IL FOGLIO di venerdì 16 settembre 2005 pubblica apagina 2 dell'inserto l'articolo di Marco respinti "Joshua Muravchik ci spiega il suo libro sul fallimento politico delle Nazioni Unite".
Ecco il testo:L’Onu, il grande dinosauro oggi sempre
più prossimo alla paralisi, è stato in
realtà sbagliato sin dall’inizio. Celebra i
propri 60 anni e qualcuno la festa gliela sta
facendo per davvero. Joshua Muravchik,
per esempio – emblema stesso del neoconservatorismo
come interventismo in politica
estera – ha confezionato un regalo speciale:
il libro "The Future of the United Nations:
Understanding the Past to Chart a
Way Forward", pubblicato dalla AEI Press,
il ramo editoriale dell’American Enterprise
Institute for Public Policy Research di
Washington dove Muravchik è "Resident
Scholar".
Nato a New York nel 1947, di religione
ebraica, Ph.D. alla Georgetown University
nel 1984, sposato, tre figli, all’AEI studia attentamente
le attività dell’Onu, il pensiero
neocon, la storia del comunismo, il conflitto
arabo-israeliano, la democrazia nel mondo,
il terrorismo e la "Dottrina Bush". Docente,
dal 1992, all’Institute of World Politics di
Washington e analista al Washington Institute
on Near East Policy, è membro del comitato
editoriale dei periodici "World Affairs"
e "Journal of Democracy". Per lui la
liberazione politica del mondo è antidoto al
comunismo ieri e al terrorismo oggi, e nella
sua promozione agli Usa spetta un ruolo
(morale e politico) primario. E Israele è un
avamposto occidentale in terra ostile. Lo afferma
da anni con libri come "The Senate
and National Security" (1980), "The Uncertain
Crusade: Jimmy Carter and Dilemmas
of Human Rights Policy" (1986), "Nicaragua’s
Slow March to Communism" (1986),
"Exporting Democracy: Fulfilling America's
Destiny" (1991), "U.S. Foreign Policy Options
and Australian Interests" (1992), "The
Imperative of American Leadership: A
Challenge to Neo-Isolationism" (1996) e (vedi
box qui a lato, ndr) "Heaven on Earth:
The Rise and Fall of Socialism" (2002).
"L’Onu è un grande, colossale fallimento":
Muravchik suggella così l’alfa e l’omega
del proprio pensiero in materia. "Nata per
essere il baluardo della pace e della sicurezza nel mondo, la sua Carta di fondazione
previde di dotarla di una potente forza militare
d’intervento da impiegare solo su autorizzazione
del Consiglio di Sicurezza
(CdS). Ma questo esercito non ha mai visto
la luce. Così è toccato agli Stati Uniti e ai
suoi alleati della Nato difendere la pace in
Europa. Di fatto, in tutta la propria storia, il
Consiglio di sicurezza si è mosso solo due
volte per fermare aggressioni che hanno
comportato violazioni di confini nazionali,
il tipo di aggressioni, cioè, che statutariamente
l’Onu è nata per impedire: in Corea
nel 1950 e nel Kuwait fra 1990 e 1991. In entrambi
i casi, però, le Nazioni Unite non
hanno nemmeno finto d’intervenire come
prescritto dalla Carta di fondazione agli articoli
39, 42 e 43 che conferiscono loro il
compito di mantenere la pace nel mondo: si
sono semplicemente rivolte agli Stati Uniti
e ai suoi alleati. Questo è stato peraltro fatto
in base all’articolo 51 che afferma il diritto
all’autodifesa personale o collettiva.
L’Onu ha insomma permesso ad altri Stati d’intervenire a fianco della Corea del Sud e
del Kuwait per aiutarli a difendersi. Eppure
l’articolo 51 fu voluto come misura di
emergenza da utilizzare ‘fino a quando il
Consiglio di sicurezza non abbia adottato le
misure necessarie a mantenere la pace e la
sicurezza internazionali’, bypassando nella
pratica gli ostacoli teorici. In altre parole, il
CdS è riuscito a difendere la pace solo
quando ha agito in base alla norma pensata
per i casi in cui le Nazioni Unite non fossero
state in grado o avessero mancato di agire…".
