IL FOGLIO di mercoledì 23 agosto 2005 pubblica in prima pagina l'articolo di Michael Oren, "L'orgoglio di un soldato", che riportiamo:Michael Oren, membro dello Shalem Center di Gerusalemme, storico, autore di "La guerra dei sei giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano" (Mondadori), ha raccontato ieri sul Wall Street Journal il "suo" ritiro da Gaza. Ecco il testo dell’articolo.
Gerusalemme. Con migliaia di ebrei sedevo per terra, davanti al muro occidentale di Gerusalemme. Era la mezzanotte del nono giorno del mese di Av, il giorno in cui, secondo la tradizione, gli invasori per due volte travolsero i difensori della città, abbattendo il tempio e l’indipendenza ebraica in Israele. 2000 anni dopo, c’è un nuovo Stato ebraico con un potente esercito ma gli ebrei continuano a piangere quel giorno, e ora con particolare fervore. Per la prima volta nella storia, antica o moderna, questo Stato avrebbe inviato l’esercito non a difendere gli ebrei da aggressioni straniere, ma per cacciarli da quella che molti considerano la propria terra, data loro da Dio, a Gaza.
Io avrei partecipato all’operazione. Tra poche ore avrei messo da parte il mio lavoro di storico e mi sarei messo a disposizione per il servizio di riserva, come maggiore nell’ufficio del portavoce dell’esercito. Avevo sentimenti ambivalenti. Volevo che avesse fine l’occupazione degli 1,4 milioni di palestinesi di Gaza, ma temevo di avallare le dichiarazioni dei terroristi secondo cui Israele serebbe fuggito sotto la minaccia del fuoco. Volevo che lo Stato avesse confini che gli israeliani potessero difendere, ma tremavo all’idea di tornare ai confini indifendibili di prima del ’67. Volevo onorare il mio dovere di soldato delle Forze di difesa israeliane (IDF), ma mi chiedevo se sarei stato capace di trascinare altri israeliani via dalle loro case o di rispondere al fuoco. Nulla, nei miei 25 anni nell’esercito, mi aveva preparato all’orrore di ebrei che combattevano altri ebrei. Su di me pesava la minaccia che poteva creare il disimpegno dello Stato ebraico, mentre piangevo la perdita dei suoi antichi predecessori. Poi qualcuno mi saluta: "Michael! Shalom!". Alzo gli occhi a incontrare il sorriso di un rabbino ultra-ortodosso, barba bianca e capelli d’argento. "Sono io: Amnon!". Sono senza parole. Nel lontano ’82, quando era un bel soldato, squadra d’assalto, Amnon aveva combattuto con me a Beirut. Ora è un Hassid. Parliamo delle strade diverse che le nostre vite hanno imboccato e poi inesorabilmente discutiamo del disimpegno. Lui giura che Dio salverà i coloni o punirà coloro che li cacceranno. Gli dico cosa mi accingo a fare all’alba. Il fatto che io, alla mia età, presti ancora servizio di riserva fa ridere Amnon, ma solo per poco. Usando parole che poi sentirò dire più e più volte, mi chiede come è possibile che io violi il sacro giuramento fatto all’esercito, di "amare la patria ebraica e i suoi cittadini" e di "sacrificare tutte le mie forze e anche la vita" per difenderli. Mi rammenta che l’odio tra gli ebrei ha agevolato la distruzione dei templi e mi biasima per voler partecipare alla rovina di questo, del terzo Stato ebraico. Mi aggredisce: "Dovresti vergognarti!".
Dovrei vergognarmi?
In realtà lo stesso codice etico che vincola i membri dell’IDF li obbliga a "custodire le leggi di Israele" e i suoi "valori di Stato ebraico e democratico". Tanto il governo quanto la Knesset hanno approvato il disimpegno, come mezzo di salvaguardia dell’integrità demografica e democratica. Operando in conformità con queste decisioni, l’IDF adempirà a uno dei suoi compiti fondamentali. Ma sarà possibile conciliare questa missione col compito di evacuare e radere al suolo villaggi israeliani? Potrà l’esercito, che per anni ha cercato di "proteggere la vita, l’integrità e le proprietà" dei civili nemici, sfrattare con la forza una popolazione civile ebraica? Queste domande assillavano me e i 55 mila soldati raccolti a Gaza, all’alba della più grande operazione dell’IDF dai tempi della guerra di Yom Kippur. Le risposte all’inizio non erano chiare. Nell’attraversare diversi insediamenti, i veicoli dell’esercito, compreso il bus in cui viaggiavo, erano assaltati da giovani che brandivano coltelli e tagliavano gomme. Ci guardavano con aria di sfida, in attesa che l’esercito rispondesse alla provocazione. Ma l’esercito non reagiva: meglio lasciare che sbolliscano la rabbia, pensavamo.
