E' morto Simon Wiesenthal
ritratti e ricordi
Testata:
Data: 21/09/2005
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: E' morto Simon Wiesenthal
Publichiamo un ricordo di Simon Wiesenthal di Federico Steinhaus.

Ecco il testo.

La morte di Simon Wiesenthal ha suscitato molta emozione nel mondo intero. Non poteva che essere così, del resto, per una figura che ha riempito di sé e della sua missione metà dello scorso secolo. Non voglio celebrarlo, aggiungendo la mia voce a quanti hanno descritto, spesso senza approfondirne le motivazioni, la sua opera: voglio solo ricordarlo.

Ho conosciuto Wiesenthal quando ero un ragazzino; io collezionavo francobolli, come a quel tempo molti ragazzini facevano, e lui era già un collezionista esperto. Ci siamo scambiati francobolli, Simon Wiesenthal e questo ragazzino, e poi nel corso degli anni il nostro rapporto di conoscenza si è consolidato.

Di lui mi hanno sempre impressionato la straordinaria semplicità dei modi, la disponibilità a ricevere chiunque nel suo centro di documentazione di Vienna, ed in quel centro – una serie di stanze polverose e male illuminate – il caos di cartelle traboccanti di documenti, i cassetti e gli scaffali stracolmi in mezzo ai quali lui trovava sempre con facilità il documento che gli serviva.

Con l’ aumentare del suo carico di lavoro e della sua celebrità non gli bastava più la sua memoria, ed aveva dovuto assumere alcune segretarie che lo aiutassero; di pari passo è anche stato messo ordine nei suoi sterminati archivi, ma l’ ufficio è rimasto sempre nello stesso appartamento. Il suo ufficio, nel quale riceveva capi di stato e scolaresche, celebrità dello spettacolo e studiosi, era arredato con semplicità.

Di lui ricordo i libri, alcuni straordinari, che ha scritto. Come "Il girasole", in cui narra di un militare tedesco che, alla fine della guerra, dal letto di morte in ospedale lo aveva fatto chiamare perché voleva che "un ebreo" gli perdonasse i crimini che aveva commesso; Wiesenthal, sconvolto, rifiutò il perdono che non riteneva di poter concedere a nome delle vittime, ma poi si chiese se la sua condotta non fosse stata eticamente riprovevole, e chiese il parere di insigni teologi e filosofi.

Di lui ricordo l’ amarezza per l’ ostilità che lo circondava nella sua Austria, per l’ inimicizia del cancelliere Kreisky, ebreo, che lo insultava ed ostacolava, per l’ incomprensione che lo voleva dipingere come un "cacciatore di nazisti" e non come un uomo che aveva sacrificato la propria vita per affermare dinanzi al mondo il diritto delle vittime a giudicare i carnefici.

"Giustizia, non vendetta" non è solamente il titolo del suo ultimo libro: è il filo conduttore che lo ha portato a scoprire più di mille criminali di guerra, che talvolta non furono processati. Ogni processo, affermava Wiesenthal, doveva essere un esempio etico ed un monito per chi pensava di poter commettere dei crimini e sfuggire alla giustizia, doveva dare ai giovani la sensazione che "quel" passato in realtà era parte del loro presente.

Ho incontrato Wiesenthal a Gerusalemme in occasione di riunioni del Congresso Mondiale Ebraico, talvolta deluso ma sempre pronto a dare il suo prezioso contributo; l’ho incontrato quando l’ Università di Innsbruck gli ha conferito una laurea honoris causa di cui era fiero; ma sono i miei incontri nel suo ufficio, nel suo centro di documentazione che ricordo con più emozione, perché quello era lo spazio che lui si era creato nel mondo e sul quale sperava di poter modellare il mondo – un mondo futuro migliore di quello che lui aveva dovuto sperimentare.

Ora il testimone è passato ai giovani, a quelli che non lo hanno conosciuto ed ai quali dobbiamo, noi che lo abbiamo conosciuto, raccontare dei suoi sogni e delle sue delusioni.
LA STAMPA di mercoledì 21 settembre 2005 affida la commemorazione di Wiesenthal a Elena Loewenthal.