Impasse strutturale? "Sintetizzerei
così: è decisamente rischioso chiedere che
né gli Stati Uniti né la Nato possano assumere
iniziative militari senza una previa risoluzione
del Consiglio di sicurezza. E, d’altro
canto, alle risoluzioni del Consiglio che
in qualche modo interessano gli Stati Uniti
possono sempre porre il veto Stati come
Russia e Cina".
Un minaccia, insomma, alla sovranità nazionale,
che fa più danni di quanti ne sani.
"Intendiamoci", risponde Muravchik, grande assertore del beneficio per contagio della
diffusione delle libertà democratiche nel
mondo, "l’internazionalismo è cosa buona".
Non è un controsenso? "No, le nazioni debbono
parlarsi, cooperare e cercare di risolvere
assieme i problemi comuni. Persino
una superpotenza come gli Stati Uniti non
può agire "unilateralmente" più spesso di
tanto. Ma, detto questo, la cooperazione internazionale
non è lo stesso del governo
mondiale, quale oggi di fatto, seppur scheletricamente,
l’Onu è. E il guaio maggiore è
che un siffatto ‘governo mondiale’ non potrà
mai essere democratico". Perché? Le Nazioni
Unite non si reggono forse sull’eguaglianza
di tutti gli Stati-membri? "Faccio un
esempio. Gli Stati Uniti sono una comunità
politica in cui il governo rende conto del
proprio operato ai cittadini, i quali, per certi
versi, hanno così la possibilità di controllare
il governo. Lo stesso accade in Italia e
in qualsiasi altro paese democratico. Il
mondo nella sua interezza non è invece affatto
una comunità politica. Affermare allora
che i funzionari dell’Onu rendono conto
del proprio agire ai ‘cittadini del mondo’ è
un linguaggio di astrazioni senza senso".
Non è che la prima vittima di questa
mancanza di democrazia siano proprio gli
Stati Uniti, gli unici oggi in grado di agire
con efficacia contro le minacce internazionali,
ma proprio per questo in competizione
diretta con il Palazzo di Vetro, con l’aggravante
che ogni loro azione conferma
l’obsolescenza dell’Onu? "Per diversi
aspetti sì. Epperò chi è che ne esce davvero
sconfitto? Quando si sentono minacciati,
infatti, gli Stati Uniti non rinunciano certo
a difendersi per far piacere all’Onu. Ma l’Onu,
questo sì, può costringere Washington a
non intervenire in sostegno di amici e alleati.
Dunque?…". Suona, direbbero alcuni,
"imperialista". "Imperialismo? Oggi il mondo
non è affatto minacciato dagli Stati Uniti,
ma si metterebbe invece in pericolo se
l’America assumesse posizioni isolazioniste.
Fu l’atteggiamento egoista e miope degli
Stati Uniti di allora che per esempio sicucontribuì
a far scoppiare la Seconda guerra
mondiale". Ed è stato l’assetto del mondo
stabilito dopo quel conflitto dalla Guerra
fredda che ha paralizzato le Nazioni
Unite sin dall’inizio… "Dopo il 1989 si è
sperato che l’Onu potesse tornare ai suoi
propositi originari, ma oggi, sedici anni dopo,
è evidente che anche senza la rigida divisione
del mondo di allora il Palazzo di
Vetro è incapace di agire con efficacia".
Per esempio? "In Bosnia l’Onu ha addirittura
peggiorato la situazione. Nel 1995 fece
insediare i musulmani in quella Srebrenica
che era considerata una delle "aree sicure"
sotto la propria egida, ne disarmò le
milizie e subito tutto questo si trasformò,
ancorché involontariamente, in un concentramento
di vittime pronte per il massacro.
E prima ancora, in Ruanda, nel 1994, non
solo l’Onu non riuscì a prendere iniziative
efficaci onde porre fine alla mattanza che
lì si perpetrava, ma addirittura ritirò i Caschi
blu. Sono seguiti accorati mea culpa,
ma poi in Sudan le Nazioni Unite si sono
comportate poco diversamente".
Nessuna speranza, dunque, per l’Onu.
