Ora tocca ai palestinesi: il ritiro da Gaza e il futuro della pace
interviste, analisi e opinioni
Testata:
Data: 11/08/2005
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein - Avi Pazner - Anna Momigliano - Rolla Scolari - Daniel Pipes
Titolo: «Ora tocca ai palestinesi» - Sharon si è sacrificato per la pace. Lo farà anche l'Anp? - Oggi via da Gaza, domani da Gerusalemme
LA STAMPA di giovedì 11 agosto 2005 pubblica a pagina 9 un'intervista di Fiamma Nirenstein al vicepremier israeliano Ehud Olmert, «Ora tocca ai palestinesi»

Ecco il testo:

Ehud Olmert è oggi, dopo Ariel Sharon, l’uomo più importante per il futuro di Israele. Vice primo ministro, ieri è entrato in carica nel suo nuovo ruolo di ministro del Tesoro. Visibilmente emozionato, pallido e determinato, si appresta ad affrontare lo sgombero da Gaza e da parte della Cisgiordania, di cui è stato uno dei maggiori sostenitori, a fianco di Sharon anche nei momenti più difficili.
Il governo sta attraversando una tempesta che talvolta sembra poter rovesciare l’intero Stato d’Israele. Non le sembra che sarebbe stato meglio cercare prima un accordo con i palestinesi?
«Sono molto fiero proprio della nostra capacità di tenere il timone senza tentennamenti su una decisione che mi appare fondamentale e giusta per la vita stessa, la sopravvivenza come democrazia, il futuro di Israele. Quanto a un accordo preventivo, la storia ha dimostrato che la strada dell’unilateralità era l’unica possibile e spero che i palestinesi adesso si rendano conto che la chiave per un futuro migliore per tutti è che loro pongano fine al terrorismo. Speriamo che non siano tentati dalle illusioni, che colgano la grandissima occasione che si presenta».
Abu Mazen vi chiede armi, perché sostiene che non è in grado altrimenti di combattere il terrorismo. Ma non sembra che siate disposti a concederle.
«Riteniamo che la richiesta è legittima. Non è detto, dato che contano su tanti amici, che Israele debba fornirle in prima persona. Però, ripeto che capiamo in linea di principio la richiesta e se è giusta, troverà una risposta».
Molti dicono che la scelta di lasciare Gaza è legata al progetto di mantenere il potere sulla Cisgiordania.
«Sono valutazioni private di alcuni politici e funzionari, e non è la linea del governo. Non lasciamo Gaza per poi tenerci la Cisgiordania. Lasciamo Gaza per aprire la porta a uno Stato Palestinese, per aprire il cuore dei palestinesi alla speranza, anzi alla certezza che da questa parte siede un interlocutore che non ha paura di fare concessioni difficili, penose, quasi impossibili se si guarda al dolore che dobbiamo sopportare e al rischio che abbiamo deciso di prenderci pur di affacciarsi sulla pace. L’idea è proprio quella di svoltare rispetto all’impossibilità di trattare e di parlare. Non contrabbandiamo Gaza in cambio della Cisgiordania»
I vostri esperti militari e dell’intelligence prevedono che lo sgombero si attuerà in condizioni difficili, che i palestinesi spareranno i razzi kassam nei momenti più delicati, e che il terrorismo si espanderà. Che farete allora?
«Non so che cosa succederà, naturalmente, ma vedo che in questi giorni da parte palestinese si cominciano a prendere serie misure per bloccare la possibilità di una nostra uscita sotto il fuoco. Spero che ce la facciano. Abbiamo comunque pensato anche a questa ipotesi, e Dio non voglia, sapremo comunque scegliere la linea giusta. Quanto al futuro, come abbiamo combattuto con durezza il terrorismo in passato, così seguiteremo a fare se si presenterà di nuovo».