Riportiamo l'articolo, "Il mite Wiesenthal, vittima senza odio esenza perdono":

Quando si è bambini gli adulti sembrano tutti troppo grandi: ti ingombrano il cielo. Chissà perché, lui invece me lo ricordo stranamente minuto, sotto gli occhi gentili e i baffetti appena accennati. Era il 22 maggio del 1964, Simon Wiesenthal si trovava a Torino per un conferenza al Circolo della Stampa ed era ospite a casa nostra, per l'occasione assediata da una vistosa presenza delle forze dell'ordine, che lo scortavano ovunque: cacciatore sì, ma anche e costantemente braccato.
Il giorno dopo partì per Milano dentro un corteo di sirene spiegate, lasciandomi la certezza un po' frastornata che quel signore era sul serio una persona importante. Le miti misure che la mia memoria ha trattenuto vanno contro ogni evidenza: uscito da Mauthausen pesava appena 44 chili, eppure «è un bel pezzo d'uomo, alto un metro e ottantacinque, ora cinquantenne», scrive La Stampa di quel giorno in un pezzo siglato «c. c.», in cui forse non è azzardato intravedere la firma di Carlo Casalegno. Che insieme ad Angelo del Boca quella sera presentò Wiesenthal al pubblico torinese nella conferenza stampa, sotto la cornice di una domanda forte: «Come e perché ricerchiamo i criminali nazisti».
Chissà quante volte egli stesso si è posto questa domanda. La storia, con la sua buona abitudine di adagiarsi sopra numeri e statistiche, risponde per conto suo: almeno mille e cento. Perché tanti sono i criminali nazisti che lui ha trovato. Ad ascoltare invece il suo «viso cordiale» (come lo descrive l'inviato Giampaolo Pansa sul Il Giorno del 23 maggio nella cronaca della conferenza stampa), quella domanda Wiesenthal dev'essersela posta una volta soltanto nella vita. Ma quella volta bastò.
«Era il giugno del 1942, a Leopoli, in circostanze insolite, una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace, mi disse, dopo avere ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare». Wiesenthal sapeva, o forse soprattutto sentiva, che in quanto ebreo quel perdono non avrebbe potuto concederglielo. Perché nell'etica d'Israele il perdono è parte integrante del senso di responsabilità e lo può concedere solo chi è stato direttamente offeso. Nessuno, pertanto, potrà mai perdonare un assassino per conto di un morto. Meno che mai se i morti sono sei milioni di voci che non rispondono all'appello.
Non volendo né potendo perdonare, Wiesenthal ha scelto la via della giustizia, come scrive in filigrana lungo tutto «Il Girasole» (pubblicato in italiano da Garzanti, al pari degli altri suoi libri: testimonianze, saggi e persino un romanzo, intitolato «Max e Helen»). Non è giusto chiamarlo «cacciatore di nazisti»: lui i nazisti li ha cercati e, per più di mille e cento volte, li ha trovati. Con loro, insieme ai falsi nomi sotto i quali vivevano, dentro quelle nuove vite non necessariamente clandestine e spesso costruite su una agiatezza e una stabilità che puzzavano di morte, Wiesenthal trovava l'ingiustizia. Di quella, e non dei criminali nazisti, andava a caccia.
Perché lui era davvero la coscienza della Shoah: non l'impeto della vendetta, né l'impulso feroce di una rabbia dettata dall'orrore vissuto in prima persona, come era capitato a lui e a sua moglie, passati per i campi di sterminio. «Una caratteristica sorprendente in Simon Wiesenthal - scrive ancora La Stampa di quel giorno - fin dalle prime battute di un colloquio: l'eccezionale serenità dell'uomo, la lucida passione morale del suo discorso. Non è un vendicatore: è un uomo che ricerca la verità e la giustizia, perché gli ignari sappiano che cosa è stato l'orrore nazista, gli immemori ricordino e la coscienza internazionale rifiuti - a vantaggio di ogni popolo, non solo del popolo ebraico - il veleno del razzismo».
Anni dopo di allora il Simon Wiesenthal Center di Los Angeles si chiama «Museum of Tolerance» e nei suoi percorsi didattici multimediali aiuta il visitatore a districarsi fra i cocci dei diritti civili in Bosnia, in Ruanda, dentro le lotte combattute negli Stati Uniti.
Da Adolf Eichmann a quel gregario SS già fornito di tomba eppure beatamente in villeggiatura in Costa Brava con un nome fittizio sul passaporto: ne ha trovati tanti. Pochi, al confronto con la macchina dello sterminio, che era un dispositivo di massa per annientare masse. Wiesenthal non era un cacciatore: era piuttosto un lavoratore instancabile e metodico, dotato di tenacia e di pazienza. Di una convinzione armata soltanto del dolore patito e di desidero di giustizia. Non di vendetta. E se molti lo guardavano con una diffidenza nutrita dal sospetto, pronti a immaginarlo come un losco agente segreto, lui ha sempre agito con doppia trasparenza.
Le sue conferenze stampa erano una tattica formidabile: quanti criminali nazisti nascosti sono usciti allo scoperto, magari suicidandosi, dopo una sua denuncia pubblica. Questa era l'arma della divulgazione, dello smascheramento ad alta voce ed occhi aperti. L'altra fu la sua costante fiducia nella giustizia: una volta trovato quello che cercava, lo affidava e si affidava alle mani della legalità, che non ha mai nemmeno provato a scavalcare, foss'anche stato in nome della propria giustizia.
Anche per questo, oltre che per la sua intelligenza e una lucidità conservata fino alla fine, Simon Wiesenthal era grande. Di quella grandezza, però, che da bambina me lo aveva fatto sentire a misura dei miei occhi, malgrado l'agitazione che regnava in casa quel giorno e la polizia tutt'intorno all'isolato. L'ho sentito al telefono non tanto tempo fa, la voce ferma come sempre.
A giorni sarebbe arrivato il suo lieve cartoncino d'auguri per il Capodanno ebraico, come al solito. Invece del biglietto stampato con la stella di Davide in centro, per quest'anno mi resterà il suo sorriso mite mandato di lassù: dalla terra d'Israele dove, insieme alla moglie spirata due anni fa, lui tornerà fra qualche giorno e per sempre. Buon riposo, Reb Wiesenthal: te lo meriti.
LIBERO pubblica a pagina 15 l'articolo di Angelo Pezzana "Addio all'ebreo terrore dei nazisti".