Meglio chiuderla che riformarla? "Si traggano
le conseguenze. Atrofizzate sul piano
del peacekeeping, le Nazioni Unite avrebbero
potuto diventare il bastione della morale
e della trasparenza nel mondo. E invece,
anche qui, ecco lo scandalo Oil for Food,
abusi sessuali su donne e bambini in diversi
paesi e casi dopo casi di palese corruzione.
Sul piano dei diritti umani, l’Onu è una
sciagura. Ogni anno Freedom House, una
Ong che si occupa di monitorare il livello
della libertà politica nel mondo, stila la
classifica dei dieci governi più oppressivi
del mondo e ogni anno almeno metà di questi
diventano membri della Commissione
Onu per i diritti umani, guadagnandosi così
il salvacondotto che li rende immuni da
qualsiasi reprimenda da parte della stessa
Commissione. La quale peraltro passa la
maggior parte del proprio tempo ad attaccare
Israele. Riformare? Chiudere?…".
D i segiuo riportiamo invece l'articolo di Joshua Muravchik "Proposta: abolire il consiglio di sicurezza e puntare solo sulle Agenzie umanitarie".
Ecco il testo:Il lato ironico delle angosciate relazioni
che da sempre corrono tra Stati Uniti e
Nazioni Unite – e questo nonostante i primi
ospitino la sede e sopportino la maggior
parte dei costi delle seconde – è che l’Onu è
in gran parte un’invenzione degli Usa, proprio
come lo fu l’idea stessa di una organizzazione
internazionale degli Stati. E non solo
gli Stati Uniti si sono cullati nel sogno di
questa organizzazione, ma per essa hanno
speso il capitale diplomatico accumulato
grazie al sacrificio profuso sui campi di battaglia
dai loro figli proprio per far sì che
quel sogno prendesse forma.
E se questa ironia non bastasse, alcune di
quelle iniziative Onu che a Washington procurano
i grattacapi più grandi sono appoggiate
proprio degli americani. Il Consiglio
socio-economico (ECOSOC), sponsor di numerose
attività delle Nazioni Unite da cui
gli Stati Uniti dissentono, venne creato su
insistenza americana in base all’idea che
non è sufficiente rispondere direttamente
alla minaccia della guerra senza cercare di
eliminare prima le cause che la generano.
Analogamente, anche la Commissione
per i diritti umani, dalla quale gli Stati Uniti
si ritrovano spesso esclusi a vantaggio di
despoti e di dittatori, è stata creata sotto guida
statunitense nella persona di Eleanor
Roosevelt. E l’angusta definizione di autodifesa
contemplata all’articolo 51 della Carte
delle Nazioni Unite, che per i critici degli
Stati Uniti renderebbe illecite le azioni
americane in Iraq nel 2003, è il frutto delle
insistenze del Segretario di Stato Edward
Stettinius a fronte del ministro degli Esteri
britannico Anthony Eden che invece tentò
di ampliare detta definizione. Il presunto
monopolio sull’uso legittimo della forza di
cui godrebbe il Consiglio di Sicurezza viene
direttamente dal progetto del presidente
Franklin D. Roosevelt secondo cui la pace
nel mondo successivo alla Seconda guerra
mondiale sarebbe stata difesa da "quattro
poliziotti" – Stati Uniti, Unione Sovietica,
Regno Unito e Cina –, ai quali sarebbe spettata
l’esclusiva di autorizzare o meno un
eventuale ricorso alla guerra.
Ma nessun aspetto delle attività delle Nazioni
Unite è tanto antietico quanto il settore
coperto dalla Commissione per i diritti
umani. Nel 2004, la delegazione americana
all’Onu concertò i propri sforzi allo scopo di
far approvare una risoluzione che biasimasse
il governo del Sudan per le uccisioni
di massa, gli stupri e le deportazioni che andavano
moltiplicandosi nella regione del
Darfur, e che, con altri, la Camera dei deputati
e la presidenza degli Stati Uniti avevano
definito "genocidio". La strategia di
Washington era quella di appoggiare una
proposta di risoluzione presentata dall’Unione
europea, ma poi l’Unione europea,
volendo evitare ogni controversia, negoziò
un testo annacquato con il Gruppo Africano
(l’assemblea di quegli Stati-membri che appartengono
al continente africano), il quale,
come sempre, agì " a prescindere", difendendo
per automatismo uno dei suoi dalle
critiche. Così il testo non autorizzò nemmeno
l’istituzione di un "relatore speciale" che
esaminasse la situazione del Darfur, strumento
d’intervento normale, quello del "relatore
speciale", che consente alla Commissione di esercitare la propria autorità morale.