Resterete comunque responsabili di Gaza se, come sembra, manterrete un manipolo di truppe verso l’Egitto, sul cosiddetto Sentiero di Filadelfia.
«Noi ci ritireremo in tutto e per tutto, non occuperemo più nulla, l’Egitto sarà responsabile della sua zona di frontiera. Resteremo responsabili solo dell’operazione del tutto esterna della dogana, i cui proventi saranno trasferiti ai palestinesi. Questo perché Gaza non si differenzi dalla Cisgiordania nell’assetto doganale. Ce l’ha chiesto l’Autorità palestinese».
Teme la resistenza ai soldati durante lo sgombero?
«Sono certo molto teso e preoccupato, come tutti, ma ho anche qui grande fiducia nella maturità di un Paese come il nostro, nei cittadini, soprattutto i settler che sanno sacrificarsi e sentire la responsabilità del bene collettivo. Certo, basta un pazzo a creare una situazione violenta, ma la leadership dei coloni è responsabile e ha sempre fermato le manifestazioni di violenza verso i soldati. Noi sentiamo profondamente il valore dei nostri cittadini che se ne devono andare, e sono certo che se ne rendono conto. Ma per capire quanto spirito ideale c’è nella nostra scelta, basta rendersi conto di quanto patriottismo, quanto sacrificio anche personale e politico c’è nella scelta di Sharon, che viene da lidi lontani dalla scelta dello sgombero. Ha puntato proprio tutto sulla speranza che i suoi nipoti e quelli di Abu Mazen possano giocare un giorno senza paura e senza guerra».
IL RIFORMISTA pubblica a pagina 3 un intervento di Avi Pazner, Portavoce del governo israeliano, "Sharon si è sacrificato per la pace. Lo farà anche l'Anp?"
Tra una settimana, un terremoto politico e psicologico andrà ad abbattersi sul Medio Oriente: Israele, in un gesto unilaterale, sta per ritirare qualsiasi sua presenza civile e militare dalla striscia di Gaza. Per la prima volta dalla guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele, di sua spontanea volontà, abbandona un territorio palestinese, aprendo in tal modo una nuova pagina nella storia della nostra regione. Poco più di un anno fa, questo sembrava impensabile: Israele
e i suoi vicini palestinesi affogavano nei supplizi dell’intifada. Era un susseguirsi di azioni di terrorismo suicida e rappresaglie. Dalla sua Moukatta
di Ramallah, Yasser Arafat predicava ancora il culto dell’odio e della violenza. Ci eravamo quasi abituati alle immagini dell’orrore. È all’epoca che Ariel Sharon aveva annunciato la sua iniziativa: a mo’ di azione di buona volontà e per migliorare lo status della sicurezza, Israele si sarebbe ritirata dalla striscia di Gaza. Una dichiarazione a cui al momento si era dato pochissimo rilievo: l’opinione pubblica era troppo impegnata a fustigare le reazioni di Israele agli atti di terrorismo che si accanivano a rubare
vite e a sconvolgere profondamente il quotidiano degli israeliani. E Ariel Sharon? Erano in pochi a credere che l’uomo, identificato soprattutto con la sua modalità dura di combattere il terrorismo, potesse essere capace di un gesto così rivoluzionario. Non si credeva alla sua sincerità, lo si giudicava incapace di un segno di tale ampiezza e generosità. Il primo ministro israeliano
invece faceva sul serio. Era giunto alla conclusione che non bastava una vittoria militare sul terrorismo, ma occorreva piuttosto aprire una finestra di opportunità e un’opzione politica. Una cosa non molto semplice per un dirigente politico, quando il Likud, il suo partito, continuava ad aderire a una linea
ideologica che prevedeva una presenza ebraica continua nelle terre ancestrali
del popolo d’Israele. Per avere la maggioranza in seno al suo partito, in seno
al governo, alla Knesset, per mesi Sharon ha lottato instancabilmente affinché la sua idea di disimpegno passasse. Una complicata giostra politica e ideologica. Israele è ancora oggi divisa sulla questione. Una maggioranza assai
