Riceviamo e pubblichiamo un'argomentata critica al film "Private" di Saverio Costanzo.
Sui giornali italiani, contrariamente a quanto avviene normalmente per le opere cinematografiche, che suscitano consensi e critiche, il film di costanzo è stato quasi unanimente lodato.
Un coro di elogi che avrà qualcosa a che fare con le centinaia di collaborazioni del padre del regista, Maurizio Costanzo, con la stampa italiana ?
Ecco il testo della critica:Il conformismo è un’idra di Lerna (le cui teste, tagliate, ricrescevano) o, se preferite, un’Araba Fenice che risorgeva dalle proprie ceneri. Almeno però quelle bestie avevano il buon gusto di crepare definitivamente (l’Idra) o di non farsi più trovare (l’altra: che ci sia ciascun lo dice, / dove sia nessun lo sa). Il conformismo è invece passione veramente immortale. E, finché riguarda le cosiddette "masse", può essere anche comprensibile; quello che non si giustifica e che indigna è la "trahison des clercs", l’appiattirsi opportunistico degli "intellettuali" che non hanno scusanti, perché è a loro che compete il sacerdozio dello spirito critico, è a loro che spetta gridare "Il re è nudo!".
Lo dico ovviamente per la cultura di cui ho qualche conoscenza: quella occidentale, in particolare europea, in particolare italiana. Quest’ultima ha viaggiato a lungo, nel dopoguerra, immersa in un conformismo di matrice e ispirazione marxista, che ha improntato la produzione artistica e soprattutto la critica di tale produzione, dalle cattedre universitarie all’editoria, dalla cinematografia alle arti visive, stabilendo un circuito chiuso (pubblicazioni – recensioni – spettacoli – mostre – manifestazioni - festival – finanziamenti – premi – pubblicità) che tagliava praticamente fuori chi non avesse fatto una dichiarazione di allineamento preventiva o desumibile dall’opera.
Niente di strano, era tutto apertamente programmato, magari forzando un po’ (un po’ tanto) il senso dell’espressione gramsciana "intellettuale organico". Comunque sia, passato di "moda" il marxismo, occorreva un nuovo allineamento conformistico per gli orfanelli, ed ecco fiorire la nuova ortodossia antiamericana, terzomondista, "politically correct", e in particolare filoaraba. Per gli intellettuali e gli artisti in genere (anche per i politici, ma è un altro discorso) è anche meglio: in epoca sovietica la cultura doveva fare i salti mortali per giustificare ciò che avveniva nel paradiso del socialismo realizzato e per conciliare logicamente i valori proclamati e gli esempi proposti. Ora invece basta dirsi "anti-", basta denigrare la civiltà di cui si è figli, basta esaltare chiunque la combatte, con qualsiasi ideologia e qualsiasi mezzo; sulle proposte in positivo si sorvola, perché gli oppositori dei cattivissimi occidentali possono anche mettere in piedi società e regimi politici da incubo, ma, poverini, è sempre colpa nostra, quindi ciò che avviene nel mondo non occidentale non va giudicato ed esime da ogni responsabilità (loro nel fare, noi nel giudicare).
Ecco dunque il nuovo allineamento, che giunge a permeare non solo e non tanto la produzione culturale di élite, ma anche e maggiormente quella di massa, films e fictions in primo luogo. In questa sede e occasione, vorrei indicare in particolare l’autolavaggio del cervello e la conseguente continua disinformazione con cui si tratta il tema dell’unico vero "scontro di civiltà", e cioè il rapporto con il mondo arabo e islamico e la questione israeliano / palestinese.
Chi volesse entrare onestamente nell’argomento, dovrebbe premettere o almeno tenere presenti alcuni concetti fondamentali, senza i quali la riflessione e la discussione girano a vuoto. Li espongo scusandomi per il didascalismo, ma sono una premessa indispensabile.
