LIBERO di giovedì 11 agosto 2005 pubblica a pagina 17 un reportage da Gaza di Angelo Pezzana, "L'esodo dei coloni. "Lasciamo la casa ai nostri assassini" " che riportiamo:Li hanno chiamati estremisti, c'era chi addirittuta prevedeva la guerra
civile, ma l'impressione che abbiamo entrando a Gaza, nella regione sud di Gush
Katif (campo del raccolto), dove si trovano gli insediamenti di coloro che hanno
rifiutato l'ordine di sgombero, è totalmente pacifica. E' vero, nessuno
nell'insediamento di Kfar
Darom ha ancora accettato di andarsene e i giorni si susseguono come se
l'ordine di evacuazione non fosse mai stato emesso. Roni Ben Ephraim dirige uno
stabilimento che provvede a spedire in tutto il mondo la pregiata insalata organica priva di insetti il cui giro d'affari è di cento milioni di dollari l'anno. " Stiamo evadendo gli ordini dei nostri clienti puntualmente, anche quelli della prossima settimana, quando virtualmente qui dovrebbe essere tutto chiuso, finito. Abbiamo ordini fino a tutto il prossimo anno. Saremo puntuali nelle consegne ", dice Roni, ma quando gli chiediamo come farà, ci dice "con l'aiuto di Dio", che è poi la risposta che più o meno tutti ci daranno
quando gli ricordiamo che ci sono solo più pochi giorni allo smantellamento
di tutto, abitazioni, aziente, sinagoghe, cimiteri. Nell'azienda di Roni lavorano 250 persone,per nulla preoccupate del fatto che fra pochi giorni toglieranno persino la corrente elettrica. Sorridono, impacchettano insalata come ogni altro giorno. Il loro è un messaggio semplice: "noi vogliamo restare, speriamo che il governo faccia marcia indietro, noi non useremo mai la violenza,ma i terroristi devono sapere che non sono loro ad averci cacciato".
Hadassa Dayan ha 33 anni, prima di venire in Israele 18 anni fa, abitava nel New Jersey. Con un bambino in braccio e un altro nel passeggino ci dice sorridendo che lei è felice, sì, la vita è difficile, i tre figli della sua vicina hanno perso le gambe in attentato terroristico, ma noi siamo qui, dice,
perchè è scritto nella Bibbia. Entrando a Nezer Hazzani ci accoglie una grande scritta, " Crediamo nel Signore in piena fede", ed è a Iddio onnipotente che si volge lo sguardo e l'indice sollevato come per dire ci penserà Lui, di Anita Saperstein, una energica signora di 59 anni, 5 figli, arrivata nel '69 da Brooklyn. " Fino a sei mesi fa eravamo 80 famiglie e 500 persone, ma quando si è capito che ce ne saremmo dovuti andare, tantissini si sono trasferiti da noi, oggi ci sono 200 famiglie. Ma io non voglio andare via, anche se mi hanno offerto il 60% del valore della mia tenuta agricola. Quando sono arrivata
qui non c'era un filo verde, piante,uccelli, niente. Qui, lavorando la terra, ho riscoperto le mie radici ebraiche. I miei nonni sono venuti in Amerca dalla Germania e dalla Polonia, erano dei rifugiati, è lo stesso sentimento che adesso purtroppo provo anch'io. Dal 17 agosto qui si fermerà tutto. Già oggi non posso più andare a fare la spesa perchè non sono più arrivati i rifornimenti al supermercato. Mi coricherò per terra, consegnerò la chiave di casa, e mi lascerò portare via. Non alzerò un dito contro i soldati, ci mancherebbe, ho un figlio nell'esercito. Ma non tutti la pensano così. Nel piccolo insediamento di Pe'at Sadè 22 famiglie sono pronte per partire, davanti alle loro case a un piano con i tetti rossi si ammucchiano
gli scatoloni per il trasloco. Andranno tutti ad abitare in un moshav nel
Negev, Mashkim, fondato dopo la guerra da sopravvissuti della Shoah.Continueranno a stare insieme. Anche le serre intorno sono già vuote, non ci lavora ormai più nessuno. Newè Dekalim è l'insediamento più grande del Gush Katif, quasi tremila abitanti. E' pieno di verde, le strade che lo percorrono sono spaziose e alberate, le abitazioni decisamente eleganti, è una piccola città che nulla ha di diverso da un moderno kibbutz. Mentre mangiamo una pita (una saccoccia di pane piena di insalate e humus, energetica e buonissima) ci avvisano che non lontano da noi è in corso una sparatoria da parte dei palestinesi a Kan Yunis. Niente di nuovo, ci dicono, ma i colpi di fucile aiutano a capire meglio l'atmosfera di chi vive continuamente sotto attacco
del terrorismo. Quasi a Rafiah, al confine con l'Egitto, c'è Shirat Hayam,
la canzone del mare, qualche casa e un po' di tende sulla spiaggia, quaranta
persone in tutto. Fra loro vive Nadia Matar, sei figli,fra i portavoce di Gush Katif la più accesa accusatrice di Sharon e della politica governativa. Difende le sue ragioni come se stesse tenendo un comizio, rifiuta ogni compromesso.
