IL FOGLIO di mercoledì 28 settembre 2005 pubblica a pagina 3 l'editoriale "I nuovi sharoniani", che riportiamo:Ieri il ministro della difesa del governo Sharon, Shaul Mofaz, ha avvertito Hamas in questi termini: se continuate a uccidere con i razzi Kassam, elimineremo i vostri capi. Parole da prendere sul serio, vista la fonte. Molto sul serio, visto che il ritiro unilaterale da Gaza è stato reso possibile dai seguenti fatti: una sistematica, sebbene controllata e proporzionata, repressione del terrorismo in Cisgiordania e nella stessa Gaza (2002-2005); la completa delegittimazione politica della leadership di Yasser Arafat, che ha consentito alla sua morte fisica, preceduta da quella politica, un cambio di orientamento nell’Autorità nazionale palestinese ancora non consolidato, ancora segnato da ambiguità, ma sensibile, avvertibile; la costruzione di una barriera difensiva o muro, opera ciclopica che fa da limes difensivo contro il terrorismo più spietato e fanatico di tutti i tempi, il terrorismo suicida; l’eliminazione fisica degli sceicchi del terrore e dei dirigenti operativi dell’apparato militare di Hamas.
L’ipotesi che Sharon sia diventato buono, che si sia trasformato in una nuova icona pacifista da premio Nobel, in un campione di volontarismo etico che disfa tutto il male che ha fatto e merita il perdono degli editorialisti europei, fa parte di quelle surrealtà ideologiche sempre troppo belle per essere vere. Certi commentatori hanno un bisogno quasi fisico di compiacere attese oniriche presupposte nei loro lettori, e rinunciano a spiegare l’unica verità: che in politica non esiste la bontà, soprattutto nella politica in tempo di guerra, ma solo una buona o una cattiva politica. Quella di Sharon è stata un buona politica, difesa quando fu attuata da pochi buoni amici di Israele e della verità, e per questo si è arrivati non alla loffiaggine di una qualche convenzione-quadro di Ginevra, non alla riedizione di processi di pace cartacei, nei quali era impegnata la crema politica e intellettuale d’Europa, ma a un risultato realistico e insieme possente, visionario, pieno di speranza come il doloroso ritiro degli insediamenti nella striscia. Non è Sharon che si è trasformato, è la sua politica coraggiosa che ha trasformato il modo di vedere le cose di politici e commentatori che predicavano l’Apocalissi a ogni mossa del governo israeliano: l’invio dei carri armati a Ramallah e Jenin, un massacro senza sbocco; la barriera difensiva, un oltraggio alla dignità umana; l’eliminazione dei capi del terrore, un crimine che avrebbe provocato cento, mille altri crimini in risposta. Invece di rendere conto delle loro parole passate, che se fossero stati al governo sarebbero diventate politica estera filofrancese dell’Italia, cioè politique arabe di incoraggiamento operativo ad Hamas, politici e commentatori neosharoniani inventano per comodità l’apparizione di un presepe pacifista dove la gente seria vede soltanto la precaria ma grande fortezza politica costruita da un leader che fino a ieri si voleva impiccare ai suoi crimini e ora si vuole impiastricciare di scivolosa melassa intellettuale e morale.
a pagina 1 dell'inserto troviamo invece l'analisi di Emanuele Ottolenghi "Vince Sharon, vince il realismo. Il Likud si sposta verso il centro".
Ecco il testo:Gerusalemme. Il primo ministro israeliano, Ariel Sharon, ha vinto. Il margine è
stato di soli 104 voti e l’affluenza del 91 per cento è stata da record. Così lunedì notte il premier israeliano ha evitato la frattura all’interno del suo partito e ottenuto che le elezioni primarie per la leadership rimanessero fissate per l’aprile del 2006. Dopo una settimana convulsa di manovre politiche
all’interno del Likud, il Comitato centrale ha dunque emesso il suo verdetto.
