Tra i palestinesi dopo il ritiro
una cronaca scorretta
Testata:
Data: 22/08/2005
Pagina: 8
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Gaza, piccoli sogni a portata di mano
L'UNITA' di lunedì 22 agosto 2005 pubblica a pagina 8 un articolo di Umberto De Giovannangeli che riportiamo.

Ecco il testo:

l nostro viaggio nella speranza di Gaza stavolta fa a meno delle dichiarazioni (trionfalistiche) e dei proclami (propagandistici) dei vari leader delle tante fazioni palestinesi. Perché, stavolta, protagonisti di questo viaggio sono le donne, gli uomini, i bambini di Gaza. Il clima di festa lo avverti dai muri prim'ancora che dalle parole. Muri ricoperti dalle scritte, e dalle foto, dei tanti «shahid» (martiri) morti per la liberazione della «sacra terra di Palestina».
Gli "shahid" sono terroristi, un fatto che, dopo aver scritto tra virgolette il termine con cui li denomina il fondamentalismo islamico palestinese, doveva essere ricordato.
Ai ragazzi di Gaza non parlare del coraggio di Sharon, non provare a spiegare che se questo ritiro è potuto accadere è anche perché l'ex «generale bulldozer» è tornato sui suoi passi, mostrando il profilo di uno statista pragmatico. È un esercizio inutile. Perché per Zahira, 20 anni, la seconda di sette figli, un fratello da due anni in un carcere israeliano, un cugino ucciso dai soldati di Tzahal in una delle tante operazioni mirate condotte da Israele nella Striscia, il ritiro israeliano è una fuga di fronte agli eroici combattenti dell'Intifada:
In quali circostanze? Faceva parte di un gruppo terroristico? Troppi pochi particolari in questo racconto, che potrebbe anche far pensare al lettore disinformato che le "operazioni mirate" israeliane siano omicidi casuali di civili palestinesi.
«Se Sharon ha deciso per il ritiro - dice Zahira - è perché ha capito che non poteva conquistare Gaza e avere la meglio sulla resistenza popolare. Non ci è stato fatto nessun regalo, ci stiamo riprendendo una parte di ciò che ci è stato rubato». Un sentimento che ritroviamo nei campi profughi di Jabaliya, Rafah, Khan Younes, roccaforti dei duri dell'Intifada armata. È lo spirito militante dalla cinquantina di miliziani
"Miliziani"? Di quale "milizia"?
in divisa nero-verde, quella dell'ala militare di Hamas,
Ah, ecco, dell'"ala militante di Hamas", che ovviamente non viane mai chiamata col suo nome: "organizzazione terroristica". Perché include, oltre ai terroristi in armi, quelli che si occupano di "politica" e di "servizi sociali". No, non per questo, come dimostra il fatto che per i primi c'è un eufemismo specifico: "ala militante".
mascherati e armati di kalashnikov che si muovono da padroni nel cuore di Khan Younes. Ma l'orgoglio e la minaccia irredentista sono sentimenti che in questi giorni di febbrile attesa si addolciscono nel sorriso dei bambini. E nel sogno presto realizzato della piccola Hanan. Per spiegarlo occorre raccontare cosa abbia significato nella quotidianità della gente di Khan Younes l'esistenza degli insediamenti del Gush Katif.
Non "l'esistenza degli insediamenti del Gush Katif", ma la necessità di proteggerli dal terrorismo palestinese.