silenziosa sostiene il ritiro da Gaza, mentre una minoranza importante vi si oppone con accanimento. Gli oppositori sono veementi; la loro bandiera di adesione è l’arancione: si copiano i successi dell’Ucraina, con un susseguirsi di manifestazioni e dimostrazioni, per il momento relativamente pacifiche,
anche se nessuno ignora il fatto che, nelle falangi estreme, ci siano anche dei
fanatici pronti a tutto. Difatti un terrorista ebreo la settimana scorsa ha assassinato quattro Arabi, sperando di seminare il panico all’interno del paese. Le minacce sono ancora più precise: le misure di sicurezza intorno a Sharon e ai suoi ministri più importanti sono state rafforzate. Il trauma
dell’omicidio di Yitzhak Rabin è sempre presente. Israele non vuole, non
può rivivere la stessa tragedia. E ciononostante il cuore degli israeliani sanguina. Che siano di destra, di centro o di sinistra. Il dramma delle famiglie che si dovranno strappare alle loro case, scuote gli animi. Ciascun
governo israeliano ha chiamato queste persone a popolare delle terre deserte; non ci si poteva immaginare al tempo che sarebbero sempre stati condannati a essere una minoranza infima in mezzo a una popolazione palestinese tra le più fitte della Terra. La loro presenza non ha futuro in quei territori, e questo Sharon l’ha capito. Con un coraggio politico estremo, ha deciso di disfare quello che lui stesso ha contribuito a creare. Ma a un prezzo politico alto. La dissidenza serpeggia persino in seno al suo partito. Il ministro delle Finanze Benyamin Netanyahu, uno dei suoi ministri più influenti ed ex primo ministro,
è uscito dal governo. Non ha intenzione di prender parte al disimpegno che, secondo lui, mette in pericolo la sicurezza d’Israele.E ora queste dimissioni fanno senza dubbio presagire una sfida autorevole a Sharon per la leadership del Likud prima delle prossime elezioni. L’azione di Netanyahu non è tuttavia riuscita a destabilizzare il governo. Sharon è fermamente deciso ad andare avanti, contro qualsiasi vento e marea. Il disimpegno avrà luogo la settimana
prossima. Sarebbe desiderio di Israele coordinare il ritiro da Gaza con l’Autorità palestinese del nuovo presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Ci sono stati numerosi incontri tra responsabili israeliani e palestinesi. Il tentativo è quello di far sì che siano adottate tutte le disposizioni possibili per mettere i territori sotto il controllo dell’Autorità palestinese. Ma questo non riguarda le organizzazioni terroriste - la jihad islamica e Hamas che hanno giurato di continuare gli attentati, prima, durante e dopo il disimpegno. Israele non lo permetterà. L’Autorità palestinese sarà in grado di fermarli? È la questione chiave del disimpegno: una situazione nuova potrà nascere solo a condizione che questo avvenga nell’ordine e nella tranquillità e che sia seguito
da un vero e proprio cessate il fuoco. Così si concretizzerebbero le prospettive
di una ripresa del dialogo politico tra israeliani e palestinesi. Ma per farlo, sarebbe necessario che Abu Mazen passasse dalle parole ai fatti. In occasione del summit di Sharm el-Sheikh all’inizio dell’anno, si era impegnato solennemente a mettere fine alle azioni delle organizzazioni terroristiche. Fino a oggi, molto poco è stato fatto. Il futuro di una ripresa del processo di
pace dipende attualmente dalla questione seguente: l’Autorità palestinese è pronta o no a dimostrarsi determinata a contenere queste organizzazioni,
con la medesima forza che Israele ha dimostrato andando avanti con il suo
piano di disimpegno? Tutti quelli che, come noi, sperano di vedere una nuova alba sorgere sul Medio Oriente, aspettano con impazienza di conoscere
la risposta palestinese al gesto di apertura di Israele.
