullah Gul è in viaggio per
Lussemburgo, è già l’inizio di
«una pagina positiva».
Lei è insieme una sostenitrice
dei diritti umani e una sostenitrice
dell’ingresso di
Ankara nell’Ue. Non è una
contraddizione? «Non solo sono
favorevole all’affermazione
dei diritti umani, ma ho sempre
cercato, insieme alla mia
famiglia radicale, di promuoverli.
E sono convinta che una
delle poche politiche attive che
l’Europa ha sviluppato in questi
ultimi anni è stata proprio
l’allargamento: questo progetto
di adesione all’Europa ha
fatto sì che molti paesi che
uscivano dalla caduta del comunismo
avviassero una serie
di riforme per adeguarsi ai criteri
richiesti. Questo percorso
può aiutare la Turchia nella
sua evoluzione riformatrice in
tutti i campi, dall’economia allo
stato di diritto. Il processo
avviato dal governo di Erdogan
non può che essere rafforzato
da un’apertura dei negoziati.
Saranno lunghi (dureranno,
credo, almeno 10 anni)
e come andranno a finire non
si sa. Non solo perché non si
sa dove andrà a finire la Turchia,
ma perché lo stesso si
può dire dell’Europa».
Sì, però l’articolo due del
Trattato costituzionale europeo
indica chiaramente che
ogni stato membro deve condividere
il rispetto della dignità
umana, della libertà e
della democrazia. «Nessuno
propone che la Turchia entri
domani nell’Unione. Quello
che è in discussione è se dopo
tanto tempo si possano aprire i
negoziati per l’accesso nell’Ue,
negoziati che Ankara ha
chiesto
dal 1959. Con nessun altro
paese, del resto, abbiamo aperto
i negoziati quando tutto era
già risolto».
Nel 2004 il rapporto della
commissione indipendente
sulla Turchia, di cui lei faceva
parte, parla non solo dei benefici
che l’ammissione della
Turchia apporterebbe all’Unione,
ma anche dei costi di
un eventuale rifiuto da parte
dell’Europa. «Nel 1999 e nel
2001 l’Europa ha dichiarato
che se la Turchia avesse cominciato
a conformarsi ai
criteri di Copenaghen,
avrebbe aperto i negoziati.
Lo hanno ribadito all’unanimità
i capi di Stato
e di governo europei.
Ora, per una
grande forza politica,
alzarsi una mattina
e dire "abbiamo
cambiato idea"
ha un costo altissimo
in termini di
credibilità».
Dove Londra ha sbagliato
Crede che l’Undici settembre
abbia cambiato l’attitudine
europea verso la Turchia?
«Dopo l’attentato contro le
Torri gemelle, ma ancor di più
dopo gli attacchi a Madrid e a
Londra, l’Europa si è accorta
delle cellule dormienti [di al-
Qaeda] sul proprio territorio, e
di avere sottovalutato l’emarginazione
dei 20 milioni di musulmani
che già vivono in Europa.
La constatazione di avere
fallito le politiche d’integrazione
- ammesso che le abbiamo
mai tentate seriamente, e
io ne dubito - è stato un trauma.
Certo, a questo si è aggiunta
una paura dell’Islam, quasi
un "mamma li turchi," perché
se è vero che non tutti i musulmani
sono terroristi, è pur
sempre vero che tutti i terroristi
si dicono musulmani».
Non siamo riusciti a integrare
i musulmani di casa nostra
- neppure l’Inghilterra ci è
riuscita - e come potremo integrare
l’intera Turchia? «Credo
che la situazione sia molto diversa:
l’ingresso a pieno titolo
nell’Unione - diciamo tra 10
anni - sarebbe un grandissimo
aiuto di nel dialogo con questi
20 milioni di musulmani che
sono già in Europa e che tra
dieci anni saranno almeno 35
milioni. Detto questo, la tesi
multiculturalista inglese non
mi ha mai convinta».
A differenza dall’approccio
di maggiore integrazione
negli Stati Uniti? «Sicuramente.
L’idea che esistano zone di
stato nello stato, non è una politica
sostenibile. Ho seguito la
polemica sulle scuole private
islamiche e mi sembra che stiamo
sbagliando il tono. Certo ci
sono scuole ebraiche e cattoliche,
ma il fatto che
siano finanziate da
privati non vuol dire
che siano svincolate
dalla leggi dello stato
». Quindi lei non è
contraria tout court
a una scuola islamica
in Italia? «Purché
le funzioni di controllo
e il rispetto del codice civile
e penale valgano per loro
come per gli altri. E mi sembra
che per ora non abbiamo applicato
molto questa regola,
come se le moschee fossero
territorio sottratto alla giurisdizione
nazionale».
E’ divenuta popolare in
Europa l’idea che la democrazia
si possa esportare. E parlando
di Medio Oriente spesso
si menziona la Turchia come
modello di democrazia musulmana.
Eppure, come ha detto
un intellettuale di Istanbul,
"più si definisce la Turchia come
un modello per il Medio
Oriente, meno essa appare europea".
«E’ molto probabile
che i turchi non vogliano essere
un modello: pero` molti democratici
nel Medio Oriente
guardano ad Ankara. Quanto
alla democrazia che si esporta
oppure no, è un discorso trito
e ritrito e in fondo basterebbe
sostenere i democratici che
già ci sono, magari in maniera
più coerente di quanto non
facciamo adesso. Detto questo,
si esporta la dittatura, e
non vedo perché non si possa
almeno sostenere la democrazia:
tutta una serie di dittatori
sono stati messi lì da noi. E’
un peccato che il mondo occidentale
abbia sempre amato
più gli uomini forti che le istituzioni
forti».