Tutta la questione israeliano / palestinese nasce dalla determinazione araba di non voler ammettere l’esistenza di Israele, dal 1948 a oggi, il che non è affatto una questione formale o secondaria come lasciano credere i nostri spensierati giornalisti e politici; se non ci fosse questa malafede di fondo, un accordo si troverebbe, così come lo si è trovato con l’Egitto. I palestinesi, poi, non sono gli abitanti di un’isola contesa con gli israeliani e con il mare intorno, ma rappresentano una propaggine (indistinguibile sotto ogni aspetto) della realtà etnica, linguistica, storica, religiosa, economica, culturale e spirituale araba, e specificamente siriana e giordana; quelli di loro che furono coinvolti nella spartizione territoriale decisa dall’ONU nel 1948 potevano pertanto essere facilmente riassorbiti, come, in altri casi, sono state riassorbite in patrie più piccole masse di profughi più consistenti ( italiani e tedeschi ne sanno qualcosa ); tanto più che c’è stata la contemporanea e numericamente equivalente espulsione degli ebrei da tutti gli Stati arabi (ben più massicci sono stati gli scambi di popolazioni, sempre nel secolo scorso, tra Grecia e Turchia, India e Pakistan). Inoltre, cosa che moltissimi si impegnano a cancellare dalla propria mente, se gli arabi avessero vinto la guerra del 1948 o una qualsiasi di quelle successive, avrebbero attuato sugli sconfitti una "soluzione finale" molto più rapida e "finale" di quella di Hitler; hanno sempre perso, e ora vogliono fare come se avessero vinto, senza pagare alcuno scotto per gli errori commessi, le sofferenze inflitte, gli atteggiamenti di insensata ferocia esibiti collettivamente anche durante la prima guerra del Golfo, quando appoggiarono Saddam nell’invasione del Kuwait e applaudirono i missili lanciati su Israele che era fuori dal conflitto e non replicava; senza parlare dei festeggiamenti per l’11 settembre. Credono che tutto questo non si paghi? Credono di poter respingere ogni ragionevole proposta di accordo, e di presentarsi poi, freschi freschi, a pretendere ancora di tutto e di più? Lo credono: e a tal fine continuano ad alimentare il fanatismo terrorista, condiviso in misura rilevantissima e comunque protetto da una totale omertà; lo stesso Abu Mazen ha vinto le elezioni ma non è in grado di pronunciare sul serio l’unica parola necessaria, cioè "Basta".
Il terrorismo, e non altro, ha costretto e costringe gli israeliani alle indispensabili contromisure: il così detto "muro", che poi è un reticolato e certo non uccide nessuno, a differenza di quello di Berlino che fino al 1989 non era politically correct criticare; e tutte le azioni di perquisizione, demolizione, blocco dei tunnel, arresto, controllo del territorio, conflitto armato, eliminazioni mirate. Cose sgradevoli, certo, ma qual è l’alternativa? Forse lasciarsi massacrare gradualmente, oppure reimbarcarsi tutti per altri due o tremila anni di diaspora? E comunque gli israeliani mantengono sempre, anche in situazioni così angosciose, un senso di responsabilità e di proporzione nelle risposte; se vengono colpiti dei civili, è solo perché come tali vengono spacciati dall’altra parte i miliziani o perché, se veri civili, vengono usati, in prima fila i bambini, come scudi umani; le uccisioni indiscriminate, spietate, razzistiche di persone inermi vengono tutte dall’altra parte. Il terrorismo è diventato ormai non un mezzo ma un fine in sé, un’ideologia totalizzante, impermeabile a ogni ragionamento e trattativa. Basti pensare alle "proposte" di Hamas per una eventuale "tregua": Israele dovrebbe rientrare al 100% nei confini del 1967, sgomberare tutti gli insediamenti, poi si riprenderebbe la guerra dalle nuove basi fino alla distruzione totale dello Stato ebraico. Non sono invenzioni, sono dichiarazioni esplicite, serie e recentissime di Hamas. E infine, per quanto riguarda le tristi condizioni economiche degli arabi dei Territori (non certo di quelli che vivono in Israele), ogni sentimento di pietà risulta a dir poco fuori luogo e grottesco a chi consideri, ora che le cose sono venute fuori, l’entità colossale (decine e decine di miliardi di dollari) dei fondi di Arafat, alimentati anche dal contribuente italiano ed europeo, e il modo in cui somme equivalenti e superiori sono state spese, in cinquant’anni, per guerra, terrorismo e corruzione, mandando in malora tutto il resto a cominciare dal turismo (mentre una distribuzione equa di queste immense risorse ai "profughi" ne avrebbe fatto dei benestanti).
Tutte queste sono verità di fatto, di solare evidenza, affermate dalla Storia e riconfermate ogni giorno; dovrebbero quindi costituire il punto di partenza di ogni approccio conoscitivo, di ogni ragionamento e giudizio, di ogni progetto e iniziativa di "pace". Altrimenti questo termine bellissimo diventa un belato ipocrita che cela, anzi rivela, malafede intellettuale e morale (in Occidente) e programmi di genocidio (in Oriente).