"Non lontano da qui ", ci dice, " i terroristi palestinesi hanno ucciso una
donna incinta e le sue quattro figlie mentre viaggiavano in auto. Tali
Chatuel, la mamma, è morta di colpo. Poi si sono avvicinati alle bambine e
hanno sparato dai finestrini nella testa a tutte e quattro freddandole.
Dobbiamo dare la sua casa ai suoi assassini ?", ci chiede guardandoci fisso
negli occhi. Ma se l'abbandono di Gaza proccupa chi deve partire, ci sono i beduini, numerosi nella regione che verrà lasciata all'Autorità palestinese, che lo sono ancora di più. Con la partenza dei coloni perderanno il lavoro e, in più, temono per la loro vita, dopo decenni di buona collaborazione con Israele. Non hanno altro luogo dove andare. Guardano al loro futuro con lo sguardo di chi sa che i nuovi che arriveranno non avranno nei loro confronti un atteggiamento di comprensione. Lavorare con gli israeliani, invece di assassinarli, per i nuovi padroni rappresenterà una colpa. Il governo Sharon condivide con profonda comprensione lo stato di sofferenza nel quale vivono i cittadini che devono essere evacuati da Gaza, l'ha detto e scritto in tutte le
maniere.Ma il termine del 17 agosto è tassativo. Chi per quel giorno non
avrà obbedito alla legge, dovrà essere portato via con la forza. Anche se da
ogni parte arrivano appelli alla pace e al buon senso, non manca certo il
timore che qualche fanatico scalmanato possa commettere qualche atto
terribile. Il ministro della difesa Shaul Mofaz ne ha dettato chiaramente le
regole. 1) Le armi non verranno usate, 2) l'esercito e la polizia
evacueranno le 15 colonie di Gaza disponendosi in forma di sei cerchi
concentrici, 3) chi provvederà direttamente allo sgombero non porterà armi,
4) il coordinamento avverrà con l'Autorità palestinese, che ha richiesto espressamente la distruzione di tutte le strutture abbandonate sul territorio da Israele. Chissà se questa richiesta palestinese sarà riportata dai media internazionali, ai quali dovranno rinunciare all'accusa contro Israele di aver lasciato terra bruciata per sua scelta.
Per la festività dello Shabbat il 14 agosto si ferma ogni attività, e sarà
lo stesso domenica 15, ricorrenza di Tishà be Av (il nono giorno del mese di
Av), quando furono distrutti (589 AC e 70 AD) il primo e il secondo Tempio.
Davanti a quel che ne rimane, il Muro Occidentale (o muro del pianto), sono
annunciate manifestazioni di sostegno ai coloni, legittime, ma che
preoccupano fortemente chi avrà il pesante compito di mantenere l'ordine e impedire contrapposizioni che potrebbero provocare quel che da ogni parte si teme possa succedere.
Giorni caldi non solo a Gaza, ma in tutta Israele. Una prova difficile per
una democrazia che è riuscita a rimanere tale malgrado sessant'anni di guerre per difendere il proprio diritto di esistere. In questi giorni ci sarà la prova più grande, quella che vedrà ebrei in entrambe le parti. Siamo una famiglia, è un detto comune in Israele. Speriamo lo ricordino tutti.