I gruppi di lavoro sui diritti umani criticarono
poi il Consiglio di Sicurezza per
non avere inviato nel Darfur una forza militare
capace di proteggere la popolazione.
Tutti sono sempre pronti perché qualcuno
altro faccia il lavoro. Accadde però che nella
Commissione Onu sui diritti umani non è
stato possibile nemmeno pronunciare qualche
parola decisamente non ambigua a favore
delle vittime di quella tragedia.
Ciò detto, la composizione delle Nazioni
Unite ha tratto grandi benefici dalla diffusione
della democrazia prodottasi in anni
recenti. Stando al censimento fornito da
Freedom House per il 2004, la maggior parte
dei 191 Stati membri (118) si regge su governi
eletti. Di questi, 88 sono stati giudicati
"liberi", nel senso che in essi non solo si
svolgono elezioni, ma esistono libertà di
stampa e tribunali indipendenti, vige la certezza
del diritto e sono attivi altri meccanismi
tipici di un sistema democratico.
Il problema della capacità dell’Onu di rispondere
al pubblico dei propri atti non si
limita però alla presenza fra i suoi membri
di governi dispotici. Anche nella prospettiva
delle democrazie, infatti, le Nazioni Unite
mostrano di essere una istituzione talmente
remota da cancellare quasi del tutto
le connessioni fra il suo corpo internazionale
e i cittadini dei vari Stati-membri. Fu,
a suo tempo, una delle premesse della Costituzione
degli Stati Uniti – quella da cui
germogliò la prima democrazia moderna
del mondo – l’idea che l’esercizio del potere
non dovesse allontanarsi troppo dai cittadini.
Il Decimo emendamento alla Costituzione
statunitense riserva infatti agli Stati
e al popolo dell’Unione nordamericana
ciò che non viene esplicitamente "delegato"
all’autorità federale. Negli Stati Uniti, certo,
alcune decisioni le si è poi dovute prendere
o alcune delle funzioni amministrative
le si sono poi dovute esercitare a livelli di
governo più lontani dai cittadini, ma tutto
questo è stato fatto individuando con grande
cura i destinatari di questi poteri poiché
si temeva che più il governo fosse risultato
distante, meno trasparente sarebbe stata la
sua responsività nei confronti dei cittadini.
Questo assioma si applica con forza ancora
maggiore sul piano internazionale.
Quanti sono i cittadini degli Stati democratici
che sanno come votano i propri "rappresentanti" durante le sessioni dell’Onu?
E a quanti importa? La risposta è che le
procedure pratiche attraverso cui anche i
cittadini delle democrazie possono esprimere
i propri desiderata in merito ai lavori
delle Nazioni Unite sono poche e deboli. E
questo non è che l’inizio del problema.
L’idea che il conto dei fallimenti dell’Onu
debba essere presentato agli Stati che ne
sono membri non è nuova. Anni prima che
l’Onu nascesse, Winston Churchill difese la
Società delle Nazioni in termini simili: "Fu
sbagliato dire che la Società delle Nazioni
fallì. Sono piuttosto stati i paesi membri che
fallirono la Società". Forse è davvero così,
ma in questo caso è lecito inferire che organizzazioni
come la Società delle Nazioni e
l’Onu contengono elementi strutturali tali
da incoraggiare gli Stati-membri a comportarsi
in modo inetto o irresponsabile. Quando
il presidente Bill Clinton volle concentrarsi
sulla politica interna ed evitare il
coinvolgimento
nei Balcani, l’ostacolo rappresentato
in sé dal Consiglio di Sicurezza
diede agli Stati Uniti un pretesto utile a giustificare
il mancato ricorso ad atti di forza
in Bosnia. Durante il genocidio perpetrato
in Ruanda nel 1994, molte nazioni si fecero
prendere da rimorsi di coscienza, ma l’insistenza
di Washington nel bloccare qualsiasi
azione in sede di Consiglio di sicurezza le
lasciò impotenti. Ancora, nel 2005, la minaccia
del veto cinese ha impedito di rispondere
adeguatamente alla pulizia etnica
in corso nel Darfur, offrendo ai riluttanti
Stati occidentali una comoda scusa per evitare
l’intervento diretto.