Sempre a pagina 3 troviamo un articolo di Anna Momigliano, basato su una conversazione con Yehuda Ben Meir, esponente del Partito Nazionale Religioso, ed esponente di quella parte del sionismo religioso capace di fare i conti con la realtà demografica che impone la scelta tra la difesa della "Terra di Israele o dello Stato di Israele".

Ecco l'articolo, "Il premier segue l'esempio di Moshe Dayan, i coloni devono capirlo":

Tel Aviv. «Il popolo è con Gush Katif». È lo slogan che i manifestanti contro il disimpegno scandiscono davanti alla Stazione Centrale di Tel Aviv. Pochi isolati più in là,Yehuda Ben Meir, che ha rappresentato per decadi alla Knesset il partito nazional religioso cui i coloni fanno riferimento,non la pensa allo stesso modo: «il fatto è che a questo punto dobbiamo decidere cosa è più importante difendere,se la Terra d’Israele o lo stato d’Israele.E se vogliamo preservare lo stato d’Israele, allora bisogna riconoscere che i confini attuali
sono obsoleti», spiega l’ex viceministro degli esteri, 65 anni e kippah all’uncinetto tipica del sionismo religioso. «La logica del disimpegno da Gaza è abbastanza semplice: è una decisione storica,tutt’uno con la barriera difensiva, da parte di Sharon, della Knesset e del popolo israeliano, che si sono detti "non possiamo più aspettare per fare la pace e definire i nostri confini nazionali". Ha presente cos’ha detto Moshe Dayan dopo la Guerra dei sei giorni?». Temo di non ricordarmelo. «Ha detto: abbiamo sconfitto gli arabi da Sud, e li abbiamo sconfitti da Nord,adesso starò al telefono ad aspettare una chiamata in cui ci chiederanno di fare la pace. Con l’Egitto abbiamo fatto la pace e modificato il confine, con la Siria e la Giordania abbiamo firmato la pace e anche lì abbiamo modificato il confine. Ma Giudea, Samaria e Gaza sono un capitolo a parte, avete una parola in italiano per "balagan"?» Bordello. «Già. Fino al 1993 non c’era un partner cui rivolgersi, perché Arafat non riconosceva l’esistenza di Israele e Israele non vedeva in Arafat il rappresentante dei palestinesi. Il punto è questo: dopo trent’anni, coi palestinesi non possiamo più aspettare al telefono, come diceva Dayan. Sharon
non è stato il primo a suggerire un ritiro unilaterale, è solamente l’unico che ha avuto il coraggio di portarlo avanti». In molti temono che l’atteggiamento
unilaterale di Israele possa essere interpretato come una vittoria del terrorismo. «Sicuramente Hamas dirà che è una vittoria. Ma non e’ una tragedia.