L’organo, che per quattro anni è servito agli avversari del primo ministro per ostacolarne le politiche, questa volta lo ha sostenuto. Domenica Sharon aveva dovuto subire una doppia umiliazione: centinaia di oppositori avevano abbandonato la sala nel momento in cui il premier si apprestava a leggere il suo discorso, che però non ha mai pronunciato a causa di un microfono difettoso o forse sabotato. Le elezioni di lunedì erano solo apparentemente una questione tecnica. In pratica, l’anticipo era un voto di sfiducia contro Sharon, il cui scopo era di frenarne la marcia verso il centro politico per riportare il Likud a destra. La battaglia interna al partito è stata dominata dalle seguenti questioni: la leadership, con l’implicito tema della direzione politica del partito sottostante la sfida di Benjamin Netanyahu e di Uzi Landau contro Sharon, il rischio di frattura, paventata dalla possibilità che il premier, se sconfitto, avrebbe lasciato il Likud per fondarne uno suo, e la possibilità che la sua uscita avrebbe portato a elezioni anticipate e a un eventuale tracollo elettorale del partito. Per tutta la settimana esponenti del Likud vicini a Netanyahu hanno pubblicamente chiesto che il primo ministro si impegnasse a restare nel partito anche in caso di sconfitta, sollecitando un dibattito franco sulla sostanza delle politiche che Sharon intende perseguire. Di fronte alla prospettiva della vittoria di Netanyahu, altri hanno rotto gli indugi e si sono schierati contro il premier. Sharon, per conto suo, si è rifiutato di rispondere alle provocazioni. Non ha mai espresso l’intenzione di lasciare il partito, lasciando quel compito soltanto alle fughe di notizie provenienti dalla cerchia dei suoi consiglieri, ma non ha mai ceduto alle pressioni e nemmeno ora, dopo la sua vittoria, ha rivelato le sue intenzioni. La vittoria di Sharon è quella di una battaglia in una guerra che durerà ancora molti mesi e che minaccia di lacerare il Likud. Ma è comunque importante: con le primarie rimandate il rischio di un’elezione anticipata diminuisce. Con i suoi due rivali entrambi allontanati dal potere – Landau si è dimesso l’anno scorso, Netanyahu ad agosto, una settimana prima dell’inizio del disimpegno da Gaza – Sharon può permettersi di promuovere le sue politiche e capitalizzare sui risultati e sulle risorse a sua disposizione per premiare chi gli è rimasto fedele, punendo invece chi lo ha abbandonato. Non è da escludere una piccola resa dei conti all’interno del governo contro chi ha lasciato la nave all’ultimo momento. Infine, il risultato conta perché, con tutti i distinguo necessari, riconferma la linea politica centrista adottata dal primo ministro. I motivi della sua vittoria sono molteplici. In tanti avranno votato Sharon più per opportunismo che per ideologia, ma altrettanti del suo partito lo hanno scelto perché accettano la sua decisione di rompere con il passato ideologico e riconciliarsi con la realtà geopolitica in cui Israele si trova dopo cinque anni di Intifada e di sconvolgimenti regionali e internazionali. La vittoria di Sharon però non chiude il conflitto interno al Likud. Netanyahu ha mancato il suo obiettivo per una manciata di voti. Questo è un chiaro segno di quanto il partito sia diviso. Con il disimpegno da Gaza, Sharon ha riconquistato parte della fiducia e il sostegno internazionale che Israele aveva perso in quattro anni di guerra contro il terrorismo palestinese. Ma ha anche lasciato dietro di sé una scia di recriminazioni politiche all’interno del Likud, accentuate dal fatto che Sharon ha ignorato ripetutamente le posizioni espresse dal Comitato centrale, dal 2002 a oggi, sulla questione dello Stato palestinese e sul disimpegno. Mentre il mondo applaudiva l’evacuazione di Gaza e il discorso di
Sharon alle Nazioni Unite, parte del suo partito inorridiva all’abbandono da parte di Sharon di quelle che molti considerano le fondazioni irrinunciabili dell’ideologia del Likud. Per ora Sharon rimane saldamente in sella alla guida del Likud, ma il dibattito sull’anima del partito e sul suo futuro è tutt’altro che chiuso. Al di là dell’irrisolta diatriba ideologica, chi per il momento ha perso è Netanyahu. Avrebbe potuto rimanere fedele a Sharon, continuando a servirlo come ministro delle Finanze e assicurando così un buon esito al suo ancora incompiuto programma di riforme. Difficilmente la sua successione a Sharon, che ha 77 anni, sarebbe stata contestata in futuro. Invece, dimettendosi
una settimana prima del disimpegno, che aveva in precedenza appoggiato, e perdendo ora il voto del Comitato centrale, Netanyahu si rivela ancora una volta un pessimo stratega. Ora, l’ex ministro può scegliere se guidare una rivolta parlamentare con poche chance di successo o se attendere aprile, lasciando che intanto Sharon si rafforzi.