Nel novembre 2004, il Comitato di Alto Livello
su Minacce, Sfide e Cambiamenti presentò
un piano generale di revisione dell’Onu
contenente 101 raccomandazioni specifiche.
I membri di quel Comitato affermarono
che i "rami secchi" costituivano ancora
un ostacolo serio all’efficacia delle operazioni
Onu e quindi ne proposero il congedo
in blocco. Allo stesso tempo, però, in contrasto
con altre proposte di riforma presentate
in precedenza secondo cui l’organizzazione
soffriva di esubero del personale, il
rapporto propose di assegnare al Segretario
generale la disposizione di altri sessanta
nuovi incarichi, oltre a un ulteriore suo vice.
Il Segretario generale appoggiò l’idea
del congedo in blocco, "in modo da rinnovare
e riassestare lo staff in base alle necessità
attuali", ma al posto di un altro vice,
chiese che gli venisse assegnato "un più alto
livello di autorità e di flessibilità manageriali,
[inclusa] la possibilità di adattare il
tavolo dei collaboratori a seconda delle necessità
e senza indebite limitazioni".
Ora, è difficile vedere come un congedo
in blocco possa sperare di risolvere qualcosa.
Né il Comitato né il Segretario Generale
si sono mai infatti preoccupati di stabilire
quale fosse l’origine dei "rami secchi". Ma
la risposta ovvia è che tutto deriva dal criterio
di distribuzione degli incarichi: che
avviene per nazione invece che per qualifica.
Del resto, Kofi Annan ha potuto perseguire
indisturbato la propria linea – e questo
tranquillamente appoggiandosi allo stesso
rapporto del Comitato di Alto Livello su
Minacce, Sfide e Cambiamenti – riaffermando
la tradizionale distribuzione degl’incarichi
su base geografica e imbastendo
la consueta filippica: "Oggi dobbiamo aggiungere,
assicurando un giusto equilibrio
fra uomini e donne". Il Segretario generale
propose cioè di rendere ancora più complesso
e dispendioso quello che già era il
più barocco sistema di "affirmative action"
del mondo. Il risultato è intuibile: se i rami
secchi verranno potati, lo saranno per essere
rimpiazzati da altri, altrettanto secchi.
Gruppi e studiosi indipendenti hanno del
resto avanzato diverse altre proposte di
riforma. Quella più importante, contenuta
in un rapporto del 2002 stilato da una task
force congiunta del Council on Foreign Relations
e di Freedom House, chiede a gran
voce la formazione dentro l’Onu di "assemblee
di democrazia" composte di paesi documentatamente
non dispotici. Sul piano
formale, non si tratta di una riforma giacché
non comporterebbe l’emendamento delle
normative che regolano l’organizzazione né
una
ristrutturazione dei suoi organi. Eppure,
se si dovesse dare vita ad assemblee di
questo tipo, e se i loro membri acconsentissero
a lasciarsene influenzare quanto al
modo con cui votano all’Onu, si tratterebbe
certamente di un passo avanti. Anche se tutto
sommato molto potrebbe restare invariato
quanto al presunto compito chiave delle
Nazioni Unite, il mantenimento della pace
mondiale, la proposta di detta task force potrebbe
infatti assicurare una diversa composizione
della Commissione per i diritti
umani contribuendo così al parziale ricupero
del prestigio morale dell’Onu. Nelle
"assemblee di democrazia" verrebbero infatti
radunati la maggior parte degli Statimembri
dell’Onu. E se in queste assise questi
Stati democratici dimostrassero compattezza,
tali assemblee potrebbero efficacemente
soppiantare il Movimento dei paesi
non-allineati quale fazione dominante in seno
alle Nazioni Unite, mutando così sensibilmente
il clima dell’Assemblea generale
e magari molto altro ancora.