Ecco il testo:

E’ morto ieri a Vienna, all’età di 96 anni, Simon Wiesenthal. Ha dedicato più di sessant’anni della sua vita a cercare e catturare criminali nazisti. Diventò famoso in tutto il mondo quando, grazie alle sue ricerche, nel 1960 il Mossad catturò in Argentina Adolf Eichmann, uno dei massimi responsabili dello sterminio degli ebrei, che fu portato in Israele, processato e impiccato per delitti contro l’umanità. La sua esecuzione è stata l’unica nella storia dello stato ebraico perché in Israele non esiste la pena di morte. Ma la fama non lo allontanò mai dall’ ufficio viennese, nemmeno quando in suo nome vennero aperte filiali a Parigi, Gerusalemme, Los Angeles e il marchio "Simon Wiesenthal Center" lo fece conoscere come il più infaticabile cacciatore di nazisti.

Fra i tanti che Wiesenthal contribuì a far catturare ci fu anche Karl Silberbauer, che fu responsabile

dell’arresto e della deportazione a Bergen Belsen di Anna Frank. Accadde nel 1954, quando un giovane gli disse pubblicamente che riteneva la storia di Anna Frank un’ invenzione e che ci avrebbe creduto solo se lui avesse preso l’uomo che l’aveva arrestata. Ci impiegò cinque anni, ma alla fine ci riuscì. Non ebbe la stessa fortuna con Joseph Mengele, il medico soprannominato "Angelo della morte", responsabile degli esperimenti "scientifici" sui prigionieri di Auschwitz. Sapeva che era nascosto, come molti altri,da qualche parte in Sud America, ma ogni volta che stava per raggiungerlo, Mengele riusciva a fuggire. Non riuscì mai ad ottenere l’estradizione dalla Siria di Alois Brunner, che lì si nascondeva dopo essere passato in Egitto durante la fuga. "Uccidere ebrei non è considerato un crimine in Siria", aveva poi dichiarato.

Era nato il 31 dicembre del 1908 in una famiglia di commercianti ebrei a Buczacs, oggi Ukraina, in quello che era ancora l’impero austro-ungarico. Dopo gli studi a Praga e Varsavia si laurea in architettura, ma non doveva essere quello il suo futuro. Dopo aver sposato Cyla nel 1936, arriva la guerra. I nazisti occupano la città e solo per un miracolo riescono ad evitare di essere immediatamente uccisi. Vengono deportati e costretti ai lavori forzati nel campo di concentramento di Janwska. La prima cosa alla quale Simon pensò fu come salvare sua moglie. Cyla era una donna dai capelli biondi e occhi azzurri, sarebbe passata benissimo per polacca "ariana". Simon riuscì a procurale dei falsi documenti in cambio di informazioni sulla rete ferroviaria usata dal comando tedesco che fornì al movimento di resistenza clandestino. Simon non rivide più Cyla fino alla liberazione, dopo che entrambi avevano temuto l’uno la morte dell’altra. Wiesenthal fu prigioniero in diversi campi, sopravvisse, fino a quando l’esercito americano liberando Mauthausen in Austria nel maggio 1945 gli restituì la libertà. Pesava nemmeno cinquanta chili. Ritrovò Cyla, che si era salvata grazie ai falsi documenti. Di quell’esperienza raccontò poi che più volte aveva pensato al suicidio non riuscendo più a sopportare quella terribile umiliazione. Fu forse in quei giorni che Wiesenthal capì che nella sua vita non avrebbe fatto l’architetto. "Non c’è libertà senza giustizia", deve aver pensato quando decise che avrebbe dedicato tutte le sue forze a rintracciare i responsabili dello sterminio del suo popolo. Wiesenthal si rese conto molto presto che dopo il processo di Norinberga un velo di silenzio si sarebbe steso sopra migliaia e migliaia di nazisti, come se la condanna di pochi avesse potuto cancellare, quasi assolvere, i crimini di tanti altri. Che furono, per spietatezza e crudeltà, non certo minori.