A pagina 9 LA STAMPA pubblica un reportage di Fiamma Nirenstein, "Gaza. Tra la rabbia dei coloni che restano".
Ecco il testo:A cinque giorni da quando qui tutto sarà solo un cumulo di rovine, l’impresa agricola di Kfar Darom, nell’insediamento più meridionale del Gush Katif, funziona a pieno ritmo. E non ha nessuna intenzione di fermarsi. La rimozione di ciò che sta per accadere è una sindrome che sembra colpire circa metà degli 8000 residenti della Striscia di Gaza che stanno per essere sgomberati. D’altra parte, al di là di questo incredibile fenomeno, molti cominciano a fare le valigie e a smantellare le strutture, senza clamore. Nella Striscia ci sono più di quaranta gradi ma il capannone dentro è fresco e profuma di verde: i suoi dirigenti, i suoi contadini, i suoi operai, le sue macchine stanno per fermarsi per sempre e non lo vogliono accettare. Kfar Darom, la cittadina più a Sud è fra le più ideologizzate, fra le più decise a resistere allo sgombero. Nessuno, ci assicurano, qui aderirà alle richieste di andarsene entro il 15 del mese, o al massimo nelle 48 ore fra il 15 e il 17. La pena è draconiana: lasciare tutti i propri beni dietro di sé, per sempre, e non ricevere i rimborsi che invece si ricevono ottemperando a quella che è ormai legge dello stato, il disimpegno. Qui nessuno se ne dà per inteso: «Pregheremo - dicono - ci sarà un miracolo».
Le insalate, nella fabbrica di Kfar Darom, convergono in grandi casse di plastica verde in un capannone dove parecchi ragazzi e ragazze (lavoratori filippini o africani, oppure volontari con simpatia ideologica per i settler) le selezionano, le frugano dentro il lucido cuore verde, le mettono sotto fogli di plastica due a due. Per quanto tempo? Che intendete di fare di queste macchine? Che cosa delle enormi serre bianche che sulla sabbia producono insalata, sedani, basilico, prezzemolo, tutto organicamente e senza insetti di sorta? Chi impacchetterà le macchine? Chi impiegherà i lavoratori? Dove andranno a finire le ordinazioni?
Roni Ben Ephraim il direttore, comincia dall’ultima domanda: «Tutto continuerà, anche fra un anno. Non abbiamo mai mancato una consegna dalla nostra nascita, abbiamo acquirenti in tutto il mondo come anche le altre imprese di verdura e frutta organiche del Gush katif, che rappresentano l’80 per cento dei prodotti israeliani. Non mancheremo le consegne né questa settimana, né la prossima, né fra un mese né mai..». Per favore, signor Ben Ephraim, scenda su questa Terra: questa fabbrica fra cinque giorni chiude i battenti, perderete tutti i macchinari oltre al lavoro, l’insalata resterà a seccare nelle serre o marcirà nei frigoriferi, se non vi spicciate a prepararvi a uscire. «Noi non ce ne andiamo, restiamo qui con le insalate, con i nostri cari, preghiamo che ci sia un miracolo, io non ho fatto niente di male e nemmeno i miei figli, o i miei nipoti, perché ci devono mandare via da una bella terra, una bella casa, una bella azienda? Ecco vuole un’insalata? Gliela regalo. Se torna l’anno prossimo, ne troverà un’altra uguale, anzi, migliore».
I ragazzi intorno annuiscono, le ragazze con la gonna lunga di jeans e i ragazzi con la kippà sulle ventitrè spiegano che nessuno se ne andrà, verrà la polizia, verranno i militari, nessuno alzerà un dito naturalmente, faranno quello che devono fare. Ci porteranno via? Ok, ci portino via. Porteranno via la fabbrica a pezzi? Ok, la portino via. Noi non cediamo, non muoveremo un dito, non ci arrenderemo ai terroristi come fa Sharon, non ubbidiremo a un ordine insulso.
Eppure, ci racconta qualcuno, anche in questo insediamento c’è chi tratta col governo, chi vuole impacchettare. Sharon non si è arreso nemmeno davanti alle dimissioni di Netanyahu, si comincia capire che è l’ora di fare le valigie. A Nevet Dkalim di fatto la capitale del Gush, non troviamo ormai neppure il solito ristorante: chiuso. E ha chiuso anche il supermarket, e il negozio di cosmetici. Qualcuno accetta la sconfitta.
