IL RIFORMISTA di venerdì 12 agosto 2005 pubblica a pagina 3 un articolo di Anna Momigliano basato su una conversazione con Natan Sharansky, ex dissidente sovietico e politico israeliano contrario al ritiro da Gaza, con motivazioni molto diverse da quelle dei coloni.
Ecco il testo:Tel Aviv. Natan Sharansky è il politico più controverso d’Israele, un leader sui generis, con una storia unica alle spalle: da prigioniero in un gulag a eroe nazionale e simbolo dell’universalismo; da uomo forte di Sharon a nemico
numero interno uno del ritiro da Gaza. Ex dissidente sovietico, Sharansky ha scontato nove anni di lavori forzati in Siberia sotto l’accusa di spionaggio a favore degli Stati Uniti. Il suo saggio Per la Democrazia, in cui espone il teorema della democrazia universale come unica base per una pace duratura, è diventato il breviario dei neo-con made in Usa, tanto che Bush lo ha più
volte citato nei suoi discorsi (ha anche ammesso «è l’unico libro che ho letto negli ultimi anni»). Sharansky fu liberato dai campi di lavoro nel 1986, grazie
a uno scambio di prigionieri tra Usa e Urss: lo stesso anno venne accolto in
Israele come un eroe. Nel 1995 entra in politica, fondando un nuovo partito (Ysrael B’aliya, più tardi fuso con il Likud) per rappresentare il nuovo milione di immigrati dall’ex Unione sovietica. Dopo le elezioni del 1996 Sharansky intraprende una brillante carriera nel governo: recentemente è stato
vicepremier, ministro degli Interni e ministro dell’Immigrazione e di Gerusalemme. La sua linea politica ha stupito molti: prima di passare al Likud, aveva formato una coalizione con il partito ultra-nazionalista Unione Nazionale; a maggio ha abbandonato il governo in polemica con il piano di disimpegno da Gaza, anticipando l’uscita dell’altro likudnki ribelle, Benyamin Netanyahu. «Difficile crederci, era un paladino dei diritti universali in Russia ed oggi che è in Israele è diventato un nazionalista », dicono di lui i suoi detrattori. Eppure la sua opposizione al ritiro unilaterale da Gaza non ha
nulla a che vedere con il nazionalismo, spiega Sharansky dal suo studio di Tel Aviv:«il punto non è affatto se fare concessioni ai palestinesi, se trattare con lo stato palestinese, il punto è con quale stato palestinese vogliamo trattare, se con una democrazia o con una dittatura. La logica con cui Sharon ha preso la decisione è più o meno questa: nulla cambierà dal lato palestinese, non avremo mai un vero partner e ciononostante, anzi, proprio per questo noi dobbiamo fare questa concessione importante.Almeno è così che lui mi ha spiegato la faccenda 14 mesi fa: visto che i palestinesi e Hamas stanno solo utilizzando il terrorismo per alleviare questa tensione è necessario fare
una concessione drammatica. Se non altro, avremo il mondo dalla nostra parte
e, una volta separati da Gaza, sarà più difficile per Hamas portare avanti gli attentati, perché saremo lontani. Ma francamente io non credo che per loro sarà più difficile.Al contrario ». Poco distante, un cartellone dell’Unione Nazionale, ex partito di Sharansky, minaccia: «attenzione, Arik Sharon.Ti ritirerai sotto il fuoco». È per questo che lei crede non sia il caso di fare questa «concessione drammatica?». «Non esattamente. Credo che sia lo stesso concetto (alla base del ritiro di Sharon, ndr) ad essere sbagliato, fin dall’inizio. Va bene fare delle concessioni, ma ogni singola concessione fatta da parte israeliana deve avvenire dopo esserci posti una domanda: con che tipo di stato palestinese vogliamo trattare.O meglio ancora: quale tipo di riforma democratica stiamo promuovendo in Palestina, con questa concessione? La natura del (futuro) Stato palestinese dovrebbe essere la preoccupazione principale di
Israele. E io credo che le concessioni unilaterali siano sempre una forma di incoraggiamento per i terroristi, questo è ciò che ho detto a Sharon 14 mesi fa, e mi sembra che oggi sia ancora più chiaro di allora. Ora come ora, non possiamo accusare Abu Mazen di non fare abbastanza (contro il terrorismo)
perché non gli abbiamo chiesto di fare nulla». Nessuna pace senza democrazia è il principio alla base della sua ideologia, che tanto è piaciuta a George W. Bush. Eppure ci sono state elezioni libere nell’Anp, proprio come in Iraq. «L’Autorità palestinese non è una democrazia,e neppure l’Iraq lo è. Democrazia non significa elezioni libere.Democrazia significa elezioni libere in una società libera. E per poter parlare di una società libera occorrono istituzioni che salvaguardino l’individuo. Che democrazia è la società palestinese, che tiene deliberatamente le persone nei campi rifugiati, dove si vive in uno stato di cessate-il-fuoco con le organizzazioni terroriste? Tuttavia è una cosa molto importante che ci siano state elezioni in Iraq e in Palestina, come un passo avanti». Perché allora gli Usa non stanno facendo pressione per la democratizzazione dell’Anp come hanno fatto con Baghdad?