Gli austriaci, un popolo che non ha fatto i conti con la propria storia e responsabilità, preferendo scaricarne la colpa sulla sola Germania, non mai amato Wiesenthal. Quell’uomo a Vienna, che scopriva dossier e nomi, che rivelava complicità e storie orrende, dava fastidio a chi voleva semplicemente dimenticare. Eppure Wiesenthal non era certo un fanatico o un estremista, come dimostrò quando Kurt Waldheim divenne presidente austriaco nel 1986. Waldheim aveva nascosto il suo passato di ufficiale nazista e quando la notizia si diffuse, Wiesenthal ritenne che il suo coinvolgimento nello sterminio non giustificasse una sua classificazione quale criminale nazista. Non lo assolse certo, anzi,ne chiese esplicitamente le dimissioni, ma non lo inserì fra i diretti responsabili. Questa scelta lo mise in contrasto con le organizzazioni ebraiche in Europa e in America, ma fece capire agli austriaci che non faceva di ogni erba un fascio.

Con Cyla ha avuto una sola figlia, Paulinka, che ha scelto di vivere con la sua famiglia in Israele.

In una intervista dichiarò che avrebbe voluto avere altri figli, ma che gli anni della guerra lo avevano impedito e che dopo, sia lui che Cyla, erano già troppo avanti negli anni. "I figli si fanno da giovani", disse. Wiesenthal non si trasferì in Israele. Forse lo ha desiderato, ma la considerazione che il suo lavoro avrebbe potuto confondersi con una possibile azione di propaganda governativa, lo ha sempre trattenuto a Vienna. Il suo motto era "Giustizia non vendetta", il raggiungimento della giustizia quando le normali vie giudiziarie non sono percorribili, era diventato lo scopo, l’ossessione della sua vita, come molti l’avevano definito. Portare la giustizia a quelli che l’avevano sfuggita. Il rabbino Martin Hier, che ha fondato il centro Wiesenthal a Los Angeles ha detto che "sarà ricordato come l’espressione della coscienza della Shoah, come il rappresentante delle vittime senza voce". Wiesenthal fu tra i primi a scagliarsi contro revisionisti e negazionisti della Shoah, contro la sua banalizzazione. "Equiparare la Shoah ad altri crimini significa annullarne la portata, Ogni ebreo ha portato su di sé la propria sentenza di morte. Mancavo solo la data".

La sua amata Cyla è morta due anni fa. Subito dopo Wiesenthal ha annunciato il suo ritiro dichiarando " Di criminali nascosti ce ne saranno ancora, ma devono essere troppo vecchi e deboli per essere processati oggi. Il mio lavoro è finito."

Per chi passasse da Vienna, a pochi minuti dal suo ufficio, c’è la Judenplatz, al cui centro è stato posto un monumento che ricorda gli ebrei sterminati durante la Shoah, mentre l’edificio al fondo della piazza, nella Dorotheergasse, ospita il nuovo Museo ebraico. Di fianco c’è il Café Hawelka, un locale della vecchia Vienna che piaceva a Simon Wiesenthal.

Ha ricevuto premi e onori, ma, ha detto, "quelli moriranno con me. Mi sopravviverà la volontà di combattere antisemitismo e razzismo, ancora così presenti nel mondo contemporaneo."

La caccia ai criminali nazisti è dunque finita con la morte del cacciatore di nazisti per eccellenza. Rimane il suo insegnamento, l’esempio di una vita.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di La Stampa e Libero. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@lastampa.it ; redazione@libero-news.it