Molti soffrono della sindrome della negazione semplicemente perché lo strappo è eccessivo, perché il governo non ha saputo andare incontro alla domanda da parte di alcuni villaggi di conservare loro la vita collettiva cui sono abituati, di trasferire il gruppo tutto insieme, soprattutto dopo che in questi quattro anni e mezzo hanno avuto tante perdite a causa degli attacchi con i missili Kassam e con i Kalashnikov.
Poco più a Nord nella Striscia, a Netzer Hazani, su un grande prato verde che funge da piazza in un villaggio senza automobili, in vista del mare, una signora di 59 anni, Anita Tucker sorride quando le chiediamo se è proprio lei la regina dei cherry tomato, quei pomodorini brillanti e rossi che ormai sono su tutte le tavole. È lei: «Sono immigrata da Brooklin nel 1967. Tutto qui era vuoto, sabbia e dune. Dir el Ballah, che si vede in lontananza, ora è una grossa cittadina araba, allora era piccola, e i cittadini, le prime persone che abbia incontrato dopo giorni di silenzio totale, vennero a dirmi "benvenuta". Avevo già due figli, ora ne ho cinque. Mi sentivo un po’ pazza, ma mi entusiasmavano il mare e l’impresa di far fiorire il deserto, proprio come al tempo del primo sionismo. In più, per noi che siamo religiosi, valeva molto, come del resto ancora oggi, la memoria della presenza di Abramo e di Isacco, che sono stati proprio qui, come è scritto nella Bibbia. I miei pomodori sono il 15 per cento di tutta la produzione israeliana, abbiamo fatto tutto con le nostre mani, ho tante ordinazioni e penso che le onorerò una a una nei mesi a venire. Uno dei miei clienti più importanti è Marks and Spencer».
Anita che ha un buffo cappellino con la visiera su un viso bruciato dal sole, racconta che lei e i rappresentanti di centinaia di altre famiglie nella zona hanno cercato di trattare col governo condizioni che apparissero ragionevoli per gli agricoltori, come una ricompensa decente: «E invece oggi si arriva a mala pena al 60 per cento del valore delle nostre proprietà». «Verranno i soldati? Se verranno spiegheremo loro che non devono compiere questo gesto folle e cattivo. E se ci porteranno via con la forza, mi porterò via solo una valigia con le fotografie. Tutto il resto, addio». Cinque bambini ci guardano. Gal, Omer, Benny, Jonathan, Tomer, circa dieci anni, aprono una finestra sul senso dello sradicamento ma anche dell’accettazione che prende piede: «Non saremo più vicini di casa; non andremo più a scuola insieme; abbiamo paura che non faremo amicizia con nessuno per tanto tempo». «Il mio compleanno è fra un mese, non avrò nessuno da invitare». «Mia madre sta per partire, ha preparato tutte le valigie, va via con il mio fratello piccolo, io resto qui con mio padre». «Io no, preferisco non vedere quando la mia casa verrà chiusa». «Io sono andato a vedere la casa che ci hanno assegnato a Nitzan: è bella e mio cugino Daniel abita poco lontano».
A Peat Sade, poco lontano, si capisce che il senso di una realtà incombente e inevitabile lavora velocemente dietro le quinte anche se in queste ore il grande rabbino Shapira lancia di nuovo ai settler l’esortazione a non muoversi e ai soldati a disubbidire: tuttavia la cittadina è ormai vuota, resta qualche famiglia che mette per strada cartoni pieni di vestiti, libri, pentole. Poco lontano, lo zoo del Gush Katif ieri ha smobilitato: i daini, le scimmie, il cammello, i lucertoloni se ne vanno in gabbiette e scatole. Come se la cavano?, chiediamo al direttore David Amichai. «Le scimmie sono traumatizzate ma hanno mangiato, il cammello si impuntava e mordeva, le lucertole si nascondevano. Alla fine, se ne sono andati tutti e io li andrò a trovare a Ashkelon, a Ashdod, dove saranno sistemati, sopravvivranno. Anche io sopravvivrò».
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