Netanyahu, che spera nel terrorismo e affama gli israeliani: ritratti non certo imparziali di un politico israeliano
su tre quotidiani
Testata:
Data: 09/08/2005
Pagina: 9
Autore: Luigi Geninazzi - Dan Rabà - Michele Giorgio
Titolo: Un laico che piace agli ortodossi - L'addio a orologeria di Bibi non ferma il ritiro - Netanyahu lascia 1, 5 milioni di poveri
Ritratto di Benjamin Netanyahu a pagina 9 dell'AVVENIRE di martedì 9 agosto 2005, a firma di Luigi Geninazzi.
Segnaliamo il passaggio finale, nel quale, senza spiegarne i motivi, Geninazzi accusa Netanyahu di "scommettere" cinicamente sul fallimento del ritiro da Gaza e sulla recrudescenza del terrorismo palestinese, essendo in realtà disinteressato alla sicurezza di Israele.

Ecco il testo, "Un laico che piace agli ortodossi":

È un laico convinto, non un religioso. E la sua netta opposizione al ritiro da Gaza non ha nulla a che vedere con la Bibbia, la teologia dell«Eretz Israel» ed il millenarismo degli ebrei ultra-ortodossi. Il fatto che Netanyahu, con le sue plateali dimissioni da ministro, sia diventato il politico più amato dall'estrema destra israeliana, aiuta finalmente a fare un po' di chiarezza nel dibattito che si è aperto in questi ultimi mesi sul significato e sul destino delle colonie ebraiche dentro i Territori occupati. Il contrasto non è tra laici tolleranti e religiosi fanatici, bensì tra israeliani pragmatici e sionisti "puri e duri" (che non esitano a cavalcare l'intolleranza e il fanatismo degli ultra-ortodossi). Per Benjamin Netanyahu, detto «Bibi», l'intransigenza ultra-nazionalista è una questione di famiglia. Il nonno era un rabbino immigrato dalla Lituania ed il padre è stato segretario di Ze'ev Jabotinsky, l'esponente del sionismo che si opponeva al progetto di una divisione territoriale coi palestinesi in contrasto con Ben Gurion, il padre fondatore d'Israele. Una spaccatura che porterà alla nascita del Likud, il partito della destra israeliana per nulla al mondo disposta a cedere il controllo dei Territori conquistati con la guerra-lampo del 1967. «Bibi» si muove con un disegno politico che fa leva su una tradizione ideologica fortemente radicata nella destra israeliana. E da questo punto di vista è sempre stato coerente, fin da quando, trasferitosi negli Stati Uniti come giovane studente, frequenta i circoli più conservatori della politica americana e intraprende la carriera diplomatica diventando il primo ambasciatore israeliano all'Onu. Inglese fluente, linguaggio duro e frasi ad effetto, Netanyahu non perde occasione di criticare i laburisti israeliani come «timidi e inetti di fronte al terrorismo». In questo modo nelle elezioni del 1996 riesce a spuntarla, per un pugno di voti, su Shimon Peres e diventa primo ministro. Verrà sconfitto tre anni dopo da Barak ed anche dentro il Likud dovrà subire la marcia trionfale di «Arik» Sharon. Ma non si dà per vinto, attende con pazienza che gli si offra l'occasione per tornare alla ribalta. Come responsabile dell'economia non ha fatto male, lo riconoscono tutti. Netanyahu però mira ben più in alto. Ed è per questo che ha deciso di sfidare Sharon. Anche se il giornale dei coloni Hatzofe lo ha osannato perchè ha ridato «una nuova speranza» a tutti coloro che si oppongono al ritiro, l'ex ministro delle Finanze sa benissimo che lo sgombero delle 21 colonie di Gaza e di 4 piccoli insediamenti in Cisgiordania è ormai cosa fatta. Lui, ha dichiarato, non pensa alle cronache di metà agosto, ma ai «libri di storia che scriveranno: Netanyahu non condivideva quella scelta». Nel frattempo non disdegna di dare un'occhiata ai sondaggi che vedono Sharon sostenuto dalla maggioranza degli israeliani ma inviso alla maggioranza dei membri del Likud che lo considerano un traditore. E se, dopo il ritiro da Gaza, l'intera Striscia cadrà in mano ai terroristi di Hamas ci sarà qualcuno che, con grande cinismo, alzerà il dito: «Io l'avevo detto». Sarà «Bibi» Netanyahu, l'uomo che scommette sulla catastrofe.
EUROPA pubblica a pagina 3 l'articolo di Dan Rabà "L'addio a orologeria di Bibi non ferma il ritiro". Rabà nell'articolo si sofferma sulla difficile situazione delle fasce povere della popolazione israeliana, attribuendone la responsabilità alla politica economica di Netanyahu. Nessun riferimento invece agli effetti anche sociali dell'offensiva terroristica anti-israeliana.

