Il CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 10 agosto 2005 pubblica un articolo di Lorenzo Cremonesi nel quale si apprende che la barriera di sicurezza israeliana (espressione scritta tra virgolette, a differenza di "muro") sarebbe costituita da 700 chilometri di cemento armato: una clamorosa falsità dato che la maggior parte della barriera è costituita da un reticolato dotato di sensori elettronici.
il "muro di cemento", inoltre, sarebbe alto 10 metri, mentre nella realtà non supera gli 8.
A parte le falsità e le esagerazioni l'articolo si segnala per come ignora le esigenze di sicurezza che stanno alla base della realizzazione della barriera e le molte vite umane che ha contribuito a salvare.
Ecco il testo:Un salotto con due poltrone, un tavolino su cui poggia un vaso di fiori e sullo sfondo la finestra, con tanto di tendine ordinatamente tirate ai lati, che si apre sul panorama mozzafiato di torrenti alpini e ghiacciai. Il tutto disegnato con la massima accuratezza, compresi i colori sgargianti dei fiori che risaltano ancora meglio sullo sfondo di cemento grigio. Quando ci arrivi, appena superato il posto di blocco israeliano da Gerusalemme, rimani colpito dalla forza del dipinto.
E' un murales di almeno 6 metri quadrati, disegnato a un paio di metri da terra sulla contestatissima «barriera di sicurezza» voluta dal governo Sharon per porre fine alle infiltrazioni dei kamikaze dalla Cisgiordania. Un urlo contro la presenza oppressiva del muro, ma espresso in modo ironico, sottile, derisorio.
Unamacchia di colore dissacrante, inquietante, su questa barriera che qui sfiora i 10 metri di altezza, incide la natura e i villaggi degli uomini e alla fine stritolerà i quasi due milioni di abitanti arabi della Cisgiordania in oltre 700 chilometri di cemento. Poco lontano dal murales di Betlemme c'è quello di Abu Dis.
In colore nero è tracciata la silhouette di una bambina, con tanto di treccine svolazzanti, che appesa a un grappolo di palloncini cerca di evadere dalla clausura in cui è costretta. E presso i posti di blocco sulla strada per Ramallah è impossibile non notare il disegno di una scala bianca, ben nitida sul muro, puntata verso il cielo. Ci vuole un disegno per ricordare che si può ancora sognare la libertà.
«Il gruppo di artisti è arrivato qui in città una notte ai primi di giugno. Quasi nessuno li ha visti dipingere. Si sono messi a lavorare in silenzio, con tanto di scale, pennelli e latte di colore. E la mattina dopo ci siamo alzati con i loro dipinti», racconta Maher, il proprietario della farmacia (si è laureato all' università di Trieste) che negli ultimi mesi si è trovata nella zona intrappolata tra i fili spinati sul confine della municipalità di Gerusalemme e il muro israeliano costruito ben nel profondo dei quartieri periferici di Betlemme. Qui nessuno conosce il nome dell'autore. Nessuno sa che è Banksy, il più celebre artista di graffiti inglese. Noto rigorosamente con il nome d'arte, perché in Inghilterra la sua attività è considerata illegale.
Ma famoso ormai in larga parte del mondo. Pochi mesi fa riuscì ad infiltrarsi al Metropolitan Museum di New York e appendere alcuni suoi lavori di denuncia ironica contro la guerra in Iraq. Simili blitz li ha compiuti in passato al Louvre e alla Tate Gallery di Londra. E' l'arte al servizio della dissacrazione, della denuncia politica, la forza di impatto sul pubblico dei graffiti che Banksy, oggi 28enne, scoprì 14 anni fa con la sua passione per i murales. Passione da artista, totale, irrequieta. Allora lasciò la scuola per arrampicarsi sui muri dell'Inghilterra, in barba alla polizia, e disegnare le sue denunce. «Il governo israeliano sta costruendo un muro attorno ai territori palestinesi occupati. E' tre volte più alto di quello che era a Berlino e alla fine sarà più lungo della distanza che separa Londra da Zurigo. Ed è stato dichiarato illegale dagli organismi internazionali. Trasforma la Palestina nella più grande prigione a cielo aperto», ha fatto dire da un suo portavoce.
E' la sua unica spiegazione pubblica alla scelta di venire in Cisgiordania. A un giornalista inglese ha raccontato che una sera, mentre dipingeva, una pattuglia israeliana ha cercato di fermarlo sparando in aria. Ma qui a Betlemme gli israeliani di guardia sembrano assolutamente indifferenti. «Sì, ci hanno detto che esistono nove murales dell'inglese. Sono divertenti», dicono distratti ai posti di blocco. La reazione palestinese è molto più partecipata.
Afferma Simon Awad, proprietario di un ristorante a Betlemme: «A che ci servono questi dipinti? Non vogliamo che venga abbellito il muro. Che sia Banksy o Michelangelo poco importa, ciò che conta invece è che venga abbattuto al più presto».
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