La lezione egiziana
A proposito di dittatori
longevi, cosa ne pensa della
rielezione di Mubarak? Si può
parlare di elezioni democratiche?
«No. Ma è stato un momento
storico, in primis perché
la democrazia è un processo
ed esistono momenti in cui il
processo è più importante del
risultato finale. In Egitto quello
che sta succedendo è che il
regime non può più reprimere
le manifestazioni e un dibattito
che ormai si è innescato e veleggia
via satellitare, via internet,
ma anche nelle piazze. E
poi quello che accadrà nei
prossimi tempi sarà altrettanto
importante». Intende il post
Mubarak? «No, dico le elezioni
parlamentari di fine novembre.
Le parlamentari ci sono
sempre state, ma in una situazione
in cui tutti i partiti erano,
in pratica, cooptati. Ora se al-
Ghad, questo nuovo partito
che alle presidenziali è arrivato
secondo, andrà bene alle politiche,
si formerà il primo
gruppo di opposizione parlamentare
nella storia dell’Egitto,
il che creerà dei processi di
transizione necessari. Specialmente
se la comunità internazionale
e l’Europa sosterranno
questo processo». E cosa accadrà
quando i Fratelli Musulmani
non saranno più al bando
in Egitto? Sarà il paradosso di
Algeri, la democrazia che annulla
se stessa?«Tanto per cominciare
da Algeri, ho l’orgoglio
di essere una dei pochi che
nel 1992 si sono espressi contro
l’annullamento del secondo
turno, perché la democrazia
non è necessariamente la vittoria
degli "amici", con tutto ciò
che esso comporta. Poi, finché
l’unica alternativa a Mubarak
sono le moschee, è normale
che la gente si rivolga ai Fratelli
Musulmani. Ma quando si
riusciranno ad aprire spazi di
democrazia politica per i partiti
laici non sarà più così: i due
autoritarismi si sorreggono
l’un l’altro. In ogni modo, credo
che oggi l’attrazione esercitata
dalla teocrazia islamista
che ha portato all’Iran di Khomeini
o ai Talebani in Afghanistan
sia in via di esaurimento».
E come spiega il risultato
delle elezioni irachene? «Ahmadinejad
ha fatto una campagna
che non era affatto islamista
né religiosa, semmai populista.
Non ha puntato l’accento
sull’Islam, ma sul nazionalismo
economico. Il discorso
anti-americano del nuovo presidente
all’Onu è stato chiarissimo:
contro Israele e Stati
Uniti, ma tutto sul piano dell’
"imperialismo economico".Tipicamente
terzomondista».
Al tavolo di Rabat
Lei sta tornando da Rabat,
dove con Non c’è Pace Senza
Giustizia ha organizzato una
conferenza sulla democrazia
nel mondo arabo, insieme a esponenti politici del mondo
arabo. «Abbiamo cominciato
due anni fa: la conferenza metteva
alla stessa tavola governi
e attori non governativi a discutere
di democrazia.Avevamo
toccato un tema maturo. Il
segretario della Lega Araba
disse "non esiste una democrazia
occidentale e una araba,
esiste la democrazia punto e
basta con diversi stadi di appropriazione."
Da lì abbiamo
fatto una serie di iniziative seguendo
due filoni: la questione
donne, e la democrazia politica.
Rispetto al convegno a cui
ho partecipato a Venezia, quello
fatto da Rutelli, dove si discute
se Islam e democrazia
sono compatibili, Rabat mi
sembra è più avanti. Il discorso
è ormai più nel dettaglio:come
si organizza questo spazio di libertà?
Come si organizza una
legge sui partiti? Quali i processi
elettorali?»
La discussione di Venezia
Non siete venuti a capo di
molto, a Venezia? «Quello che
è venuto fuori, a mio avviso
un po’ in ritardo, e’
che Islam e democrazia
sono compatibili e che in
realtà lo scontro non è
né di religioni né di civiltà,
bensì uno scontro
tra sistemi politici chiusi
e aperti. Un po’ in ritardo,
ma va è pur sempre
positivo che non
siano soltanto i Radicali,
ma anche qualche
forza politica più consistente,
a
farsi
portatrice di questa cosa. Nel mio
intervento ho però avvertito
che dobbiamo stare attenti a
non perdere il treno e a non
stare qui a interrogarci in eterno
se Islam e democrazia sono
compatibili».
Costituzione e Sha’aria
Lei considera accettabile,
in una democrazia propriamente
detta, l’ingerenza nella
politica da parte della religione,
qualunque essa sia? «Assolutamente
no». E allora come
considera il riferimento della
Sha’aria, per quanto minimale,
inserito nella bozza costituzionale
irachena. «Bisogna però
tenere conto che il riferimento
alla Sha’aria esiste anche nella
costituzione marocchina, paese
che pure ha approvato recentemente
un diritto di famiglia
fra i piu’ avanzati non solo
del mondo arabo, ma anche rispetto
agli standards europei
».Niente di male, allora?
«A me i richiami alla religione
nelle costituzioni non piacciono
affatto, che si tratti di Sha’aria
o di radici cristiane, ma so
bene che sono i sistemi politici
che definiscono i ruoli di questi
richiami. Un giorno ho
visto su Repubblica un titolo
che diceva più o meno
«la democrazia esportata
dagli americani finisce in
una teocrazia». Ma c’è lo
stesso riferimento [alla
Sha’aria] in Afghanistan.
Solo che lì eravamo «tutti
insieme», non c’era bisogno
di fare gli anti-americani,
e quindi nessuno
l’ha fatto notare».
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