Una domanda a chi contesta la barriera di difesa
prendendo spunto da un articolo pubblicato dal quotidiano lodigiano "Il Cittadino"
Testata:
Data: 04/08/2005
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: Una domannda a chi contesta la barriera di difesa
Ennesimo articolo contro la barriera di sicurezza israeliana, in difesa dei diritti di proprietà e di circolazione dei palestinesi e di un supposto "diritto internazionale" e contro il diritto alla vita degli israeliani, pubblicato apagina 1 e 14 da IL CITTADINO, quotidiano del lodigiano. Ne è autore Davide Bernocchi
Ecco il testo, che riportiamo con una domanda: le organizzazioni di difesa dei diritti umani e caritatevoli citate nell'articolo hanno mai organizzato campagne, o convegni, contro il terrorismo palestinese per fermare il quale la barriera è stata costruita?

Ecco il testo, "Ma che cosa produce quel muro?":

Gli israeliani dicono "barriera di sicurezza", i palestinesi "muro
dell’apartheid" o "muro di annessione".
Al di là della querelle sui termini, ciò che importa è mettere a fuoco
la realtà. E capire che peso ha, nella vita quotidiana di tanti
individui e tante comunità, un’opera che sta mutando in modo radicale,
nonostante la condanna della Corte internazionale di giustizia del
luglio 2004 e il coro di proteste e moniti che si leva in tutto il
mondo, il volto della Terra Santa.
A seguito della decisione della Corte dell’Aja, il governo israeliano ha
rivisto a febbraio il piano iniziale dell’opera, riavvicinando in alcuni tratti il suo tracciato ai confini della Cisgiordania fissati nel 1967 e riconosciuti dal diritto internazionale. Ma ciò è ben lungi dal
rappresentare una soluzione accettabile al problema delle legittimità e
dell’utilità; tanto più che Israele si è riservato di decidere se e in
che forma completare la barriera che, di fatto, si appresta ad annettere
al territorio israeliano alcuni tra i maggiori insediamenti illegali
(dal punto di vista del diritto internazionale) dei coloni ebraici, per
esempio i blocchi Ari’elEmmanuel e Ma’ale Adumim. Del muro si parla,
insomma, ma poco e male.
Per capirne meglio caratteristiche e impatto sulla società locale,
Caritas Italiana ha organizzato a fine marzo il seminario "Il muro
israeliano in Cisgiordania: dati e fatti", al quale hanno partecipato
rappresentati qualificati di realtà del mondo israeliano e palestinese
che lavorano sulla questione, oltre che delle Nazioni Unite.
È stata un occasione preziosa per acquisire conoscenze inedite. Come
quelle fornite da Antigona Ashkar, rappresentante di B’Tselem ­Centro
israeliano di informazione per i diritti umani nei Territori occupati,
che ha presentato il piano del tracciato della barriera di separazione,
termine che la sua organizzazione preferisce a quello di muro, per
evidenziare il fatto che solo il 5% del manufatto sarà costituito di
lastre di cemento, mentre per il resto si presenterà come una
combinazione di componenti (barriera elettronica, strada, fossato,
recinto e altra strada) che arriva a una larghezza di 60, e persino 100
metri.
La ferita, in ogni caso, è lacerante. E quanti anche in Israele
dissentono dal progetto, osservano che il governo Sharon ha non solo il
diritto, ma il dovere di proteggere i propri cittadini nella maniera che
ritiene più opportuna. Però ciò non lo legittima a violare la legalità
internazionale e i diritti umani. E la barriera, costruita non in
territorio israeliano ma palestinese, rappresenta una violazione della
legalità internazionale, oltre a comportare svariate e gravi lesioni dei
diritti dei palestinesi, a livello personale e comunitario.
Allegra Pacheco, di Ocha Opt, ufficio delle Nazioni Unite per il
coordinamento degli affari umanitari nei Territori palestinesi occupati,
ha delineato un quadro preoccupante dell’impatto umanitario che la
barriera sta avendo ed avrà, qualora venisse completata nella forma
prevista. Inoltre ha chiarito che il progetto si colloca nel contesto di
un più ampio "regime di chiusura" imposto ai Territori dalle autorità
israeliane: dal 2000 Tsahal, l’esercito israeliano, ha eretto circa 700
tra posti di blocco e barriere fisiche all’interno della Cisgiordania,
per frazionare e controllare più agevolmente la mobilità dei
palestinesi, ma compromettendone irrimediabilmente la quotidianità.
Alle molte domande sull’azione concreta dell’Onu, Pacheco ha risposto
che fa ciò che gli stati membri decidono che faccia, sottolineando
l’importanza della pressione sui governi nazionali perché si mobilitino
nella fase odierna, in cui gran parte della barriera è ancora un
progetto sulla carta. Ocha ha fornito un interessante rapporto
sull’impatto del muro su Betlemme, la cui continuità territoriale con
Gerusalemme è già interrotta. "Stop the Wall", campagna popolare
palestinese contro il "muro dell’apartheid", era rappresentata da Ahmad
Maslamani e Maren Karlitzky, coordinatrice europea.
Il movimento rappresenta non già il livello politico, ma piuttosto la
società civile palestinese, e ha affermato con forza che è inaccettabile
che il mondo si limiti a offrire denaro e aiuti ai palestinesi, quasi a
comprarne il silenzio...
Una violazione tanto grave della legalità internazionale rischia di
compromettere definitivamente le possibilità di pace: Karlitzky ha
parlato della necessità di sostenere un’azione non violenta di
opposizione al muro, citando in particolare le posizioni inequivocabili
dal Consiglio ecumenico delle chiese, che ha invitato a forme di
disinvestimento nei confronti delle realtà israeliane che non
prendessero le distanze dall’opera.
Ta’ayush, movimento pacifista araboebraico in Israele, ha infine
presentato, per voce di Einat Podjarny, il proprio lavoro di
condivisione della resistenza nonviolenta delle comunità di base
palestinesi contro la barriera, sottolineando la repressione spesso
violenta che il governo israeliano esercita nei confronti del dissenso,
anche quando esso viene espresso in modo pacifico e democratico da
cittadini israeliani.
Accanto a Podjarny sedeva uno dei partner più importanti di Ta’ayush,
Ayed Morrer, leader della comunità del villaggio di Budros, a nord di
Ramallah. Morrer ha parlato della difficoltà delle comunità locali ­che
si vedono confiscare terre, acqua e risorse, o dividere in due il
villaggio ­a fare sentire la propria voce persino alla stessa Autorità
nazionale palestinese, quasi che a Ramallah si fosse convinti che
sottrarsi al muro è impossibile.
«Non è il nostro destino: possiamo farcela!», è lo slogan che Budros ha
scelto per la propria battaglia quotidiana contro la barriera, fatta di
dimostrazioni e ricorsi ai tribunali israeliani. Una battaglia che ha
già ottenuto una vittoria contro l’apparente ineluttabilità del muro:
grazie all’impegno attivo e compatto della comunità, Israele ha rivisto
i propri piani per l’area e ha infine deciso di spostare la barriera,
all’altezza del villaggio, lungo il tracciato della Linea verde. Come
dire che è ancora possibile fare molto. Anche se non resta molto tempo.
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