Disarmare i terroristi è una necessità anche per l'Anp
cronache e analisi sull'irruzione dei poliziotti palestinesi in Parlamento
Testata:
Data: 04/10/2005
Pagina: 11
Autore: Aldo Baquis - un giornalista
Titolo: Poliziotti assaltano i deputati a Gaza.
Martedì 4 ottobre 2005 i quotidiani dedicano ampio spazio all'assalto del Parlamento palestinese da parte di agenti di sicurezza, anch'essi palestinesi.
Tra gli articoli corretti e informati segnaliamo quello di Daivd Frattini a pagina 12 del CORRIERE DELLA SERA, "Gaza, la polizia con le armi in parlamento" e quello di Andrea Morigi a pagina 10 di LIBERO, "Anche i palestinesi non ne possono più dei terroristi di Allah".

Di seguito riportiamo la cronaca di Aldo Baquis, "Poliziotti assaltano i deputati a Gaza. "Disarmate Hamas" " che si segnala per il puntuale elenco delle violenze e dei crimini commessi nei territori dai gruppi terroristici palesstinesi negli ultimi due giorni.

Ecco il testo:

I palestinesi hanno assistito ieri in diretta a un dramma politico quando sui loro teleschermi - che rilanciavano le immagini di un infuocato dibattito al parlamento palestinese sull’anarchia armata nei Territori - sono apparsi improvvisamente decine di uomini armati che hanno aperto il fuoco in una delle due aule, quella di Gaza.
Pochi istanti sono bastati ai telespettatori per comprendere che gli autori di quella che è stata poi pudicamente definita «una protesta» erano proprio i responsabili dell’ordine pubblico: agenti della polizia, infuriati per la uccisione di un loro ufficiale, da parte di miliziani di Hamas. «Noi versiamo il sangue, e nessuno nell’Anp ci protegge», dicevano. Altri lamentavano l’inadeguatezza del loro arsenale: «Almeno dateci munizioni per difenderci», hanno detto ai deputati che seguivano la «protesta» pallidi in volto.
Il dramma si svolgeva a Gaza: a Ramallah gli altri deputati seguivano il corso degli eventi in video-conferenza. Dopo un quarto d’ora di escandescenze, gli agenti sono stati finalmente allontanati dall’aula ma hanno proseguito a sparare anche nella zona vicina.
«Siamo a un passo dalla guerra civile», aveva detto poco prima il ministro Saeb Erekat, riferendosi ad una impressionante serie di atti di anarchia armata. Fra gli episodi degli ultimi due giorni: spari all’ex ministro Azzam el-Ahmad da miliziani delle Brigate di al-Aqsa (offesi per non essere stati invitati ad un importante riunione politica); una lunga battaglia (tre morti e 50 feriti) innescata a Gaza dal tentativo da parte di agenti di polizia di disarmare Mahmud Rantisi, figlio dell’ex leader di Hamas Abdel Aziz Rantisi; gli spari indirizzati alla abitazione di Mahmud a-Zahar (dirigente politico di Hamas) da parte di ignoti, probabilmente affiliati a Hamas; l’uccisione brutale di un tassista da parte di miliziani delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, innervositi da una protesta sindacale che aveva intralciato i loro spostamenti, e l’eliminazione in pieno giorno di due palestinesi sospettati di essere informatori di Israele.
Nel corso del dibattito, l’ex ministro della Giustizia Freih Abu Mdein ha chiesto al premier Abu Ala e al ministro degli Interni, generale Nasser Yussef, come fosse mai possibile che l’Anp, che pure stipendia 40 mila agenti, non riesca ad avere ragione di 17 fazioni armate. Più aspro ancora l’intervento dell'ex ministro dell’Agricoltura Abdul Jawad Saleh, che ha chiesto le dimissioni di tutti i responsabili alla sicurezza, palesemente incapaci di mantenere l’ordine.
Non solo l’Anp e i suoi servizi di sicurezza erano ieri sotto accusa, ma anche i miliziani di Hamas, rei di aver innescato la brutale battaglia di domenica sera a Gaza per il solo motivo di non accettare le disposizioni secondo cui d’ora in poi è vietato esibire armi in pubblico. Hamas è tornato poi sul banco degli imputati quando il procuratore generale di Gaza ha reso noti i risultati dell’inchiesta sulla strage del 23 settembre a Jabalya, ai margini di una parata militare islamica (almeno 16 morti, e 85 feriti). Secondo il procuratore è da imputarsi alla caduta accidentale e alla successiva esplosione di un razzo Qassam di Hamas e non - come hanno cercato di sostenere gli islamici - ad un raid aereo israeliano, che era stato inoltre smentito da Israele.
In serata, il parlamento è stato a un passo dal votare la sfiducia al governo di Abu Ala e si è limitato a perorare al presidente Abu Mazen la necessità di costituire un nuovo governo entro due settimane. A prima vista, si tratta della stessa mozione. In pratica essa salva la faccia ad Abu Ala perché il Rais potrebbe così tornare ad affidargli l’incarico. Oltre le sottili alchimie del parlamento di Ramallah resta sul terreno la costante sfida da parte delle milizie di Hamas all’Autorità nazionale palestinese e l’incapacità delle sue forze di sicurezza di farvi fronte.
Peraltro a Gaza ancora si attende di conoscere i nomi degli assassini (o almeno dei mandanti) dell’uccisione del generale Mussa Arafat, caduto in un assalto condotto da 100 uomini armati a poche centinaia di metri dalla abitazione di Abu Mazen. Un’ipotesi che viene sentita a Gaza è che dietro all’esecuzione ci fossero alcune figure della sicurezza palestinese. La crisi di governo apertasi ieri - accompagnata dalle notizie stampa sull’ingresso di al-Qaida a Gaza e sui contatti fra i gruppi dell’intifada e gli Hezbollah libanesi - non rafforza dunque la speranza che la situazione nei Territori si stabilizzi
IL FOGLIO pubblica pagina 3 l'editoriale "Abu Mazen non ha più scelta" nel quale si sostiene la necessità, per il presidente palestinese di procedere al disarmo di Hamas.