E’ evidente che Gaza non sia parte d’Israele, questo e’ un fatto. La logica di Netanyahu, che ha lasciato il governo in polemica la settimana scorsa, può sembrare appropriata: cederemo Gaza, ma solamente quando i palestinesi avranno firmato un accordo definitivo. In realtà manca in senso strategico, tanto che è impensabile raggiungere un accordo definitivo nei prossimi anni, e intanto Israele si trova da decenni senza avere una chiara idea dei propri confini». Molti vedono in Ariel Sharon il primo capo di governo che abbia tentato di definire, o avviare la definizione, dei confine dello stato ebraico.«Non si tratta di confine definitivi, ma di entrare nella logica di tracciare una linea. Con Gaza è facile, la barriera può dare un’idea, ma è plausibile che sia spostata. Il punto è che una linea va tracciata, perché volere mantenere il controllo su ogni centimetro della Terra d’Israele significa, in realtà, distruggere lo stato d’Israele». Perché? «L’ideale sionista su cui si basa Israele è questo: uno stato ebraico e democratico. Ma perché Israele conservi il proprio carattere ebraico e rispetti insieme le minoranze (principio alla base della democrazia) è necessario che mantenga una solida maggioranza ebraica. E’ per questo che l’ideale messianico di Grande Israele cui si rifanno i coloni di Gush Katif in realtà è diametralmente opposto all’ideale sionista, che si basa su due stati e due nazioni, come stabilito nel 1949». Perché gli arabi musulmani sarebbero la maggioranza? «Poco importa se lo sarebbero subito o nel giro di dieci anni. Pochi giorni fa ho parlato con un rappresentante del governo iraniano, che mi ha esposto la posizione di Teheran: "non la distruzione di Israele, ma un unico stato democratico". Era solo una questione di eufemismi, perché uno stato unico significa la fine di Israele». Sono state mosse molte critiche alla barriera difensiva, perché non rispecchia iI confine del 1967.«Ripeto,non è detto che il confine tracciato dalla barriera debba essere definitivo. Ma i confini del 1967 sono obsoleti, e questo vale sia per i confini del 4 giugno 1967 che per il confine del 10 giugno 1967 (prima e dopo la Guerra dei sei giorni, ndr)». Può chiarire? «La Grande Israele non ha alcun senso strategico, questo è certo. Ma è obsoleta anche la posizione ufficiale
dell’Anp, che ritiene sacri i confini del 4 giugno. Prendiamo la Cisgiordania, lì ci sono molti più coloni ebrei rispetto a Gaza.Di questi coloni, però, l’80 per cento vive in un piccolo territorio,che rappresenta appena il 10 per cento della West Bank. Una posizione abbastanza realistica è quella di mantenere questo 10 per cento». Che poi è il territorio annesso in parte dalla barriera.Ma si capisce che i palestinesi preferirebbero ritornare ai confini del 1967. «Questo non è del tutto vero: per esempio i palestinesi insistono
nel chiedere un piccolo corridoio che permetta la continuità territoriale tra
Gaza e West Bank.Nel 1967 non c’era alcuna continuità però: Gaza era territorio egiziano e la West Bank Giordania. Quindi si può scambiare un corridoio per concedere la continuità in cambio dei più grandi insediamenti della Cisgiordania».
IL FOGLIO pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Rolla Scolari "Il ritiro da Gaza è una mossa vitale, parola di rabbino", che riportiamo:
Gerusalemme. Il fronte arancione dell’antiritir si è riunito ieri a Gerusalemme,
nella città vecchia, per pregare e protestare contro il disimpegno dalla Striscia di Gaza che inizierà la settimana prossima. Alla Knesset, intanto, l’ex ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu, ha tenuto il primo discorso dopo le sue dimissioni, invitando i deputati del Likud, il partito suo e del suo antagonista, il premier Ariel Sharon, a opporsi al piano di disimpegno. "Mi rivolgo a tutti coloro che comprendono questo danno: dovete unire le forze e fare la cosa giusta. Non so se il ritiro possa essere fermato del tutto, ma sicuramente è ancora possibile bloccarne le prime fasi", ha detto con tono accorato Netanyahu davanti al Parlamento israeliano. A guidare i manifestanti sotto le mura occidentali di Gerusalemme c’erano anche gli ex capi rabbini vicini alla destra dura: Avraham Shapira, Mordechai Eliyahu e Ovadia Yosef, leader spirituale del partito ultraortodosso Shas. In una lettera inviata