AVVENIRE pubblica a pagina 15 un'intervista di Graziano Motta all'analista israeliano Manfred Gerstenfeld, "Gerstenfeld: a Sharon converrebbe lasciare il Likud"
Ecco il testo:Un'atmosfera di "fine-regno" al Comitato centrale del Likud? Non ha esitazioni a parlarne Manfred Gerstenfeld, presidente del prestigioso "Jerusalem Center for Public Affairs" e analista fra i più acuti della vita politica israeliana. «Parlando di frequente con uomini politici d'Europa - spiega - chiedo se il loro Paese sarebbe ancora una democrazia se avesse lo stesso numero di attentati che Israele ha avuto. Molti di essi mi rispondono no. Ora Israele è una democrazia sotto assedio nella quale succedono delle cose che nei Paesi scandinavi, ad esempio, non capitano. Detto questo, la fine del "regno" non è assolutamente scontata, anche se tutto è possibile.
Nel Comitato centrale è riesploso l'antico antagonismo tra Sharon e Netanyahu. Potranno mai andare di nuovo d'accordo?
Sono due le ragioni del loro antagonismo: il disaccordo su Gaza e l'ambizione personale. Ma in politica tutto è possibile. Moltissimi, e io sono fra questi, ritengono che il ritiro unilaterale da Gaza sia stato un errore, perché ai palestinesi che hanno una società permeata di criminalità, non si può dare gratis alcunché. Se ci saranno altri attacchi dei palestinesi, più gente si convincerà che il disimpegno è stato un grave errore. Uno scenario di questo genere farebbe prendere a Sharon più voti a sinistra. Un nuovo partito di centro alleato col Likud potrebbe conquistare la maggioranza alla Knesset.
I sondaggi parlavano di Cinquantaquattro seggi su centoventi.
Sì, e sarebbero molti di più per Sharon di quelli che otterrebbe se restasse alla guida del Likud. È molto difficile infatti per tanti elettori di centro votare per Sharon come leader del Likud e invece molto più facile votare per lui come leader di un partito di centro. Così come è considerata perdente l'ipotesi che i partiti laburista e Shinui concorrano alle elezioni insieme con quello di Sharon; non prenderebbero più voti di quelli che hanno per così dire "in dotazione". Mentre Sharon da solo riuscirebbe ad erodere loro dei consensi.
Un domani di dialogo con i palestinesi come potrebbe conciliarsi con la visione politica da lei prospettata?
Ci sono due approcci diversi, ci sono le pressioni della comunità internazionale, c'è anche la necessità per Sharon di non mettersi contro, di non scontentare gli Stati Uniti. È opinione diffusa in Israele che non ci siano state pressioni americane per il ritiro da Gaza, è stata solo un'idea di Sharon. Anche se non si è chiarito del tutto se siano stati gli americani a insistere o se lui ha convinto la Casa Bianca. È ovvio che se domani ricominceranno gli attentati suicidi e se continueranno a cadere i missili Qassam sul territorio israeliano, e non soltanto su Sderot ma anche sulla più distante Ashqelon, la comunità internazionale potrà fare tutte le pressioni che vuole ma in Israele non ci sarà la maggioranza per chiedere altri sgomberi.