Lo stesso si può dire dell'articolo di Michele Giorgio "Netanyahu lascia 1 5 milioni di poveri", pubblicato dal MANIFESTO a pagina 9, che riportiamo:

Ariel Sharon ieri ha avviato contatti con i dirigenti del Likud per impedire che le dimissioni rassegnate l'altroieri da Benyamin Netanyahu in polemica con il ritiro da Gaza portino ad una frattura insanabile nel partito e, in conclusione, ad una scissione tra i cosiddetti «pragmatici» e gli ultranazionalisti. Il premier israeliano sta cercando di assicurarsi il sostegno del ministro degli esteri Silvan Shalom ¡ uno dei dirigenti più popolari nel partito - che ha spesso avuto una posizione ambigua riguardo all'evacuazione delle colonie. In ogni caso il tardivo gesto di protesta di Netanyahu non pare destinato ad avere effetti immediati e anche la Borsa di Tel Aviv, dopo la contrazione del 5% fatta registrare domenica, ieri ha reagito con favore alla nomina del vicepremier Ehud Olmert, uno stretto collaboratore di Sharon, a nuovo ministro delle finanze. Olmert si è affrettato, incontrando il Governatore della Banca d'Israele Stanley Fischer, a garantire che proseguirà la politica economica portata avanti da Netanyahu. Una brutta notizia per i tanti israeliani che hanno pagato sulla loro pelle le conseguenze delle privatizzazioni, dei tagli profondi allo stato sociale, degli alti tassi d'interesse che, secondo il ministro delle finanze dimissionario, hanno portato Israele fuori dalla crisi economica degli anni passati (quelli dell'Intifada palestinese) ma che, senza ombra di dubbio, hanno anche contribuito all'impoverimento progressivo di una fascia consistente della popolazione. Le dimissioni di Netanyahu sono coincise con la presentazione dei dati per il 2004 dell'ente per la previdenza sociale sulle condizioni di vita degli israeliani. Per il sesto anno consecutivo è aumentata la percentuale delle famiglie povere, oltre il 20% (394.000) contro il 19,3% dell'anno precedente. Significa che un milione e mezzo di israeliani conducono un'esistenza fatta di stenti e difficoltà spesso insuperabili.

Di questi, oltre 700.000 sono bambini. Israele ormai ha superato gli Stati uniti in questa triste graduatoria ed è davanti agli altri paesi occidentali. Nel 2004, secondo le stime dell'ente per la previdenza sociale, un bambino israeliano su tre viveva sotto la soglia di povertà. Tra coloro che ogni giorno devono lottare per sfamare le loro famiglie, ci sono anche 160.000 israeliani che hanno un lavoro fisso ma che non produce un reddito sufficiente. Gli stipendi di questi lavoratori sono «da fame», in media appena 1.888 shekel mensili, circa 350 euro. L'impoverimento di una porzione significativa della popolazione ¡ i livelli più preoccupanti si registrano tra gli arabi israeliani (palestinesi con cittadinanza israeliana, 1,4 milioni) e gli ebrei ortodossi - non ha impedito a Netanyahu di continuare a sostenere con passione e generosità i coloni nei Territori palestinesi occupati, i quali godono di aiuti governativi mentre la madri single - come Vicky Knafo che due anni fa percorse a piede oltre 200 chilometri dalla sua cittadina nel Neghev fino a Gerusalemme per protestare contro il ministro delle finanze ¡ si sono viste tagliare i sussidi per i loro bambini. Netanyahu andava orgoglioso dei suoi tagli agli assegni per le famiglie. Nel 2009, affermava fiero, le famiglie riceveranno per i loro figli il 70% in meno dei sussidi assegnati nel 2003. In questo modo il ministro delle finanze dimissionario dichiarava di voler combattere la disoccupazione, ma il risultato più evidente è stato l'aumento della povertà.

Le statistiche ufficiali dicono che i posti di lavoro creati sono part-time e pagati male. «Le dimissioni di Netanyahu purtroppo sono arrivate troppo tardi», si è rammaricato Yuval Albashan, docente all'università ebraica di Gerusalemme ¡ il danno à già stato fatto e porvi rimedio non sarà facile». Secondo Sari Rivkin, direttore dell'istituzione umanitaria Yadid, è necessario considerare con attenzione il caso dei salariati ridotti alla fame mentre i nuovi poveri giungono quasi sempre da famiglie della classe media che non riescono a sostenere gli interessi del mutuo per la prima casa e il pesante regime fiscale. Olmert non farà nulla per aiutarli.
Tali omissioni colorano di cinismo e ipocrisia l'ostentata preoccupazione per gli effetti sociali di politiche che, comunque, hanno salvato l'economia israeliana in una situazione di grave difficoltà dovuta alla guerra scatenata dal terrorismo palestinese.

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