a radio Israele, due giorni fa, Shapira si è scagliato violentemente contro il piano di disimpegno. Il religioso ha scritto che gli abitanti degli insediamenti "devono fare tutto ciò che è in loro potere", senza specificare i mezzi da utilizzare, per evitare che i soldati li "caccino" dalla loro terra. Gli stessi toni sono stati usati dal rabbino Eliyahu, che ha invitato i soldati a non eseguire gli ordini dell’esercito e quindi a disertare. "Secondo la legge ebraica – riporta il quotidiano israeliano Jerusalem Post, citando un comunicato di Shapira e Eliyahu – è proibito aiutare i colpevoli (della ‘deportazione’ degli ebrei dalla loro terra, ndr), perciò decretiamo che è vietato partecipare al blocco delle strade per Gush Katif e impedire agli ebrei di usarle". Le parole dei rabbini degli insediamenti e di tutti i religiosi vicini alla destra estrema e al movimento arancione antiritiro incoraggiano i molti giovani infiltrati all’interno della Striscia e i membri dei partiti più oltranzisti a opporre ogni tipo di resistenza all’entrata dell’esercito nelle zone da sgomberare. Ieri, la procura generale ha annunciato la "deportazione" – come l’hanno definita i simpatizzanti del ragazzo – di Sa’adia Herskopf, israeliano con cittadinanza americana e attivista del gruppo religioso estremista, oggi fuori legge, Kach. Insieme con altri membri del movimento, il giovane diciottenne era stato messo, all’inizio della settimana, in stato di detenzione amministrativa per ordine stesso del ministro della Difesa, Shaul Mofaz. E’ stata poi emessa la decisione della sua espulsione negli Stati Uniti per un periodo di quaranta giorni. "Penso sia fondamentale allontanare gli elementi che possono creare violenze inutili – spiega al Foglio il rabbino israeliano, d’origine italiana, Roberto Arbib, da Tel Aviv – una persona del genere può creare tensione. Se non ci fosse una situazione d’emergenza mi sarei opposto a questa mossa, ma oggi è ben visto tutto ciò che può limitare le violenze". Il rabbino Arbib fa parte di un gruppo – "la via di Abramo" – che si occupa del dialogo tra ebrei e musulmani. E’ uno dei religiosi che in Israele non si sono opposti al piano di ritiro del primo ministro Ariel Sharon. Secondo Arbib, nel breve periodo, il disimpegno può essere un passo positivo per dare una possibilità alla pace. Allo stesso tempo, si tratta "di un’illusione, perché la vera pace passa attraverso il dialogo tra la società palestinese e quella israeliana". Il rabbino d’origine italiana si oppone inoltre alle dichiarazioni oltranziste degli uomini di religione vicini al movimento arancione. "E’ una posizione molto pericolosa e irresponsabile, incitano a disobbedire agli ordini dell’esercito, toccando l’ultimo tabù israeliano che univa tutti: la sacralità dell’esercito, istituzione in cui confluiscono sia religiosi sia laici. E’ un passo che avrà ripercussioni sul futuro della società e creerà una spaccatura difficile da cancellare. E’ come se assistessimo alla nascita di due popoli israeliani, una novità assoluta".
Il rabbino David Rosen, capo dell’American Jewish Comittee, parla della comparsa di un nuovo fenomeno. Rosen racconta al Foglio che nell’ebraismo non c’è un’istituzione gerarchica come nella Chiesa cattolica e spiega che le prese di posizione di un rabbino non sono legge. "Nella tradizione ebraica un rabbino non è mai stato seguito come un guru, si tratta di un fenomeno completamente nuovo"; gli abitanti degli insediamenti seguono questi personaggi "perché dicono loro esattamente quello che vogliono sentirsi dire". Rosen pensa che il disimpegno da Gaza sia una mossa molto positiva e vitale
per lo Stato d’Israele. E’ convinto che l’influenza dei rabbini più oltranzisti sia limitata a un piccolo e rumoroso gruppo e che la maggioranza degli israeliani sia dalla parte del primo ministro Sharon. "E’ il governo che decide" Il rabbino Shalom Bachbut, capo della piccola sinagoga italiana di Gerusalemme e di una scuola religiosa in cui tiene lezioni sia in ebraico sia in italiano, si definisce una persona senza grande esperienza politica. Al Foglio spiega però fino a dove possa arrivare il coinvolgimento politico
di un uomo di religione. "Dal punto di vista della norma ebraica le questioni politiche sono delegate a un tecnico, come le questioni di salute sono delegate a un medico. In questo caso, il tecnico è il governo. Il rabbino può esprimere un’opinione, una volta valutata la posizione del tecnico. Ma è il governo che decide". Bachbut pensa che il ritiro sia una decisione positiva, una mossa che era necessario prendere. "C’è stato un errore alla base: andare a Gaza e mettersi così in una situazione difficile da gestire". Ieri però, Bachbut non era d’accordo con l’espulsione dell’attivista del movimento illegale Kach: elementi del genere, ha spiegato, sono più controllabili da qui.