Ora, perché ho ripetuto queste amare verità, sotto un titolo che sembra riferirsi solo a uno spettacolo cinematografico? Perché la grande colpa, l’odiosa mistificazione del film in oggetto consiste nell’aver isolato, nella drammatica situazione mediorientale, solo una briciola infinitesima della realtà, tenendo fuori tutto il resto; e in questi casi l’omissione è falsificazione.
Mi spiego. La trama è semplicissima: nella casa di un professore palestinese irrompe una pattuglia israeliana che ne requisisce il primo piano per fini, probabilmente, di sorveglianza strategica e antiterroristica del territorio. Si instaura così un condominio forzato, ovviamente penoso per i proprietari della casa, e il film termina con un finale aperto, senza mostrare una conclusione e anzi lasciando sospettare possibili sviluppi tragici. Tutta la narrazione è centrata esclusivamente sulla famiglia araba, e si svolge in un clima claustrofobico, di totale incomunicabilità, in cui emerge il rancore dei giovani per l’umiliazione subìta ma soprattutto la personalità dignitosa, forte ma pacifica, del capofamiglia. Non ci sono discorsi significativi con gli occupanti e nemmeno discorsi di carattere generale all’interno della famiglia: si parla solo del vissuto quotidiano.
L’idea di partenza era buona; in fondo, gran parte della narrativa cinematografica si sviluppa partendo da incontri imprevisti e da convivenze "forzate", che mettono a confronto personalità, idee, sentimenti e comportamenti; la coppia formata da un prigioniero e da un poliziotto o uno sceriffo che deve accompagnarlo in un viaggio, oppure da un sequestratore e un sequestrato, i cui rapporti si evolvono e si arricchiscono via via, è da sempre un classico del western e del cinema in genere. In questo caso, poi, il protagonista palestinese, uomo evoluto, colto e razionale, poteva essere un interlocutore interessante almeno per qualcuno degli occupanti, magari per il loro comandante; dopo tutto, i soldati israeliani non sono lanzichenecchi, in massima parte vengono dalla vita civile ed hanno un livello d’istruzione buono, spesso elevato. Era più che verosimile che, dopo i primissimi giorni, si sviluppasse un confronto, una dialettica, e lì avrebbe preso corpo il "messaggio" del film, il suo itinerario tra le verità di fatto e le verità vissute, tra i rapporti ideologici e quelli umani; lì il film avrebbe mostrato lo spessore culturale del suo retroterra e la capacità (o l’incapacità) del suo autore di sintetizzare nel linguaggio delle immagini le problematiche in gioco, senza pretendere di risolverle ma anche senza ignorarne il peso e le conseguenze.
Invece, niente. Tutto il mondo circostante, tutte le cause del conflitto, tutte le questioni irrisolte, cominciando da quella del riconoscimento reciproco del diritto all’esistenza fisica e politica, non esistono. Sembra che il film sia ambientato su Marte. Gli israeliani sono figure senza volto, senza umanità, senza parola, sono degli alieni. Certo, all’inizio poteva essere giusto presentarli così, per evidenziare il punto di vista soggettivo della famiglia la cui abitazione è invasa; ma poi si poteva ritrovare un po’ di equilibrio, far scattare la scintilla di un contatto umano, e non certo per "buonismo", ma per la logica della situazione e per dare al film un senso; era normale che il comandante non si accontentasse di sottomettere militarmente il professore, ma accettasse o addirittura lanciasse la sfida del confronto delle idee; era normale che il regista presentasse il suo punto di vista, ma confrontandosi con la Storia e con altre idee e interpretazioni. Mancando tutto ciò, l’occupazione resta un’azione insensata e arbitraria, un sopruso compiuto per sadismo, senza spiegazioni, con una oltraggiosa esibizione di forza e con il contorno di altre vessazioni quotidiane. La reazione suggerita allo spettatore non può essere quindi che emotiva e a senso unico: chi va a pensare, assistendo al film, a che cosa accadrebbe se le parti si rovesciassero, se una famiglia israeliana si trovasse isolata e in balìa degli arabi? Nessuno. Eppure abbiamo sentito tutti, e qualche volta visto, in quale modo a Ramallah si sbranino vivi degli esseri umani, o in quale modo si uccida una donna incinta con i suoi quattro figli. Ma se questi e infiniti altri episodi non vengono ricordati, gli israeliani che prendono le loro precauzioni sembrano l’incarnazione del Male.