«Stanno facendo pressione, e ne faranno in futuro. Ma, vede, non serve a molto se noi israeliani siamo i primi a non fare pressione in questo senso. Nel momento in cui facciamo concessioni senza avere una democratizzazione in
cambio, significa ammettere che non ci saranno mai cambiamenti. Non ci sarà nessun cambiamento nella politica dei campi dei rifugiati, e nessun cambiamento nella propaganda di odio che avviene nelle scuole e nei media controllati
dall’alto».
Sempre a pagina 3 Jacopo Tondelli riporta un colloquio con il sionista religioso, favorevole al ritiro Benjamin Ish Shalom.
Ecco il testo:Gerusalemme. Chiedete a un israeliano di trent’anni dove ha conosciuto i suoi migliori amici.In otto casi su dieci vi sentirete rispondere: «Nell’esercito».Tre anni per gli uomini e due per le donne, piazzati nella vita di diciottenni qualsiasi. Per l’università e i viaggi c’è sempre tempo. Un’esperienza umana enorme,e anche un potente collettore identitario della nazione israeliana che non a caso ha tante volte consegnato i
suoi destini politici a grandi generali, eleggendoli a primi ministri di uno Stato ebraico quanto sionista per definizione. Solo che oggi l’onda lunga della rivoluzione sionista sembra esaurirsi, nei fatti, contro le difese di una società esausta, mentre l’identità ebraica del paese è messa a dura prova dalla diffusa voglia di laicità compiuta, da un lato, e da ondate migratorie imponenti ma dal background ebraico assai fragile, dall’altro. I nodi fanno male,in questi giorni, arrivati al pettine del ritiro da Gaza: cittadini israeliani rivendicano il diritto di stare a Gaza, in quanto ebrei e sionisti mentre, in nome del sionismo religioso, altre voci benedicono il ritiro. Voluto da un governo in cui nessuno negherebbe il pieno rispetto dei principi ebraici e del sionismo.Le operazioni saranno ovviamente condotte da Tsahal, l’esercito
israeliano: forze armate dello Stato ebraico, garante storico del diritto sionista alla terra degli ebrei. Benjamin Ish-Shalom è docente di filosofia ebraica e rettore del Centro di studi ebraici "Beit Morasha", nella sede dell’agenzia ebraica per Israele.Dirige un progetto educativo rivolto ai giovani dell’esercito, voluto dai vertici di Tsahal quattro anni fa. Obiettivo primario: approfondire le tematiche ebraiche e l’ideologia sionista. «Si percepiva la carenza diffusa di conoscenza di elementi assolutamente centrali per il nostro paese e per il nostro esercito. Perché i nostri soldati devono davvero sapere perché combattere per Israele.D’altro canto, risultava indispensabile dare strumenti intellettuali per risolvere i gravi dilemmi
morali che una guerra anticonvenzionale come questa pone. E’ una guerra al terrorismo,combattuta tra civili e per difendere la vita di civili israeliani».Mostra alcuni kit, delle scatole contenenti schede e prontuari applicabili "sul campo". «In questa, ad esempio, c’è tutto quello che può servire ai soldati impegnati ai check-point, con tanto di casi pratici di grande
rilevanza statistica. Con quest’altra, invece, proviamo ad aiutare questi giovani a vivere nel rispetto della tradizione ebraica le feste religiose durante gli anni del servizio militare». I seminari e gli incontri toccano anche elementi non ebraici che riguardano il lavoro dei soldati: «da Kant al diritto internazionale. Anche se, ovviamente, l’ebraismo e il sionismo sono gli elementi centrali». Com’è "insegnare" l’ebraismo e il sionismo ai tanti immigrati, dall’ex URSS e non solo, che di ebreo hanno forse un nonno,