E’ infatti nel complesso difficile sostenere
che l’Onu sia un’agenzia efficace nell’alleviare
le sofferenze del mondo. Essa gode
infatti di un triste curriculum di panacee
economiche che in realtà hanno perpetuato
o addirittura peggiorato il livello della povertà
mondiale. I rimedi proposti dalle Nazioni
Unite sono sempre stati animati da
uno spirito di risentimento terzomondista
diretto contro l’occidente e peraltro fondato
sull’idea che siano proprio le strutture
statali gli agenti economici più efficaci.
Nel complesso, però, le Nazioni Unite
trarrebbero benefici sicuramente maggiori
se decidessero una buona volta di riesaminare
in radice la propria intera struttura,
smettendo così si perdere tempo sulla sola
questione della composizione del Consiglio
di Sicurezza. Timothy Wirth, della UN
Foundation (l’organizzazione di supporto alle
Nazioni Unite creata nel 1998 da Ted Turner),
ama distinguere fra organi politici che
– egli dice – assorbono solo il 20 per cento
del budget dell’Onu e che però – egli riconosce
– sono davvero difficili da difendere,
e le agenzie specialistiche – l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, l’Unicef, l’Alto
Commissariato per i Rifugiati e simili – a
cui sono affidati i mandati umanitari delle
Nazioni Unite. Questa dicotomia suggerisce
una sorta d’intervento chirurgico radicale
che potrebbe rimette l’Onu in salute. Dopo
60 anni non è infatti forse il caso di riconoscere
che l’Onu politica è un fiasco? Perché
allora non abolirne completamente l’Assemblea
Generale e il Consiglio di Sicurezza,
assieme ad altre agenzie inutili o pericolose
quali la Commissione per diritti
umani e quei diversi organismi speciali totalmente
dediti alla sola causa palestinese?
Il punto non è quello di abolire l’Onu, ma
di liberalizzarla così che sul piano diplomatico
possa fiorire una istituzione analoga
al libero mercato. Né si tratta di separare
gli Stati Uniti dal resto delle altre nazioni,
quanto invece di permettere che il dialogo
e la cooperazione si svolgano liberi dalle camicie
di forza imposte da organismi e da
agenzie che servono scopi improbabili. Gli
americani sono convinti del fatto che il governo
sia un male necessario. Il governo
mondiale, però, è un male non necessario.
E proprio lo sforzo di proporsi come protogoverno
mondiale è il nodo centrale dei
peggiori fallimenti dell’Onu.
Christian Rocca nell'articolo "Fascino e tragedia del comunismo secondo i neocon scrive di un libro di Muravchik sulla storia delle utopie socialiste del loro fallimento, in uscita in Italia da Lindau.
Ecci il testo:Afine ottobre uscirà in Italia, per le
edizioni Lindau, un altro libro di Joshua
Muravchik, precedente a quello sulle
Nazioni Unite che presentiamo in anteprima
su questa pagina. Si intitola "Il
paradiso in terra - Ascesa e caduta del socialismo"
(528 pagine, 35 euro, traduzione
di Geraldine Molinaro). Probabilmente si
tratta del lavoro più importante svolto
dall’analista dell’American Enterprise Institute,
al punto che quest’estate la televisione
pubblica americana, l’autorevole
Pbs, ne ha tratto un formidabile documentario
di tre ore e anche un dvd.
Il libro e il documentario sono un rigoroso
viaggio e un appassionato racconto
di un’utopia generosa eppure tragica. Muravchik,
come la gran parte dei suoi colleghi
neoconservatori americani, ha un
passato, un’esperienza, ma anche frequentazioni
familiari, all’interno della sinistra
socialista. Da ragazzo era socialista
come suo padre e suo nonno. La sua era
quasi una fede e del resto il socialismo è
stato il più ambizioso tentativo di sostituire
la religione con una dottrina politica
che fin dall’inizio si è vantata di essere
scientifica, di voler costruire l’uomo nuovo
e di voler instaurare appunto il paradiso
in terra. Del resto nessuna religione
si è diffusa così largamente e velocemente
come il socialismo, il comunismo e la
socialdemocrazia. Una fede ideologica e
un’aspirazione nobile che si sono presto
trasformate in un incubo ricorrente in tutte
le molteplici forme in cui si sono realizzate,
dal comunismo sovietico a quello
cinese, e poi asiatico, africano, sudamericano,
terzomondista, senza dimenticare la
radice socialista del fascismo mussoliniano.