A pagina 5 de L'OPINIONE un PUNTO DI VISTA contrario al ritiro unilaterale da Gaza, quello di Daniel Pipes , ben argomentato nell'articolo "Oggi via da Gaza, domani da Gerusalemme", che riportiamo:

Coloro che criticano Israele hanno ragione? L’antisemitismo dei palestinesi, la loro industria del suicidio e le azioni terroristiche sono frutto "dell’occupazione" della Cisgiordania e di Gaza? Ed è vero che questi orrori avranno fine solo in seguito al ritiro dai Territori dell’esercito e dei civili israeliani? La risposta non tarderà ad arrivare. A partire dal prossimo
15 agosto, il governo israeliano sfratterà circa 8.000 israeliani residenti a Gaza e consegnerà le loro terre all’Autorità palestinese. Oltre a costituite un singolare evento della storia moderna (nessuna altra democrazia ha sradicato
forzatamente migliaia di propri cittadini che professano una certa religione dalle loro legittime abitazioni) ciò rappresenta altresì un insolito esperimento dal vivo di scienza sociale. Ci troviamo al cospetto di una linea di demarcazione ermeneutica. Se coloro che criticano Israele hanno ragione,
il ritiro da Gaza non farà altro che migliorare gli atteggiamenti dei palestinesi nei confronti dello Stato ebraico, arrivando a porre fine all’istigazione della violenza e sancendo un forte calo degli attentati
terroristici cui farà seguito l’apertura di nuovi negoziati e un accordo globale. Dopotutto, la logica vuole che se "l’occupazione" rappresenta
il problema, una volta che essa cesserà, anche se in modo parziale, si arriverà a una soluzione. Ma io preconizzo un esito ben differente. Visto che circa
l’80% dei palestinesi continua a non voler riconoscere la reale esistenza di Israele, i segnali di debolezza mostrati dallo Stato ebraico, come l’imminente ritiro da Gaza, provocheranno piuttosto un’intensificarsi dell’irredentismo
palestinese. Acquisendo il loro nuovo dono senza mostrare un briciolo di gratitudine, i palestinesi concentreranno la loro attenzione su quei territori che gli israeliani non hanno evacuato. (Questo è quanto accadde dopo che l’esercito israeliano abbandonò il Libano.) Il ritiro non sarà fonte di cortesia ma di una nuova euforia di rigetto, di una maggior frenesia di rabbia
antisionista, e di una recrudescenza della violenza antiisraeliana. Gli stessi palestinesi lo dicono apertamente. Ahmed al-Bahar uno dei leader di
Hamas a Gaza asserisce che: "Dopo oltre quattro anni di Intifada, mai prima di oggi Israele si è trovato in uno stato di retrocessione e di debolezza. Gli eroici attacchi di Hamas hanno smascherato la debolezza e la volubilità dell’impotente establishment di sicurezza sionista. Il ritiro segna la fine del sogno sionista ed è indice del declino morale e psicologico dello Stato ebraico. Noi riteniamo che la resistenza sia l’unico mezzo in grado di esercitare pressioni sugli ebrei". Sami Abu Zuhri, un portavoce di Hamas, sostiene altresì che il ritiro è "dovuto alle operazioni di resistenza palestinesi e noi continueremo a opporre resistenza". Altri personaggi sono