Una tesi che acquista ancora più evidenza in seguito agli eventi della notte tra il 3 e il 4 ottobre. Come riferisce il sito israele.net "secondo fonti palestinesi, terroristi Hamas hanno bombardato nella notte con tiri di mortaio sedi della polizia dell’Autorità Palestinese a Gaza: diverse stazioni di polizia in fiamme."

Ecco il testo:

Abu Mazen non ha più scelta. Non si tratta più soltanto di una volontà di dialogo, si tratta di sopravvivenza politica. La sua, e quella del sogno di uno Stato palestinese. Ieri i poliziotti sono entrati nel Parlamento, hanno chiesto all’Anp di smetterla con le ambiguità con le organizzazioni armate e poi hanno detto ad Abu Mazen di mandare a casa il suo governo: il premier Abu Ala è troppo debole, non sa tenere sotto controllo Gaza. Non si tratta più di regolamenti di conti tra clan più o meno corrotti, non si tratta più soltanto del silenzio dell’Anp quando un commando enorme si è scagliato contro il cugino di Arafat, Moussa, uccidendolo, non si tratta più di dialoghi pseudopolitici. Si tratta di una guerra interna tra Hamas (e tutti i gruppi armati che stanno dirigendosi verso la Striscia per conquistarne una parte) e l’Anp. Si tratta del futuro di un popolo e di un pezzo di terra che deve imparare a gestirsi da solo, senza scaricare le proprie responsabilità sulla "cattiveria" del vicino. Il ritiro da Gaza è servito principalmente a questo: Sharon è riuscito a far capire al mondo e soprattutto ad Abu Mazen che Hamas non è un problema soltanto degli israeliani, che il suo disarmo non serve solo a rendere più sicuri i bar e gli autobus di Gerusalemme o di Tel Aviv ma è condizione imprescindibile per la sopravvivenza dell’Anp.
Non c’è più tempo per le ambiguità. I giornali palestinesi che un anno fa inneggiavano all’Intifada ora condannano l’incapacità di organizzarsi dell’Anp. In un reportage pubblicato sul Washington Post, l’autore, un palestinese, ha raccolto le parole del suo vicino di casa: "Si stava meglio prima che Israele se ne andasse", almeno "eravamo occupati", un gioco di parole che ha a che fare con il lavoro, che prima c’era e che ora manca, ma anche con il malcontento dei palestinesi, stanchi tanto di Hamas quanto di Fatah. Stanchi dell’incapacità di sfruttare un momento storico per dare una svolta risolutiva a una politica vissuta all’ombra degli alibi. No, Abu Mazen non ha più scelta, né più tempo, né, tra poco, credibilità presso il suo popolo.
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