L'immenso campo profughi ha una strada ampia che lo attraversa e che in passato, in un passato lontano nel tempo, andava diritto al mare. Quella strada ora si ferma di fronte ad una sbarra gialla che segna l'inizio del «regno del Katif». Le torrette sono molte e i soldati sono puntini invisibili in lontananza. Dietro quella sbarra, dietro quei fortini super presidiati c'è il mare. Hanan l'ha sempre sognata, quella distesa d'acqua. Era lì a pochi chilometri dalla sua casa, poche decine di metri quadri dove Hanan vive assieme ai suoi genitori e a sette fratelli e sorelle, ma restava una meta irraggiungibile. Fra qualche settimana non sarà più così. Per Hanan la festa sarà finalmente potersi immergere in quel mare e correre libera sulla sabbia. Senza più quei minacciosi «puntini» in divisa che le sbarrano la strada. Acqua da solcare. Il sogno di Hanan. La speranza di Ahmed il pescatore. Quella di poter finalmente uscire con la sua barca senza chiedere il permesso alle autorità militari israeliane e senza più l'obbligo di dovere gettare le reti solo in uno spicchio d'acqua. «Vengo da una famiglia di pescatori - racconta Ahmed, 42 anni e sei figli da sfamare - Lo era mio padre e il padre di mio padre. Per loro la libertà significava uscire in mare aperto e poterci restare quanto volevano. E pescare senza impedimenti». «Con l'occupazione israeliana - prosegue Ahmed - ciò non è stato più possibile. Tutto c'è stato impedito, anche di pescare. Se mi chiedi cosa voglia dire per me e i miei figli libertà, beh, è poter tornare in mare aperto senza più l'angoscia di essere arrestato». Fino ad oggi, da trentotto anni, le autorità militari israeliane hanno tenuto i pescatori palestinesi a sei chilometri dalla costa, dove non vi è pesce nei mesi estivi.
Cosa sia la speranza di una vita normale per i bambini di Jabaliya, Khan Younes, Rafah lo spiega molto bene il dottor Hussam Hamdouna del «Remedial Educational Center» di Gaza City: «Il problema più diffuso tra i bambini è quello dell'insonnia notturna. È di notte infatti che l'attività militare israeliana si fa più intensa e che avvengono le incursioni, perciò i bambini hanno più paura e la tensione non permette loro di dormire. Di conseguenza, i bambini tendono a stare svegli la notte per poi dormire di giorno quando dovrebbero andare a scuola. Il dottor Hamdouna ci fa da guida tra le strade sterrate del campo profughi di Khan Younes. Gruppi di ragazze stanno cucendo decine di bandiere verdi: quelle di Hamas. I capi del movimento integralista ne hanno commissionate oltre centomila per il «giorno della Vittoria». Lo stesso hanno fatto i capi di Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, limitandosi però a 40mila vessilli. Ma ciò che più sta a cuore a Hussam Hamdouna è la sorte dei bambini di Khan Younes: «Quasi tutti i bambini - sottolinea - hanno problemi di concentrazione: dimenticano immediatamente ciò che apprendono, hanno scarsi risultati a scuola, sono molto esitanti quando si tratta di prendere una decisione. La difficoltà maggiore resta l'incapacità di esprimere le proprie preferenze, di essere se stessi e ascoltare le proprie esigenze. In generale, infatti, quasi tutti i bambini hanno scarsa autostima, pensano di non avere alcun valore, di non contare nulla e sono quindi sempre molto tristi. Pensano frequentemente alla morte in generale e, più in particolare, a se stessi da morti». Il sogno del dottor Hamdouna è che il ritiro israeliano possa funzionare come «antidepressivo» per quei bimbi, aiutarli a ritrovare un briciolo di serenità, a vincere la loro tristezza. «Vorrei - dice Hussam Hamdouna al momento di lasciarci - che in una delle colonie evacuate dagli israeliani fosse costruito un grande parco giochi per i bambini di Khan Younes. E accanto una scuola bene attrezzata. Sarebbe il modo migliore per offrire una speranza a chi non l'ha mai avuta».