A Re’im, una tendopoli polverosa, ho osservato un battaglione che si esercitava nelle tecniche anti-sommossa. Donne e uomini, religiosi e laici, israeliani di nascita e immigrati dalla Russia e dall’Etiopia, avevano lasciato le normali incombenze per unirsi alle forze impegnate nel disimpegno. Se si chiedeva loro che pensassero di Gaza, rispondevano che le loro opinioni erano irrilevanti, che, come soldati, avevano il dovere di eseguire le istruzioni del governo legittimamente eletto. La missione, ammettevano, era dura, ma essenziale per la difesa della democrazia. Quella notte abbiamo guardato gli ufficiali del battaglione, molti di loro piloti da combattimento, mentre esaminavano le foto aeree delle colonie di Badolah e Netzer Hazany. Si distribuivano opuscoli con i dettagli dell’autorità legale in forza della quale i militari potevano richiedere ai coloni di evacuare le case e arrestare coloro che si rifiutavano. Abbiamo ascoltato il comandante ricordare ai soldati le tre settimane di addestramento ricevuto per questo scopo e ribadire la necessità di dimostrarsi sensibili al dolore dei coloni, ma determinati a raggiungere i propri obiettivi. Ha augurato a tutti buona fortuna. Poche ore dopo, alle 4 del mattino, ci mettevamo in movimento.
In formazione da combattimento a colonne appaiate ci siamo avvicinati agli insediamenti. Con i cancelli barricati e le case avvolte dal fumo dei copertoni e dei rifiuti incendiati, sembravano campi di battaglia. Ma siamo arrivati disarmati, senza caschi né giubbotti anti-schegge, ma solo col giubbetto decorato con la Menorah e la Stella di Davide. Da quasi un mese équipe di psicologi dell’esercito e rabbini si erano dedicati a persuadere i coloni che il disimpegno era una realtà di fatto e che avrebbero dovuto astenersi dalla violenza. Eppure, da dietro i cancelli, i giovani lanciavano su di noi uova e palloncini di vernice, mentre molti genitori ci rimproveravano con parole che ricordavano quelle di Amnon: "Voi disonorate le vostre divise!" e peggio: "Non siete niente di meglio dei nazisti!". I soldati hanno sopportato impassibili le uova e le invettive e, quando un bulldozer ha fatto breccia nelle barricate, si sono distribuiti lungo le strade.
All’interno, le sfide più dure
La madre di un ragazzo ucciso dai terroristi si era chiusa nella sua stanza, con taniche di benzina cui minacciava di dare fuoco. Anche un’altra famiglia, il cui figlio, un soldato d’assalto della Marina, era caduto in Libano, era riluttante ad andarsene. Casa dopo casa, squadre di militari hanno ascoltato con pazienza mentre i genitori delle famiglie di coloni li supplicavano di cambiare idea e di lasciarli restare, gemendo e strappandosi le vesti. Le donne soldato hanno giocato con i bambini in lacrime, raccontando loro delle storie, abbracciandoli. Alla fine, però, ogni famiglia è stata portata sull’autobus che serviva all’evacuazione, lasciando i soldati emotivamente estenuati, ma pronti a passare alla casa successiva, alla tragedia successiva. La prova più dura cui sono state sottoposte la forza e l’umanità del battaglione è stata nella sinagoga di Badolah, dove i coloni hanno ottenuto di dedicare un’ora a una preghiera per la partenza. Dopo due ore di attesa al sole cocente i soldati hanno deciso di entrare. La scena che li ha accolti è stata scioccante: i coloni erano aggrappati ai banchi, all’Arca e ai rotoli della Torah, o si contorcevano sul pavimento. Le truppe hanno cercato di confortarli, ma loro stessi sono crollati, e presto soldati e coloni si sono abbracciati in un comune dolore e desiderio di consolazione. Infine i coloni sono stati scortati o trasportati, in singhiozzi, sugli autobus. Ma il loro rabbino, insistendo sul bisogno di un gesto di conclusione, ha chiesto il permesso di parlare ai soldati, e il comandante, ammirevolmente, lo ha accordato. Così è accaduto che 500 soldati e 100 coloni siano rimasti sull’attenti, con le bandiere israeliane che sventolavano, mentre il rabbino ha parlato dell’importanza di incanalare il dolore nella creazione di una società più ricca di amore e più etica. "Siamo ancora un popolo, uno Stato", ha detto. Assieme, gli sfrattati e coloro che li avevano prelevati, hanno cantato "Hatikvah", l’inno nazionale: "La Speranza".
Il disimpegno da Gaza, che secondo i piani originari avrebbe dovuto impiegare tre settimane, è stato ultimato quasi nello stesso numero di giorni. Pochi feriti, nessuno grave, nessun israeliano ha perso la vita. Solo due militari si sono rifiutati di eseguire gli ordini, e in un caso un’unità di soldati religiosi è rimasta ferma a osservare mentre il loro rabbino veniva evacuato. Se bisogna rendere merito all’autocontrollo dimostrato complessivamente dai coloni, il maggiore riconoscimento va all’IDF. Mai in precedenza un esercito aveva sfollato così tanti concittadini contro la loro volontà e in una situazione di perduranti attacchi terroristici, con tale straordinaria manifestazione di coraggio, disciplina e compassione. Conservo diversi dei miei presentimenti sul disimpegno: il fatto che stabilisca un precedente per il ritorno ai confini del ’67, l’incentivo al terrorismo. Per quanto riguarda il ruolo dell’esercito, però, non sento alcuna ambivalenza. Lo stesso esercito che ha dato l’indipendenza a Israele, che ha riunito Gerusalemme e ha attraversato il Canale di Suez, ha realizzato forse la sua più grande vittoria. Senza medaglie, è vero, senza conquiste, ma anche senza sparare un colpo. Vorrei rispondere ad Amnon: non mi vergogno, anzi sono profondamente orgoglioso delle Forze di difesa israeliane, della loro forza e della loro umanità.
Copyright The Wall Street Journal,
per gentile concessione di Milano Finanza
(traduzione di Paola Praloran, AMI)
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