e figuriamoci se sono sionisti? «E’ arrivato un milione di persone, di cui molti erano considerati ebrei in Russia, ma non lo sono per la legge ebraica. Sono arrivati qua convinti di essere ebrei e,una volta diventati israeliani, hanno scoperto di non esserlo.Per tanti è un trauma che chiede risposte.
Ma molti di loro vogliono essere parte di questa comunità, moltissimi volontariamente chiedono di entrare in corpi particolarmente pericolosi: dimostrano così quanto si sentono parte di questo Stato e della sua storia». Più ci si allontana dalla fonte storica e più il "sionismo" diviene un contenitore omnicomprensivo, in cui tutto sta con tutto, come si vede chiaramente in questi giorni. Quale sionismo insegnate, ai soldati? «Mostriamo
la storia del pensiero sionista in tutti i suoi aspetti, cercando di non suggerire una militanza, ma di dare elementi per capire la storia che li porta oggi a vestire un’uniforme. Spieghiamo le differenze tra il sionismo laico e quello religioso, e le varie correnti all’interno dei due campi». A proposito, un sionista religioso come Avraham Burg dice che il ritiro dai Territori è una cosa sionista, mentre un sionista religioso come Avraham Shapira - ex rabbino capo d’Israele - incita a i soldati a rifiutarsi di evacuare Gaza. Un bel po’ di confusione per i soldati. Lui mostra subito un’altra scatola, la più grossa. È il kit per il ritiro. «Certo, non basta una scatola, ma può aiutare. Qui
sono illustrate tutte le questioni umane, morali e religiose che le operazioni porranno. Io poi sarò sul campo,col comandante dell’esercito, per dare il mio contributo psicologico, ascoltare, rispondere ». Anche lei è un sionista religioso, però,e un importante teorico odierno della radice ebraica del sionismo.Non ha mai pensato che quando Israele aveva bisogno di consolidarsi "utilizzò" pensatori religiosi che teorizzavano un sionismo "espansivo", mentre oggi, per ritirarsi, si serve di lei? «Sono uno studioso di Rav Cook sr. (il primo e più grande teorico del sionismo religioso, ndr), e posso dire che nel suo pensiero c’è spazio per qualunque sionismo religioso, da quello pacifista a quello dei coloni. Quanto a me, neppure i miei figli sanno per chi voto… Sono profondamente convinto, da ebreo sionista, che noi abbiamo un diritto pieno a stare ovunque nella Terra Promessa,anche a
Gaza. Ce ne stiamo andando,ma si sappia che non stiamo ottemperando a un obbligo,ma rinunciando unilateralmente a un diritto.E questo l’occidente dovrebbe riconoscerlo. Ma è un diritto che non può ignorare due dati: questa terra non era vuota, e siamo in democrazia. E la pace è un obiettivo vitale per tutti».Ma se è un diritto pieno, allora i coloni hanno ragione a non volervi rinunciare. Insomma, quale ragione prevale? «Questo è il grande dilemma. I coloni vogliono stare, i soldati devono procedere: e in qualche modo hanno entrambi pieno diritto». Un po’ come gli israeliani e i palestinesi?
«Esattamente».
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