Qualcuno potrebbe dire: ma ad un film non si può richiedere la completezza dell’analisi, si tratta di un’operazione di scelta del regista che individua una situazione e la sviluppa a modo suo, senza essere tenuto a dar conto di tutto il contesto. E poi, la libertà dell’artista… Ebbene, NO. Se un regista sceglie un contesto reale, a maggior ragione se presenta il suo lavoro, anche da un punto di vista tecnico e formale, quasi come se fosse un documentario, deve far partecipare gli spettatori all’intera realtà rappresentata, deve rendere conto di entrambe le situazioni umane, dall’una e dall’altra parte, e di ciò che ha causato le rispettive azioni e reazioni: ideologie e fatti. Non ci vuole molto, se si vuole farlo; bastano poche immagini, poche battute di dialogo, poche situazioni umane mostrate o raccontate, e il messaggio si riequilibra, diventa utile, può stimolare la riflessione; il film stesso ha tutto da guadagnare, come valore artistico e come potenzialità comunicativa. Non solo non si fa storia o cronaca, ma non si fa nemmeno narrazione, letteratura, pensiero, civiltà, se l’"altro" è una maschera muta e oscura, un incubo kafkiano contrapposto all’umanità del protagonista. Nessuno, ripeto, è così insipiente da pretendere che considerazioni storico-politiche sulla crisi mediorientale come quelle sopra esposte diventino parte della sceneggiatura; ma, se l’opera aspira alla dignità, a quella che una volta si chiamava "universalità", ad una sua consistenza anche a livello drammaturgico e psicologico, occorre poter constatare che esse sono presenti alla mente e alla coscienza del regista, al quale basteranno pochi accenni e richiami per introdurle nella contrapposizione tra i due personaggi/simbolo, sia come accuse reciproche, sia, meglio, come momenti di contraddizione interiore e crisi personale.
Questo per restare sulle generali; ma nel film c’è di più. Intanto, il motivo della requisizione della casa viene accennato in una conversazione tra la padrona di casa e una vicina: si tratterebbe di sorvegliare e proteggere l’accesso a un vicino insediamento ebraico. E la vicina commenta subito che è una assurdità, che l’allarme per un attacco armato arabo a un insediamento ebraico non può essere che una bugia e un pretesto. Proprio così. Mai avvenuto.
E il protagonista? Sarà pure un Gandhi arabo, un profeta della non violenza: ma quanti ce ne sono, in misura assoluta e in %, che ragionano così? Mi viene in mente Don Milani che contestava il compito di francese assegnato ai suoi alunni perché era "un concentrato di eccezioni", e affermava che le eccezioni vanno presentate con le stessa frequenza con cui compaiono nell’uso corrente della lingua. Lo stesso può dirsi per la rappresentazione di una società. Un film acquista inevitabilmente per gli spettatori un valore paradigmatico, a volte più incisivo e persistente di quello della realtà (Pirandello, nei "Sei Personaggi in cerca d’Autore", sostiene che i personaggi sono più veri delle persone!); e allora non si può onestamente presentare agli spettatori il mondo arabo attraverso una realtà individuale così poco rappresentativa rispetto al costume e alla mentalità prevalenti. Non si può essere più realisti del re: io credo che neanche un regista arabo avrebbe presentato un protagonista simile, appunto perché lo avrebbe considerato inverosimile, e forse non gli sarebbe neanche risultato simpatico. Ma, ammessa e non concessa la plausibilità del personaggio: se è così pacifista e nemico del terrorismo, come mai vive nel suo buen retiro e non ha mai cercato, per quanto risulta dal film, di contrastare la mentalità terroristica che non condivide? Si è mai posto il problema? Ha cercato di avere un ruolo positivo nella sua comunità, oltre che nella sua famiglia? Per il regista, a quanto pare, ciò è irrilevante: neanche un brandello di conversazione sull’argomento.
A proposito del terrorismo: compare solo nelle scene finali, come immagine televisiva (quindi già in parte "sterilizzata", e comunque senza la scene più atroci che invece vengono viste e riviste all’infinito, con gioia e orgoglio, sui teleschermi del mondo arabo). Il ragazzo, figlio del protagonista, che non ne può più dei soprusi subìti, guarda affascinato e ne trae l’ispirazione per provare, un po’ goffamente, a fare la sua parte. Quindi, il terrorismo è sganciato dall’ambiente di folle integralismo religioso in cui matura, non è una manifestazione di odio assoluto, non è l’opposizione fanatica a ogni ipotesi di risoluzione del conflitto: è solo una reazione a un trattamento ingiusto e intollerabile, e a questo punto, per lo spettatore poco informato e già parzialmente condizionato in partenza dal clima di conformismo di cui parlavo all’inizio, è fin troppo facile comprendere le pulsioni omicide del ragazzo e comprendere molto meno gli astratti insegnamenti pacifisti del padre.