Nessuna di queste forme ha funzionato.
Muravchik ne racconta la storia, analizzando
le idee e ritraendo i suoi pensatori,
i suoi leader e, infine, i suoi affossatori.
Parte dalle esperienze rivoluzionarie
francesi (la Congiura degli Eguali di Babeuf)
e dal tentativo di Robert Owen di instaurare
un modello utopico socialista negli
Stati Uniti. E poi ovviamente, uno dietro
l’altro, racconta Friedrich Engels,
Karl Marx, i sovietici e tutti gli altri. Fino
a coloro, come Gorbaciov, Deng Xiaoping
e Blair, che consapevolmente o no, ne
hanno decretato la fine.
Sull'intervento del presidente iracheno Jalal Talabani alle Nazioni Unite, l'articolo di Christian Rocca "L'Iraq libero parla all'Onu, l'Onu lo critica".
Ecco il testo:Si sta comportando male? Da quando è
arrivato qui ha già fatto saltare in aria il
Palazzo?", entrando martedì al Palazzo di
Vetro, George Bush ha scherzato così con
Kofi Annan, stemperando la tensione intorno
al ruolo e alla fama di cattivo dell’ambasciatore
John Bolton. Eppure, battute a parte,
ora non si trova più nessuno disposto a
criticare il duro negoziatore americano. Il
Corriere della Sera l’ha definito "l’angelo
dei negoziati" e sui grandi giornali americani
sono sparite le critiche. Il tentativo di
riforma dell’Onu, l’unico in grado di renderla
efficace e credibile, è fallito perché,
come previsto, è stato bloccato dal club delle
dittature. Così, improvvisamente, il mondo
ha scoperto che Bolton è stato il capofila
di chi si è battuto per dare una chance e
un futuro alle Nazioni Unite, non per chiuderle.
Le richieste americane ed europee e
finanche di Kofi Annan erano semplici:
condanna non ambigua del terrorismo, fuori
i violatori dei diritti umani dalla Commissione
sui diritti umani, trasparenza nella
gestione interna. Le dittature, i paesi non
allineati e la burocrazia Onu hanno detto di
no. Stavolta non c’era trippa per accusare
l’America, e anche l’accusa di voler annacquare
l’obbligo a versare lo 0,7 per cento
del Pil agli aiuti umanitari si è afflosciata di
fronte ai dati reali secondo cui l’America
ha quasi raddoppiato i suoi versamenti, da
quando Bush è entrato alla Casa Bianca. Il
New York Times s’è spinto oltre e, con James
Traub, ha proposto di chiudere l’Onu e
di sostituirla con un nuovo organismo, mentre
i leader della sinistra mondiale hanno
preferito i fasti della Clinton Global Initiative
al declino e all’inconcludenza delle Nazioni
Unite, che pure fino a ieri citavano in
ogni loro discorso.
Ieri all’Assemblea generale sono intervenuti,
tra gli altri, Silvio Berlusconi e Vladimir
Putin, mentre a margine dei lavori si
sono incontrati il pakistano Pervez Musharraf
e l’indiano Manmohan Singh. Musharraf
ha anche stretto la mano al premier israeliano
Ariel Sharon, mentre il presidente
iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il collega
filo-siriano del Libano Emile Lahoud
hanno fatto fronte comune contro le presunte
provocazioni americane.
L’intervento più significativo è stato quello
di Jalal Talabani, il presidente dell’Iraq
libero e democratico. Fosse dipeso dall’Onu,
sul palco di ieri ci sarebbe stato ancora
Saddam. Talabani ha detto che "l’Iraq è riuscito
ad emergere grazie alla guerra di liberazione
guidata dagli Stati Uniti e ha iniziato
a percorrere la strada della democrazia".
Per tutta risposta, l’Onu ha pubblicato
un rapporto rigoglioso di critiche sul processo
costituzionale iracheno.
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