I sogni di Gaza. Il disincanto di Gaza. Quest'ultimo sentimento si riflette nelle considerazioni di Feisal. Venicinque anni, quattro dei quali passati in un carcere israeliano, Feisal considera il ritiro israeliano un grande, atroce bluff consumato ai danni dei palestinesi con la complicità della comunità internazionale. «Ascoltami bene - dice Feisal mentre percorriamo il lungomare di Gaza City sotto un sole implacabile -: gli israeliani manterranno il controllo dei valichi di frontiera, dello spazio aereo e delle coste. Per uscire dovremmo continuare a pietire il permesso degli occupanti. Non avremo più i coloni vicini, certo, e questo non mi dispiace. Ma anche dopo la Striscia di Gaza resterà sempre una prigione a cielo aperto e gli israeliani i nostri carcerieri». Il disincanto di Feisal viene «sommerso» dalle grida festanti del migliaio di giovani che danno vita a un corteo spontaneo per il centro di Gaza. Bandiere di Hamas si mischiano con quelle di Al Fatah, gli slogan esaltano la resistenza e promettono: «Continueremo la lotta fino a quando la bandiera palestinese sarà issata su Al Quds» (Gerusalemme). Quell'unità di intenti si scontrerà tra breve con la determinazione delle varie fazioni e movimenti a incassare il ritiro israeliano in termini di consensi elettorali, in vista delle elezioni legislative fissate per il 25 gennaio, e di spartizione dei finanziamenti internazionali per la ricostruzione della disastrata economia della Striscia. Feisal non ha dubbi: se si votasse oggi «vincerebbe alla grande Hamas e non perché la gente sia integralista o sostenga la lotta armata a oltranza, ma perché vuole punire la corruzione dell'Anp e l'inefficienza di Fatah».
Lo scontro, si spera solo politico, è una storia del domani. L'oggi, a Gaza, è fatto soprattutto di sogni e di speranze. Di festa e di rabbia. La festa è quella che vede riunite sulla spiaggia di Gaza City centinaia di persone. Il sole sta tramontando quando a largo inizia la sfilata delle barche, su ognuna delle quali sventola una bandiera nazionale palestinese. La folla applaude, mentre i bambini si rincorrono sulla sabbia. Sullo sfondo si sente però il crepitio sinistro dei mitra. Corriamo a vedere: a manifestare, davanti all'edificio del parlamento, sono alcune centinaia di miliziani delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah. Sparare in aria, spiega il loro portavoce, Abu Jihad, per denunciare l'assegnazione di lavori «a chi non se li è meritati mentre i combattenti sono stati dimenticati…».
Il sogno della gente di Gaza è un lavoro, una casa degna di questo nome. Una speranza che a Khan Younes dovrebbe sostanziarsi nel progetto di riavvio del turismo, magari partendo dal riutilizzo vecchio Hotel delle Palme, e di costruzione di appartamenti destinati a ospitare tremila famiglie laddove fino a oggi sorgevano gli insediamenti israeliani. Un progetto supportato da un finanziamento iniziale di 100 milioni di dollari garantito dagli Emirati arabi uniti. Una casa dove alloggiare la sua famiglia di nove persone, oggi ammassate in una baracca di lamiera dove di inverno si battono i denti e d'estate si muore dal caldo. È il sogno di Bashar: «Un lavoro per sfamare i miei figli e una casa dove poterli far vivere dignitosamente. È questo il doppio "miracolo" che chiedo ad Abu Mazen», dice Bashar.
Una richiesta che accomuna la gente dei quartieri ovest di Khan Younes, i più colpiti durante la seconda Intifada dai cannoneggiamenti israeliani. Molte famiglie hanno vista distrutta la propri abitazione dagli obici di Tzahal. Ora sperano se non in una nuova vita almeno in una nuova casa. Questo sogna la gente di Gaza nei giorni del ritiro israeliano. Casa, lavoro, la fine delle umiliazioni ai check-point, una vita normale per i bambini. E poi, un giorno non lontano, un passaporto e uno Stato indipendente, per vivere finalmente liberi in terra di Palestina.
Sempre lunedì 22 agosto 2005 l'edizione on line del quotidiano titola "Inizia lo sgombero di Netzarim, un cuneo nel cuore di Gaza".
No, Netzarim era una città, non un "cuneo".

Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de L'Unità. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@unita.it