Tra le poche situazioni costruite nel film, ce ne sono poi molte assurde anche in assoluto, indipendentemente dalle intenzioni faziose e propagandistiche. Ne riferisco un paio a caso, per mostrare che la disonestà dei propositi si accompagna con, diciamo, la poca riflessione.
Quando la figlia del protagonista si chiude in un armadio per spiare i soldati, apre e chiude continuamente le ante, anche mentre i soldati guardano nella sua direzione a mezzo metro di distanza, ma non si accorgono di nulla; le cerniere non scricchiolano (eppure il mobile è vecchio!), e soprattutto la ragazza dovrebbe avere le mani di Spider Man, perché manovra le ante dall’interno, allargando e restringendo con estrema precisione la feritoia, ma non mi risulta che gli armadi abbiano maniglie interne per poter compiere l’operazione! Sarà un modello speciale, magari progettato per mogli infedeli con mariti gelosi…
Altra assurdità: uno dei ragazzi, come accennavo prima, prepara una trappola esplosiva per i soldati nella serra. Lo fa utilizzando una bomba a mano dimenticata dagli israeliani stessi (notoriamente, i palestinesi non hanno fonti di rifornimento per certi articoli, non saprebbero procurarseli se non prendendo fortunosamente quelli del nemico). Ma quando vede suo padre avviarsi verso la trappola rimane silenzioso a guardare, e il protagonista si salva solo perché all’ultimo momento lo chiamano al telefono e rientra in casa. ???!
Ed ecco che un film del genere, indisponente nella sua provocatorietà, fazioso nel suo messaggio, ignobile nella sua malafede, unilaterale e falso come più non si può, e per di più discutibile (per non dir peggio) anche nella realizzazione, viene salutato come un capolavoro, come la rivelazione del neo-regista Saverio Costanzo, viene premiato o almeno complimentato in sei festival internazionali, fa sdilinquire i critici: "Inchioda e appassiona, emoziona e commuove"; "entra sottopelle, diventa una lezione di vita". No comment. O, meglio, un commento solo: siamo tornati alla "critica militante" e all’intellettuale pifferaio della rivoluzione (in questo caso, non più proletaria ma arabo/islamica). All’autore si chiede solo di essere ideologicamente "in linea", poi il battage elogiativo e pubblicitario può partire. E nella ricerca degli elogi si può anche parlare a vanvera, come è avvenuto: i critici hanno voluto attribuire all’autore anche una inesistente sensibilità e correttezza politica nei confronti degli israeliani, che sarebbero stati presentati con discrezione, comprensione e rispetto; non solo, ma la forzata convivenza avrebbe fatto emergere in loro momenti di dialettica tra la divisa e l’uomo, cenni di umanità verso le vittime e di crisi interiore. Per cui, il film aggiungerebbe ai suoi pregi quello di essere bipartisan come una constatazione amichevole di sinistro. Ma quando mai? Ma quale film hanno visto? Non c’è una scena, non c’è una inquadratura che risponda lontanamente a queste descrizioni e interpretazioni. O forse Costanzo è stato moderato ed equanime per il fatto di non aver presentato gli israeliani con le corna e con la coda?
