Polemiche sovrastimate sull'inno nazionale israeliano
una cronaca di Lorenzo Cremonesi enfatizza una vicenda minore
Testata: Corriere della Sera
Data: 11/08/2005
Pagina: 1
Autore: Lorenzo Cremonesi
Titolo: L'inno nazionale fa litigare Israele
Il CORRIERE DELLA SERA di giovedì 11 agosto 2005 pubblica in prima pagina e a pagina 12 un articolo di Lorenzo Cremonesi su una proposta di legge avanzata in Israele per modificare l'inno nazionale, l'Hatikva.
L'articolo e gli occhielli ("I cittadini arabi: non ci rappresenta. Polemica anche sulla bandiera" e "Proestano i cittadini arabi: Non ci rappresenta, modifichiamolo") sembrano implicare che ci si trovi di fronte a proteste di massa.
Per ora, si tratta invece soltanto di una proposta di legge (avanzata "da" arabi israeliani e non "dagli" arabi israeliani) e di prese di posizione individuali.
Senza entrare nel merito del dibattito bisogna comunque ricordare che il testo dell'inno nazionale israeliano riflette la storia del paese e non implica nessuna volontà di eclusione della minoranza araba.

Comunque, "lode" all'originalità di Cremonesi, per aver scovato, nel momento in cui l'attenzione di tutti i giornalisti è concentrata sull'imminente ritiro da Gaza, una notizia certamente minore, che può però servire a mettere ingannevolmente in dubbio l'eguaglianza di diritti e dignità delle diverse componenti della popolazione israeliana...

Ecco il testo.

GERUSALEMME — Dopo le polemiche sulla bandiera, una proposta di legge è stata presentata in Israele per modificare l'inno nazionale Ha- Tikva («La speranza»). «L'anima ebraica» del testo originale potrebbe essere sostituita con «l'anima israeliana» per comprendere il milione di cittadini arabi (quelli ebrei sono circa 5 milioni), che si sentono completamente ignorati dall'inno.

Come possono gli arabi israeliani riconoscersi in un inno nazionale scritto e pensato a uso e consumo esclusivo degli ebrei? «Impossibile», rispondono i fautori della proposta di legge volta a modificare HaTikva («La speranza»), l'inno che dalla nascita del sionismo moderno, alla fine dell'Ottocento, e dopo la fondazione dello Stato incarna l'ethos del ritorno ebraico alla Terra Promessa. Così si stanno scervellando sulle poche strofe, pubblicate per la prima volta nel 1896 sulle note di un'antica melodia moldava tanto cara al mondo degli ebrei askenaziti decisi a fuggire i pogrom e l'antisemitismo nei villaggi di origine.
Per esempio si potrebbe sostituire «l'anima ebraica» del testo originale con «l'anima israeliana» proprio per comprendere il milione di cittadini arabi (quelli ebrei sono circa 5 milioni). Oppure c'è chi pensa di aggiungere una strofa in arabo. Il dibattito è aperto. E con aspetti paradossali: solo lo scorso novembre HaTikva era stata equiparata a legge dello Stato, con tanto di voto approvato a maggioranza dal Parlamento.
«Un dibattito che riflette la crisi di identità del Paese», osservano i commentatori. Una crisi profonda, acuita ultimamente dallo scontro politico sulla questione del ritiro da Gaza. Come era già avvenuto per il dibattito sulla simbologia della bandiera nazionale e in occasione delle tesi dissacranti e revisioniste sulla narrativa sionista proposte dai cosiddetti «nuovi storici» israeliani, anche la questione dell'inno manifesta il desiderio di ridefinire «l'israelianità» in tempi di cambiamento. In questo caso il problema è come far convivere i miti del sionismo ebraico col crescente peso politico e sociale della minoranza araba. Già alla metà degli anni Novanta la questione era esplosa quando Mohammad Masarwa, giovane e brillante funzionario del ministero degli Esteri appena nominato console ad Atlanta, si era rifiutato di cantare l'inno nazionale al momento della presentazione delle credenziali. Uno scandalo. Come poteva un rappresentante dello Stato all'estero non riconoscersi in uno dei suoi simboli fondamentali? «Questo inno non tiene conto del mio essere arabo di Galilea», aveva spiegato lui. Più di recente Rifaat Tourk ha espresso dilemmi molto simili. Ex campione della squadra nazionale di calcio e attuale vicesindaco di Tel Aviv, Tourk ha raccontato alla stampa di essersi sempre sentito a suo agio con i compagni di squadra negli stadi. Con un neo però: «Quando, a fine partita, dovevamo metterci sull'attenti ascoltando le note dell'inno nazionale. Non mi potevo riconoscere in esso, perché a sua volta mi ignora totalmente». Parole che ricordano da vicino le proteste dei drusi, considerati una delle minoranze più fedeli allo Stato, quando la settimana scorsa un estremista ebreo ha aperto il fuoco in uno dei loro villaggi uccidendo quattro persone. E adesso guardano a Tourk, che si è rivolto al suo partito — il Likud conservatore — per lanciare una campagna volta all'integrazione degli arabi.
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