ancora più precisi. Nel corso di una manifestazione popolare svoltasi a Gaza City lo scorso giovedì, circa 10.000 palestinesi si sono messi a ballare, cantare e a scandire lo slogan: "Oggi a Gaza, domani a Gerusalemme". Domenica, Jamal Abu Samhadaneh, leader dei Comitati per la Resistenza Popolare di Gaza, ha annunciato quanto segue: "Trasferiremo le nostre cellule in Cisgiordania" ed ha ammonito che "Il ritiro non sarà completo senza la Cisgiordania e Gerusalemme". Ahmed Qurei dell’Autorità palestinese asserisce altresì: "La nostra marcia si fermerà solo a Gerusalemme". Le intenzioni palestinesi
preoccupano perfino la sinistra israeliana. Danny Rubinstein, esperto di questioni arabe per Ha’aretz, osserva che il premier Ariel Sharon ha deciso di lasciare Gaza solo dopo un intensificarsi della carneficina anti-israeliana.
"Anche se quegli attacchi non ebbero luogo perché Sharon escogitò l’idea del disimpegno, i palestinesi sono sicuri che sia il caso di perpetrarli e ciò rafforza l’opinione da loro nutrita che Israele capisce solo il linguaggio degli attacchi terroristici e della violenza". Israel National News ha raccolto altri commenti della sinistra: Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia e leader del Partito Yahad/Meretz: "Esiste un reale pericolo che in seguito
all’attuazione del piano di disimpegno, in Cisgiordania si intensificheranno gli episodi di violenza, diretti a ottenere la stessa cosa raggiunta a
Gaza". L’ex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami, membro del Partito laburista: "Un ritiro unilaterale perpetua l’immagine di Israele, che lo ritrae
come un paese che sotto pressione fugge via (…) Fatah e Hamas pensano di doversi
preparare alla terza Intifada – stavolta in Cisgiordania". Ami Ayalon, ex capo del Servizio di sicurezza: "Il ritiro senza ottenere nulla in cambio è soggetto ad essere interpretato da parte di alcuni palestinesi come una resa. (…) C’è
un grosso rischio che subito dopo l’attuazione del piano di disimpegno vi sarà una recrudescenza della violenza". Eitan Ben-Eliyahu, ex comandante dell’aeronautica militare: "Non c’è il rischio che il ritiro garantirà una stabilità a lungo termine. Il piano di disimpegno così come è può solo condurre a una recrudescenza del terrorismo". Prevedo che gli eventi proveranno che le critiche a Israele sono totalmente infondate ma coloro che le hanno
mosse non impareranno nessuna lezione. Senza lasciarsi toccare dai fatti, costoro chiederanno ulteriori ritiri israeliani. Il danno auto-inflittosi da
Israele sta preparando la via ad altri disastri.
Da parte nostra osserviamo che Pipes, cui certamente le ragioni non mancano, sembra trascurare due punti: in primo luogo il fatto che il ritiro ha motivazioni strategiche, relative ai rapporti demografici tra arabi ed ebrei, che esulano dalla ricerca di un accordo con i palestinesi.
In secondo luogo che avviene dopo che pesanti colpi sono sati inflitti al terrorismo palestinese e dopo l'uscita di scena di Arafat.
Cosa che non assicura Israele dalla recrudescenza terroristica paventata da Pipes, ma che sicuramente sgombra il campo da un equivoco che il suo artcolo potrebbe forse alimentare.
Se al contrario di quanto Pipes teme, dopo il ritiro la ripresa del terrorismo no ci sarà, ciò non darà automaticamente ragione a quanti vedevano nell'"occupazione" la causa delle atrocità palestinesi contro i civili israeliani.


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