IL RIFORMISTA pubblica apagina 2 l'editoriale "Le primarie di Arik"
Ecco il testoTra la sorpresa di molti osservatori, a vario modo interessati, Ariel Sharon ha vinto la partita interna al suo partito. La chiave del successo è l’alto numero di partecipanti alle primarie del Likud che ha dimostrato due cose: la prima è che Sharon resta ancora il leader del partito che ha fondato; non più indiscusso e indiscutibile, ma comunque il capo carismatico che ha in mano le sue truppe. La seconda è che Benjamin Netanyahu è un personaggio così controverso e controversiale da non poter aggregare. Disgregatore per vocazione e per temperamento, per lui il fattore carattere è sempre determinante. Lo è stato nel periodo in cui ha governato, lo è stato come ministro dell’economia, lo è ancor più come sfidante di un uomo che si è battuto per il suo paese mentre Bibi era negli States a far soldi e costruire la propria carriera. Ma, forse più di ogni altra considerazione, va sottolineato che il successo di partito garantisce a Sharon anche il consenso interno di cui aveva bisogno per portare avanti un progetto che, pur con tutte le riserve e le incognite, viene ritenuto l’unico possibile e l’unico valido per gli israeliani. L’unico in grado di garantire il futuro del paese in un Medio Oriente in tumultuosa trasformazione. Mettere i palestinesi di fronte alle loro responsabilità lasciando Gaza e accettare l’idea dei due stati, facendo una mossa che nemmeno i più coraggiosi capi laburisti erano stati in grado di fare (il ritiro da parte dei territori occupati) era una scommessa ardita, temeraria persino. Ma ad oggi è risultata vincente.
Dicevamo della sorpresa. Ha colto chi pensava che Sharon era isolato. A destra, in quella israeliana, ma non solo. E a sinistra, tra chi non ha mai smesso di guardare alla questione palestinese con antichi paraocchi senza rendersi conto dei cambiamenti in corso. Il successo di Arik (come il generale viene chiamato) è importante anche per questo. La partita adesso è tutta da giocare, di qui alle elezioni, proprio in campo palestinese. Una partita doppia: dentro Al Fatah e nei confronti di Hamas. Anche Mahmud Abbas deve fare le sue «primarie» che si presentano molto più pericolose. Perché Al Fatah non è un nucleo coeso attorno a un capo carismatico, ma piuttosto una costellazione di gruppi, di clan, di signori delle tessere e delle armi. Questa instabilità interna indebolisce Abu Mazen anche nei confronti di Hamas che ha deciso di partecipare al gioco politico, senza deporre le armi. Quindi, gioca con regole truccate. Ieri ne ha dato dimostrazione uccidendo Sasson Nuriel il cittadino israeliano rapito vicino a Ramallah (accusato di essere un agente segreto) e annunciando che sarà solo il primo di una lunga catena di rapimenti. Il successo di Sharon dovrebbe spingere adesso la comunità internazionale (e l’Unione europea in particolare) a scendere in campo per condizionare la dinamica interna palestinese. E mettere Hamas con le spalle al muro. Speriamo che a questo punto, ogni doppiezza venga abbandonata e ogni timidezza sia fugata una volta per tutte.
Sempre a pagina 2 troviamo l'editoriale "Le primarie di Hamas cominciano col boia" che riportiamo:Perché dobbiamo vedere l’orrore iracheno replicato a Gaza?
Perché un altro video di un civile inerme, bendato e ammanettato,
che chiede pietà davanti a una telecamera, pochi
minuti prima di essere ucciso? Il nostro perché non è retorico.E’
un vero perché. I terroristi islamisti iracheni ritengono l’Iraq una
terra occupata. Questa è la giustificazione che adottano per spiegare
la loro ferocia, che si abbatte su occidentali e arabi collaborazionisti,
giustiziati nelle prigioni del popolo di Zarqawi. Ma
Gaza è una terra appena liberata. L’occupante israeliano se ne è
andato, unilateralmente, di sua iniziativa. Vi si terranno libere
elezioni, o almeno libere da ogni condizionamento israeliano.
Rapire un civile e ucciderlo davanti alla telecamera è dunque un
atto che non ha spiegazioni nemmeno nella logica di «liberazione
» di Hamas. Né sono giustificazioni sufficienti l’ipotesi che Sasson
Nuriel, il commerciante di dolciumi ucciso, sia una spia israeliana:
o che sia stato ucciso per vendicare i militanti di Hamas arrestati
poche ore prima dagli israeliani.
L’unica giustificazione di questa barbarie è la campagna
elettorale inter-palestinese. La voglia di Hamas di tenere la
scena mediatica, di far concorrenza al moderato Abu Mazen,
di dimostrare che la liberazione di Gaza non è un frutto della
strategia negoziale dell’Anp ma la capitolazione israeliana di
fronte alla potenza delle milizie armate. Un uomo giustiziato
per vincere le primarie. Non era per vedere questo che il mondo
civile aveva festeggiato la liberazione di Gaza.
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