Insomma, l’evento tutto sommato modesto della circolazione di questo film conferma una ben più importante verità e tendenza: il conformismo filoarabo è incontrastato, trova complicità in tutti gli ambienti intellettuali, diffonde mistificazione e disinformazione e trova il modo di raggiungere anche chi non si interessa di politica. E l’arma più efficace della disinformazione non è tanto la falsità quanto l’omissione sistematica, appena è possibile, di ogni elemento, ogni dato di fatto, ogni confronto, ogni riflessione che possa turbare la beatitudine del politically correct a senso unico. Pensiamo al famigerato telecronista Pietro Longo che, durante le settimane di assedio della chiesa della Natività, non disse mai che cosa i miliziani asserragliati e armati fino ai denti volevano fare, lasciando invece inorridire i telespettatori per gli sfracelli che gli israeliani non volevano fare. Pensiamo alle immagini dell’orrendo linciaggio di Ramallah, che la RAI si era impegnata a non trasmettere (come tutto ciò che non garbasse ai palestinesi) e che furono diffuse "per sbaglio", tra la costernazione di tutti i dirigenti che volevano tenere gli italiani all’oscuro e che si profusero in umilianti discolpe, giustificazioni, scuse e nuove promesse con i palestinesi. Pensiamo alla political correctness casareccia di quelle maestre, stupide come galline e ignoranti come capre, che volevano abolire il presepe per "non offendere" i musulmani: ignoranti perché festeggiare Gesù non offende assolutamente i musulmani, stupide perché, se anche "si offendessero", dovrebbero essere loro ad adattarsi e non noi, a casa nostra (forse che un europeo "si offende" se assiste a feste buddiste, induiste, di Manitù o che so io?); ma ancora più ignoranti, stupide e spregevoli perché, guarda caso, il problema non si è mai posto per gli Ebrei, che pure potrebbero avere (loro sì) qualche ragione per provare disagio davanti a celebrazioni cristiane (quale giornalista o intellettuale, in tutta Italia, ha fatto questa considerazione?).
Forse sarà un po’ contraddittorio, ma alla fine di questo sfogo vorrei rivolgere a Saverio Costanzo un invito: perseveri nella missione che ha intrapreso. Se gli interessa guardare il mondo dal buco della serratura dello sgabuzzino posto nel sottoscala, eserciti pure la sua capacità di proporre punti di osservazione così concentrati e rivelatori per farci capire, per farci entrare sottopelle, per farci apprendere la lezione di vita (espressioni del critico del Corriere della Sera) di certi ambienti che non sappiamo apprezzare abbastanza. Ci trasporti dunque nel quartiere napoletano di Scampìa, o di Forcella, o di Secondigliano, e ci mostri la dignità, il coraggio, la solidarietà, la cultura, la fede nella non violenza che anima quelle comunità, quelle famiglie laboriose, oneste e serene, quando una forza oscura e brutale, la Polizia di Stato o l’Arma dei Carabinieri, irrompe tra di loro senza un motivo, profana l’intimità delle loro case, butta tutto a soqquadro fingendo di cercare droga, armi ed esplosivi, brutalizza e arresta i padri di famiglia, lascia i bambini traumatizzati e le donne in lacrime a chiedersi "perché?". Oppure ambienti il prossimo film a Palermo, qualche anno addietro, quando, agli ordini di Falcone e Borsellino, altre bande di poliziotti e carabinieri sconvolgevano il delicato tessuto economico, morale e sociale della città, perseguitando onorati esponenti della società civile intenti solo a coltivare le loro tradizioni identitarie, i loro legami familiari, le loro attività filantropiche di protezione dei commercianti, le loro attività scientifiche ed ecologiche nel campo della chimica (ottimizzazione di sostanze vegetali provenienti dall’Asia e dal Sudamerica, produzione di acidi dissolventi per purificare l’ambiente, ecc.); e mostri la coerenza, la fermezza, lo spirito di resistenza di queste famiglie, pur sottoposte alla violenza e all’arbitrio da parte delle cosiddette "forze dell’ordine". Ci faccia penetrare nel mondo segreto dei loro sentimenti, del loro desiderio di pace e di giustizia, della loro innocenza, della loro umanità. Gliene saremo grati, e per lui non sarà troppo difficile: sa già come si fa, basta ignorare quello che c’è intorno, quello che c’è stato prima, quello che ci sarà dopo, e stringere l’obiettivo sul primissimo piano, anzi sul dettaglio.
Oppure, lasciando da parte il sarcasmo, ci faccia entrare in una delle tante famiglie arabe, alquanto più rappresentative, in cui si coltiva l’odio, e dove anche i rapporti interni sono mille miglia lontani da quelli, così evoluti, razionali, democratici, non patriarcali e non maschilisti, che lui ha voluto ammannirci elevando l’eccezione rarissima (forse del tutto immaginaria) a regola.
Oppure ancora, punti la telecamera sulle vittime dei terroristi suicidi, per farci vedere il vero strazio quotidiano, la vera dignità, la vera disperazione e la vera speranza di chi è stato colpito dalla furia sanguinaria dei fanatici, ed ha conservato un brandello di vita fisica ma è in condizioni da rimpiangere, spesso, di non aver perso anche quella.
Bruno di Mauro
Bologna, 19 / 1 / 2005.